Sulla saggezza mondana, sull'amore e sulla rinuncia- Bhartrhari

domenica 25 ottobre 2009


La potenza del desiderio, della “brama”, è davvero invincibile nelle parole di questo poeta indiano, la cui vita è avvolta nel mistero più fitto; vissuto presumibilmente fra il I e il V secolo dopo Cristo, in questo poema egli lascia brillare soprattutto la fascinazione per l’elemento femminile. Pare una vera e propria ossessione, amara, poiché la donna sfugge, dolcissima, perché la bellezza è pur sempre il fondamento del mondo. Ma “l’impermanenza” delle cose è dolorosamente avvertita come il limite contro cui s’infrange il desiderio e se talvolta la donna è “la porta dell’inferno” e un desiderio di ascesi filtra fra le maglie della brama, questo sogno di liberazione non vale più del desiderio di abbracciare le ragazze dagli “occhi di cerbiatta”. La pace interiore, frutto dell’ascesi, è talvolta vagheggiata, insieme alla ricchezza, e in questa strana duplicità si consuma l’esperienza di questo poeta che all’amore carnale restituisce la centralità e la sostanza di un sogno. Sul tema della vecchiaia spende parole definitive: il terrore della morte, l’avvizzire delle carni, la perdita degli amici”cari come la vita”, non impediscono però alla brama di rimanere viva e sostanzialmente inappagata. E’ davvero il desiderio erotico il fulcro torno cui ruota tutto un universo di fanciulle inattingibili, la caducità è sigillata in questi versi come la traiettoria di un disincanto impossibile, perché la bellezza femminile trionfa anche su coloro che la spregiano, e il turbamento della giovinezza è destinato a rimanere nella mente, nonostante tutto. In alcune strofe la saggezza è desiderata sopra ogni cosa, ed è la pace di una contemplazione non soggetta al desiderio, ma sostanzialmente è considerata anch’essa impossibile. Il poeta è dunque un essere sospeso fra la ricerca della conoscenza, e la gioia dei sensi, ma entrambe le realtà gli sono negate. E poiché “froda se stesso e gli altri/ chi, da finto saggio, disprezza le ragazze/”, Bhartrhari lascia intendere che il frutto della più ostinata ascesi è una bel calcolata menzogna, sebbene in alcune strofe affiori il desiderio di essa, sostanzialmente egli preferisce però il frutto, a volte amaro, dell’amore. “La vita umana è pochi battiti di ciglia” e viene trascorsa nell’insoddisfazione erotica e nell’ignoranza, vagheggiando tesori di voluttà e ricchezze che immancabilmente sfuggono, non c’è pace alcuna e tutto si consuma, tranne la brama perennemente “fresca”, causa di sconvolgimenti e turbamenti anche nella vecchiaia, che oltretutto ha ancora la sfrontatezza di tremare davanti alla morte. Se i piaceri si allontanano per via della vecchiaia lasciano l’uomo in una “incomparabile angoscia” se sono abbandonati per un atto di volontà donano la tanto agognata “quiete interiore”, ma questa grande pace è il risultato di sforzi immani, ed è attributo comunque di pochissimi, poiché grande è “ la potenza d’illusione “. Al povero poeta non resta che lagnarsi di un’esistenza misera, celebrando una bellezza femminile a cui non può avere accesso. Così in queste strofe emergono idee contrastanti e chi si aspettasse una preminenza della rinuncia rispetto all’amore, della religiosità rispetto alla saggezza mondana , rimarrebbe sorpreso, nel vedere come il poeta mescoli le carte, facendo emergere ora una prospettiva, ora un’altra ad essa contraria. In questa dicotomia fra ascesi e voluttà Bhartrhari lascia comunque che il suo canto si componga di tutti i profumi e le dolcezze dell’antica civiltà indiana, e se il ciclo del Samsara è invincibile, e la beatitudine non può essere nemmeno sfiorata, l’unica possibile elevazione consiste forse nel possedere la conoscenza, senza la quale, ammonisce il poeta, “si è bestie”, ma la conoscenza stessa, tanto mitizzata, pare altresì essere solo un baluginare incerto sul vasto mare dell’ignoranza.

