sabato 18 ottobre 2025
Ettore Fobo
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Nel grembo
oscuro della parola
A Cura di Susanna Musetti
Ci sono libri che non si
leggono, ma si attraversano come stanze oscure, come sogni a ritroso, come
camere d’eco della coscienza. Canti
d’Amnios di Ettore Fobo è uno di questi. Non si tratta
semplicemente di poesia: è un viaggio esoterico, una trance verbale, un labirinto metafisico che prende il lettore e lo trascina
nell’“amnios” stesso della lingua, nel suo liquido
amniotico primordiale.
La poesia di Ettore si muove come un’entità autonoma, simile a
quelle “forme senza custode” di cui parla lui stesso, e che evocano il “pensiero che danza” di René Char. Ogni verso è un fremito,
una
pulsazione che si propaga
come un’onda nel vuoto, come un sussurro
che attraversa l’ombra.
Il poeta si pone al crocevia fra esistenzialismo e mistica negativa, dove l’assenza diventa sostanza e il nulla è grembo.
Fin dalle prime poesie, come Vertigine e Adolescenza, si ha la sensazione di leggere non parole, ma visioni o, meglio, residui di visioni. “Come quando
sulla punta dell’addio / germoglia il
ritorno” scrive ed è impossibile non
pensare alla poetica dell’istante di Rilke, alla sua “Wendung”, quella torsione ontologica che trasforma il dolore in
forma e la forma in conoscenza.
Ettore
è colto, certo,
ma non è mai pretenzioso. I suoi testi traboccano di riferimenti impliciti: Borges (a cui dedica un testo esplicito e
straordinario), Pessoa, Eliot, Mark Strand, Lautréamont, Corbière, ma anche
Rimbaud, che “è ancora qui”, come un
nume tutelare dietro il sipario. È come se ogni poesia si muovesse nell’alveo
di una grande costellazione letteraria, eppure la voce è unica, riconoscibile,
lacerata, intima.
In Sette movimenti notturni
e Salvezza, la parola
si fa ferita, cosmo, pianto
e danza. C’è una continua tensione tra pathos e pensiero, tra oracolo e confessione. In questo senso, la raccolta potrebbe
leggersi accanto a Fari nella tempesta
di Paul Celan,
non solo per l’uso rarefatto della lingua, ma per il continuo confronto
con l’impossibile: “la verità è che la mente umana è nulla, un piccolo
nulla provinciale”.
In testi come Manifesto o Scacco matto,
emerge la vena più ironica e provocatoria di Ettore. Qui il poeta si pone come
outsider del mercato letterario, nemico delle
“azalee” e della “grazia”: vuole seminare tempeste,
incendiare il silenzio, riportare la poesia alla sua funzione arcaica di gesto
insurrezionale, di atto sciamanico. “Ho
bevuto l’incendio dei millenni” scrive
e sembra rispondere, a distanza, all’“ho visto le più belle menti della mia
generazione distrutte dalla pazzia” di
Ginsberg.
Ma la sua è una pazzia controllata, direbbe Foucault, una follia che conosce bene i propri strumenti e che si serve della
maschera per scardinare la realtà.
Un intero ciclo della raccolta si muove nel vuoto post-metafisico. In Né io, né Dio, né network, Ettore dichiara la sua estraneità al rumore di fondo del nostro tempo. È un poeta disconnesso, “idiota e selvaggio”, come Thoreau, come Artaud, come chiunque abbia provato a restare umano nel cuore della tempesta. Non ha account, non ha risposte. Eppure, è proprio
questa “nudità primigenia”
che gli consente di articolare un discorso poetico
non conciliante, radicale, necessario.
L'ultimo componimento, Senza parole, è la chiusa perfetta: un commiato dal logos, una resa al mistero, un invito alla sparizione come forma suprema
di poesia.
Canti d’Amnios è una raccolta che si legge a occhi chiusi, con l’orecchio interiore. Non si offre al
consumo rapido, non cerca l’applauso. Esige tempo, ascolto, disarmo. È un’opera liminare, che interroga più che spiegare, che canta più che dichiarare.
Come scrive Ettore stesso:
In questo immenso
ci perdiamo. E ringraziamo di poterlo fare con un poeta così autentico.
2 commenti:
La tua brava complessità intensa è nota, ma fai bene a stupirti, significa che c'è sempre qualcuno diverso da te che ti comprende appieno, in alcuni aspetti forse più di te stesso; sei davvero una persona, e autore, eccezionale
Grazie Zoon. Di cuore.
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