Sulla saggezza mondana, sull’amore, sulla rinuncia- Bhartrhari - Adelphi

Ma la poesia può davvero cambiare il mondo ? - Lawrence Ferlinghetti

martedì 6 ottobre 2009

Vediamo così come i più grandi poeti non solo cambiano il modo in cui vediamo il mondo, ma ci portano anche a dubitare della nostra percezione ed interpretazione della realtà quotidiana. E comprendiamo che la più grande poesia" sovverte il paradigma dominante", attacca in profondità lo status quo del mondo e lo trasforma in qualcosa di nuovo e strano.
Ciò mi porta alla conclusione inevitabile che il poeta deve necessariamente essere un" nemico dello stato". Mi affretto ad aggiungere, prima che gli agenti del Fbi mi bussino alla porta di mattina, che intendo un nemico dello stato di civiltà in cui ci troviamo oggi. La nostra onnivora civiltà industriale ha dimostrato di essere nociva per la terra e per l'umanità, sia dal punto di vista ecologico che medico. Disastrosa, in effetti. Aggiungiamo a tutto ciò l'istituzione di pesanti restrizioni della libertà individuale per mantenere in funzione la nostra macchina imperialista industrial- militare, ed ecco che si ottiene il nemico naturale del poeta, il quale è per definizione uno spirito libero, uno spirito indomito e selvaggio, dedito alla verità e alla bellezza.

Da Ma la poesia può davvero cambiare il mondo ? Parte finale di un saggio tratto da Poesia come arte che insorge- traduzione Alessandro Tuoni e Antonio Bertoli- Giunti CityLights

Poesia come arte che insorge - Lawrence Ferlinghetti

lunedì 5 ottobre 2009

Tentare di definire la poesia è un compito da far tremare i polsi, Ferlinghetti, con questo libro che raccoglie alcune sue poesie e diversi saggi,ci prova, accostando l’orecchio ai suoni provenienti dalla terra, per stornare da se stesso il violento attacco che l’era industriale compie sulla nostra sensibilità. Se” lo status quo è tossico”, la poesia è quell’attività sovversiva, che riporta a galla la nostra individualità sprofondata nel mare dell’anonimato. Così bisogna assolutamente recuperare il residuo di quella voce antica, infantile, profonda, che bisbigliava la sua adesione a forme inconcepibili di estasi, bisogna che il dettato prosastico della nostra voce assuma la limpidezza di un canto.

Nella prima parte di questo Poesia come arte che insorge, Ferlinghetti si prodiga in consigli, dall’alto dei suoi novant’anni spesi bene, stravissuti, illuminando il percorso con versi brevi, che paiono più aforismi, carichi di una saggezza e di un’esperienza che non hanno minimamente scalfito il naturale entusiasmo del poeta, che ha attraversato il secolo scorso come protagonista di una letteratura libertaria e negli ultimi anni sempre più ecologista. La poesia è quella luce che illumina, e quell’oscurità che seduce, forma di resistenza all’invadenza dei media, pensiero soggettivo che sia articola oggettivamente nella scrittura. I poeti sono ora“antenne della razza “, ora quei “ piccoli pagliacci … fedeli alla fiamma” della loro giovinezza, e chi più di Ferlinghetti ha il diritto di dichiarare che la poesia “ è la distanza più breve fra due esseri umani”, l’intimità più straniata e straniante con il segreto dell’esistenza?

 La sua voce è un avamposto dell’ignoto, nel deserto senza occhi della contemporaneità, e sebbene alcuni versi siano deboli, nel complesso i consigli del poeta sono utili, e colpiscono il cuore di questa società malata, e soprattutto nei saggi su Brecht e su Yeats, Ferlinghetti ci mostra il suo acume di critico, e la sua sensibilità di letterato.

 Alla poesia il poeta americano affida i compiti più alti, e invita a diffidare di coloro che la spregiano, perché in fondo la temono, temono la sua potenza sovversiva, la sua capacità di guidare lo sguardo degli uomini verso felicità inclassificabili e pericolose. Perché per Ferlinghetti la poesia è sempre il cuore pulsante di ogni gesto, il ritmo del respiro, il canto degli uccelli che si oppone con la sua fragilità al metallico fragore delle automobili, al frastuono delle macchine industriali. Una poesia “come un campo di girasoli” non va spiegata pena “il fallimento della comunicazione” deve rimanere là come una statua di luce, che non necessita di alcuna didascalia, si impone come canto, nel desiderio di recuperare la purezza originaria del linguaggio, aldilà delle distorsioni quotidiane che la parola subisce.

Come nei romantici , la poesia può essere il vento che ulula fra le montagne, “il bramito dell’elefante,”il dialogo fra due statue mute”, nelle parole di Ferlinghetti è un “universo parallelo puro”, che si oppone recisamente alla ” pletora folle della stampa”, è “lingua di strada di angeli e diavoli”. Non è dunque qualcosa di lontano e immobile, che sta nell’empireo , ma qualcosa di concreto, da usare, qualcosa per cui non ci sono maestri eccetto quell’”orecchio interno “ così difficile da ascoltare nel frastuono di voci che compongono l’attuale mondo della comunicazione,e che per Ferlinghetti, come per Ginsberg , non è affatto rutilante.

E’ incredibile però che Ferlinghetti , come un adolescente, continui a richiamare i suoi lettori alla necessità di una fantomatica rivoluzione, nella speranza utopica che attraverso di essa si attui una palingenesi che restituisca all’uomo il contatto con la terra. Mi sembra un’ottica ingenua, qui l’entusiasmo assume tinte sbiadite se non addirittura grottesche, possibile che novant’anni non siano serviti a demolire in Ferlinghetti questa mitologia di rinnovamenti impossibili? E’ lo stesso clima che si respira nell’opera di Ginsberg, è ancora una volta la Beat Generation che non si rassegna al tramonto degli ideali che la agitarono. Se viviamo un’epoca cinica, come credere alle parole di Ferlinghetti ? Bisogna davvero resistere, invocando la poesia come panacea di tutti i mali, oppure rassegnarci a veder intorno a noi il trionfo di una mentalità gretta e sudicia ? Forse ha ragione il poeta, è necessario mantenere viva la propria ispirazione originaria, a costo di apparire anacronistici.

La potenza del dettato poetico è per il poeta americano capace di decostruire il potere, e così facendo salvare l’uomo dai suoi conformismi linguistici e intellettuali, è un “raid sovversivo sulla lingua dimenticata dell’inconscio collettivo”. In filigrana una costante contestazione dello status quo si legge nelle parole di Ferlinghetti , la cui energia è “ occhio del cuore, cuore della mente “, il cui amore per la poesia è una testimonianza di una libertà fuori dal comune, il cui slancio è la prova che una dimensione insondabile può vivere in noi , e trasmetterci una consapevolezza nuova, che metta al centro “la risata liquida della giovinezza”. Ridefinendo la realtà la poesia può opporsi alla fondamentale alienazione della città moderna, la sua “ fuga lirica “ è in fondo l’attesa forse inutile di “una rivelazione estatica”, che possa darci il sapore dimenticato di una “ realtà totale”.

Poesia come arte che insorge- Lawrence Ferlinghetti - Giunti City Lights.

L'impossibile- Georges Bataille

venerdì 25 settembre 2009

I personaggi di Bataille paiono sempre sull’orlo di qualche collasso nervoso, la loro vocazione non è durare, giacché si dura solo per debolezza, ma bruciare, e i loro amori, sofferti, sono accerchiati dal senso di morte; angosciati essi non trovano mai la semplice soddisfazione animalesca, cui sembrano tendere con tutte le loro forze, se non a prezzo della loro salute mentale. Amori contrastati da figure grottesche e luciferine, che si svolgono sempre in un clima da catastrofe imminente, per creare una tensione che andando oltre la vita, lasci presagire le voluttà misteriose dell’impossibile, come nel caso del primo di questi tre scritti, Storia di topi(Diario di Dianus) , il cui senso è tutto nella prefazione iniziale: non si può mentire in un romanzo, sostanzialmente scrive Bataille, la verità è più forte della letteratura e questa verità vuole bruciare fino al parossismo dell’angoscia, vuole l’impossibile e per ottenerlo è disposta a tutto, scardinare le convenzioni, infrangere le interdizioni, affondare in quel pantano di desideri insoddisfatti, arrivando a farci percepire una più grande impossibilità, quella di vivere.

Perché i personaggi di Bataille da Madame Edwarda a L’azzurro del cielo, fino a questo L’impossibile, hanno del sesso e della vita una visione apocalittica, l’estremo abisso della morte sembra manifestarsi in ogni amplesso, l’amore è quell’angoscia da cui non ci si può mai liberare, l’oggetto amato è sempre irraggiungibile, intangibile, e il coito è solo il prolungato sgomento di due corpi prossimi alla loro dissoluzione. Non c’è felicità, né essa è desiderata o nostalgicamente rimpianta, il protagonista dei racconti di Bataille non è tanto un personaggio, ma questa consapevolezza che è dal nero dell’esistenza, dall’angoscia, che si può estrarre il godimento, dall’abiezione più profonda vien fuori la sensazione suprema, che fa dell’uomo ciò che esso è, profondamente, e aldilà della faccia che egli indossa la mattina per affrontare il mondo, c’è questo viso stravolto, questa inquietudine che non trova pace, e paradossalmente non la desidera, perché il compito supremo è ardere, probabilmente invano, poiché la suprema voluttà si trova solo nelle profondità dell’angoscia. ”La gaia cattiveria dell’indifferenza “ è l’ultima fiche da giocare alla roulette dell’assurdo, che domina la psiche di ognuno dei personaggi del racconto, la cui fatalità è l’osceno, il cui anelito profondo alla morte è tempestato dai diamanti di un’incoerenza diabolica, che li fa apparire manichini di un più grande disastro, che pure mai si palesa in tutto il suo orrore e il racconto rimane sospeso in un’atmosfera cupa, senza speranza, in un clima di violenze ed eccessi, soprattutto mentali, stati di passionalità per lo più incoerenti, che sono la chiave per Bataille per accedere alla verità del desiderio.

”Molto spesso la passione degenera in furore “ questa frase di Mirabeu potrebbe essere la sintesi di questo dimenarsi di personaggi , la cui disperazione è così totale, che mi chiedo quanto di artefatto, stilisticamente, vi sia in essa. E’ il limite di questo racconto, non è facile dare sempre a queste tensioni soffocanti il crisma di una riuscita letteraria, il personaggio Dianus affoga nella sua impotenza, e non fa altro che ribadirla, in questo risultando talvolta stucchevole, ma c’è un orrore smisurato che vibra in queste parole, una dismisura di caos che risulta affascinante . Straordinarie le parole finali del diario di Dianus sono un’indagine intorno al tema della nudità come mortifera fine di ogni segreto, e anche l’amore, retorica di tutta la nostra cultura, è schiantato nelle parole di Bataille, se “i più teneri baci hanno nel fondo un gusto di topo”, e dappertutto incombono sul nostro respiro l’oblio e la morte, e l’impossibile ci attrae con le sue pericolose promesse.

Ma pare esserci un solo tono nei racconti di Bataille, e quando questo non si fonde con la potenza visionaria, con la misteriosa e dolorosa naturalezza di certi suoi scritti, abbiamo testi deboli e ripetitivi. Presa nel suo complesso l’opera narrativa di Bataille per alcuni può apparire anche fastidiosamente monotematica, sempre lo stesso personaggio con i suoi deliranti intenti, le sue impasse poco gloriose, i suoi impedimenti, ma proprio la natura psicotica di certi scritti è ciò che ha fatto oltrepassare a Bataille i comodi limiti di una letteratura di buon senso, e ne ha fatto un classico del Novecento. Per Bataille, la verità della poesia, e quindi della vita, risiede unicamente nell’eccesso, nella convulsione epilettica dei desideri, nell’orrore, nella morte; il resto, che si oppone a ciò, è morale utilitaria, sterile sopravvivenza, realismo dei piedi ben piantati in terra, contro di cui Bataille lancia i suoi strali, a volte fantomatici, a volte esatti come una radiografia. Indubbiamente è la ricerca di un’estasi impossibile il tarlo che corrode questi personaggi, la cui vitalità ha sempre qualcosa di funebre e incoerente, i cui slanci di passione sono tarpati, grotteschi, mutilati di ogni gioia. Se Storia di topi è un racconto colmo delle più esatte sensazioni, e lucido fino allo sfinimento, non altrettanto si può dire dell’ altra raccolta di scritti.

Nella terza parte del libro, infatti , con l’ambiguo titolo di Orestiade, Bataille raccoglie alcune poesie per la verità insignificanti, e dolorosi scritti il cui senso è oscurato dall’ossessività con cui il tema della morte affiora, ed è quasi tristemente adolescenziale il suono della sua voce. Troppo spesso lo scrittore francese cade nella trappola di fare il verso a se stesso, risultando a volte di un’inutilità nauseante. Se Storia di topi, è un classico racconto nero, che si fa leggere, e contiene le classiche illuminati e taglienti frasi di Bataille, un vorticoso ensemble di desolazione e aneliti strazianti , L’ Orestiade è un’accozzaglia di versi mediocri e divagazioni impotenti, perciò il senso dell’operazione di Bataille non è ben chiaro. Troppo confuse, fumose , nella loro febbricitante andatura le frasi, troppo scollegate fra loro le parti, nell’insieme manca proprio l’unità, le considerazioni intorno alla poesia sono per lo più altisonanti e vacue, l’impotenza della scrittura si percepisce troppo violenta e insostenibile, e perciò L’impossibile nel suo complesso, come opera letteraria unitaria, non è pienamente riuscito. Perlomeno io taglierei tutta la terza parte, la cui supponente pochezza non rende giustizia al genio di Bataille, quale esso emerge nella parte migliore della sua produzione e in fondo anche in Storia dei topi, se ne vediamo l’ostentato trucco metafisico che cola via nel pianto, o se ne udiamo il formidabile urlo lacerare il silenzio della mente;liberandoci in questo modo e misteriosamente, forse per un effetto omeopatico, dal cappio della nostra privatissima soffocazione.
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L'impossibile è edito da Es

Una poesia di Mehmet Gayuk

domenica 20 settembre 2009



I

In perpetua afflizione giriamo attorno
Alle mura altissime del Gineceo

Tra le donne qualcuna c'è che canta
indoviniamo le loro abluzioni di lacrime

I loro occhi dalle grate ci spiano
Le loro mani ci gettano ritagli d'unghie

Torsoli di mela monete dentini guasti
Gusci d'arachidi ditali fili

Pezzetti di carta con macchie e graffi
Dove nulla è leggibile e dove tutto
Illumina
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da Il Gineceo- Mehmet Gayuk (alias Guido Ceronetti)- Adelphi


Le strategie fatali - Jean Baudrillard -

lunedì 14 settembre 2009

L’universo non è retto dalla razionalità, da quel concatenarsi di causa ed effetto, né dal caso, dall’accidente, piuttosto è uno straniante gioco di apparenze reversibili, un’ incessante metamorfosi che racchiude un segreto e questo segreto è la seduzione. Ma cosa sia la seduzione Baudrillard pare non averlo mai detto, pur avendone scritto molto, ne d’altronde è possibile esaurire la vastità di questa percezione in un discorso per la natura stessa della seduzione, dunque tutto sommato il filosofo francese ha lasciato che il mistero dell’indecifrabile pulsasse in questo concetto. Tutto lo sforzo della nostra cultura è sottomettere un universo che ci sfugge da tutte le parti alla logica del senso, della verità, in un tentativo di creare un duplicato fantasmatico, un’iperrealtà che è il segno della avversione per qualcosa che Baudrillard tende a rivalutare, l’illusione. Senza illusione, senza quel velo di penombra delle cose, si accede alla pornografia, come trionfo del dettaglio e dell’alta fedeltà , e questo riguarda l’insieme di tutto lo sforzo conoscitivo della nostra società, la quale per sua natura è votata all’osceno, cioè all’accumulo di dati di realtà, all’evidenza, alla verità, alla visibilità esasperata, alla riproducibilità del reale ad alta fedeltà. A ciò bisogna opporre ” il più falso del falso”, ”il più nascosto del nascosto", opporre alla logica del soggetto lo splendore ambiguo e fatale dell’oggetto. E per far questo non c’è strategia, piuttosto una “sfida ironica”, uno snobismo ci fa delegare tutto l’apparato della volontà e del desiderio a qualcun altro, giacché è più affascinante ”non sapere ciò che si vuole”, essere un soggetto dotato di volontà ci porta alla disperazione, voler spiegare tutto significa rendere tutto commestibile e indigesto al tempo stesso. Strafatti di realtà, ci siamo accorti troppo tardi che non c’è più alcuna realtà, l’abbiamo divorata. La demonizzazione dell’illusione ha creato questo tramonto del reale, le cose viste troppo da vicino, i sogni troppo spiegati, si dissolvono ed è l’entropia, un mondo che cerca il senso ad ogni costo è arrivato ad esplodere insensato, perché la minaccia portata dalla seduzione che trasforma una cosa in un'altra, che sfugge all’identificazione soggettività-mondo, è troppo forte, è il lusso dello sguardo contro la povertà della sua spiegazione, l’immediatezza raggiunta a scapito della comunicazione verbale troppo lenta. Così né l’assurdo, né il senso reggono il gioco, piuttosto il destino con la sua fatalità seducente. In un universo non dialettico, non sintetico, ma “votato agli estremi”, la seduzione è l’enigmatico che garantisce una doppia vita, l’indecifrabile che ci stordisce con la promessa di una felicità inclassificabile, l’ambiguo “principio del Male”, da cui tutta la nostra cultura si sente minacciata, nel tentativo di dare una causa a tutto e che, nel suo desiderio di totalità e verità, è precipitata nell’osceno. Anche la psicanalisi con la sua ansia di interpretazione ha creato un inconscio che invece di mantenerli deve spifferare i suoi segreti, invece di giocare con il suo mistero deve avere l’invadenza pornografica di un’idea comprensibile e supporre un senso nascosto laddove probabilmente c’è solo un gioco di apparenze. Il linguaggio di Baudrillard è di una complessità notevole, il suo stile di scrittura affascina ed irrita con la stessa facilità, io ammiro lo sforzo di restituire alla seduzione, al destino, all’illusione la loro centralità a scapito di quel reale-razionale che ha stufato tutti e le strategie fatali sono forse quelle che ci permettono di tornare alla gioia di un pensiero svincolato dal suo desiderio di descrivere e interpretare il mondo, lasciandolo al libero gioco delle apparenze commutabili, che mai confezionano una storia, ma hanno la potenza seducente del destino dalla loro parte.

Nel pensiero di Baudrillard la potenza risiede nell’oggetto, non nel soggetto, in tutta la sua indifferenza enigmatica esso accoglie in sé il desiderio senza esserne turbato, risplende di tutta la sua forza, così la donna non dovrebbe pretendere di diventare soggetto, cioè qualcosa di minato e indebolito, se non ironicamente, ma accettare che la sua sovranità consista proprio nell’essere oggetto di desiderio: “Quel che fa la sua potenza è al contrario la sua indifferenza trionfale, la sua trionfale mancanza di soggettività . Lei resta signora del gioco, l’oggetto resta signore del gioco e non fa che rafforzare la sua sovranità ironica”. L'orizzonte non è quello della Legge, ma quello della regola del gioco, del cerimoniale, in cui la reversibilità dei segni è l’espressione di una costante metamorfosi. Dando scacco al reale e alle sue leggi oggettive, il gioco è riproporre la seduzione delle apparenze pure, per sottrarci al dominio del senso. Certo è durissimo per il filosofo francese escogitare un linguaggio che metta in crisi le nostre più radicate certezze, per questo spesso il discorso gira su se stesso in un’estasi di significati in collisione con la mentalità comune. Così l’esaltazione dell’illusione contro la verità, della seduzione contro il principio di realtà, dell’oggetto contro il soggetto, pare cozzare contro i millenni, che hanno edificato questo macchinario di valori ormai in crisi, in quest’urto però la scintilla dell’inafferrabile ci seduce e il compito di Baudrillard è concluso.

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Le strategie fatali è edito da Se

Da Le strategie fatali- Jean Baudrillard- Se

venerdì 11 settembre 2009

La massa sa di non sapere nulla, e non ha voglia di sapere. La massa sa di non potere nulla, e non ha voglia di potere. Le viene violentemente rimproverato questo segno di stupidità e passività. Ma non è affatto così: la massa è molto snob, fa come Brummel e delega sovranamente la facoltà di scegliere a qualcun altro, con una sorta di gioco dell'irresponsabilità, di sfida ironica, di sovrana mancanza di volontà, di segreta scaltrezza. Tutti i mediatori ( politici, intellettuali, eredi dei filosofi dei lumi nel disprezzo delle masse ) in fondo non servono che a questo: amministrare per delega, per procura, questa fastidiosa faccenda del potere e della volontà, togliere alle masse la zavorra di questa trascendenza per il loro più grande piacere e offrirne loro per di più lo spettacolo.

(traduzione Sandro D'Alessandro)

Profanazioni-Giorgio Agamben

lunedì 31 agosto 2009



Dieci brevi saggi compongono questo libro in cui il pensiero di Agamben si muove nei territori della letteratura e della filosofia, affrontando la sfida della contemporaneità che vuole concetti su cui edificare un senso, laddove la società sembra essere allo sbando dei luoghi comuni vociferanti un po’ ovunque.

Così nelle parole di Agamben Genius il dio latino della generazione, il dio personale che vigila sulle nostre esistenze, diventa il simbolo dell’impersonale che abita dentro di noi, e che rappresenta aldilà delle codificazioni della coscienza la nostra parte più profonda e inconoscibile, con la quale si possono intrattenere solo rapporti indiretti, ed è il sostrato di ignoto la cui conoscenza è difficile e pericolosa e il cui apporto è però fondamentale. Il Genius di ciascuno va ascoltato perché in esso risiede la voce del nostro destino più profondo, bisogna dunque vedere nelle nostre manie l’espressione di un’esigenza superiore, quella di Genius. Ma questi, che è un dio personale, è anche l’espressione di ciò che in noi “ci supera e ci eccede” è “l’impersonale, il pre-individuale”, ciò che trascende la singolarità e va aldilà di ogni principium individuationis e Genius partecipando di queste realtà ci è perciò sottratto, è la zona di ignoto che anela a quell’emozione profonda che vive in noi, quella che Nietzsche chiama “sensazione suprema”e può essere la gioia come l’angoscia, la sofferenza come l’estasi.

Agamben cita solo en passant la parola inconscio, preferendo dare alle sue tesi un’impronta filosofica, ma dopo la psicoanalisi l’ignoto che c’è in noi ha acquisito una fisionomia particolare e diventa difficile andare oltre le suggestioni junghiane, Agamben ci prova ricordandoci sostanzialmente che noi siamo soprattutto quello che di noi stessi non sappiamo e probabilmente solo nell’incontro con l’altro troviamo un possibile contatto con Genius,“ l’emozione rimasta in noi incomprensibile”. Quando scrive dei poeti dice una verità indubitabile: il poeta è colui che vuole nascondersi, vuole essere trascurato, questa era già un’ossessione di Carmelo Bene che lo ha ripetuto fino allo sfinimento, il filosofo paragona questo desiderio di oscurità al bambino che si nasconde in una cesta o in una soffitta, e che mai rinuncerebbe al piacere di questo nascondiglio, che gli trasmette un'ebbrezza particolare, e forse il senso di una libertà assoluta,” Noi non siamo al mondo “ in effetti poterebbe essere il grido che da Rimbaud ad Artaud riecheggia nei versi dei poeti, il cui misconoscimento è spesso parte del gioco della loro opera.

Scrivendo di fotografia, ne sottolinea la dimensione di fascino metafisico, e vede soprattutto nella sua misteriosa banalità la profezia del giorno del giudizio, scrivendo di letteratura afferma la presenza dell’autore unicamente nel “gesto che rende possibile l’espressione, nella misura stessa in cui insedia in essa un vuoto centrale”; autore la cui presenza fantasmatica è proprio quel “vuoto leggendario” da cui procede misteriosamente il discorso, “ l’illeggibile che rende possibile la lettura “.

Un saggio è dedicato al tema della parodia di come questa nasca introducendo una discordanza, una separazione fra melos e logos, e si sviluppi nei secoli nella necessità assoluta anche di una profanazione, in grado forse di restituirci un senso diverso del sacro. A proposito della felicità ne vede il sottile legame con la magia, la necessità che essa arrivi per caso senza che vi sia un merito, e in questo il filosofo vede un’etica superiore, quella per cui della felicità si può essere consapevoli dopo che è passata, non mentre la si vive, ed è appunto una magia il fatto che essa, di fatto, mai ci appartenga, e citando Benjamin Agamben ci ricorda che la nostra più grande sofferenza infantile è stata proprio riconoscere la nostra “incapacità di magia”.

Ma il saggio più importante è forse il penultimo, Elogio della profanazione, in cui una profonda riflessione sulla società capitalistica si unisce a una meditazione sulla natura della profanazione, e di come questa sia divenuta oggi impossibile. Se “Profanare significa restituire all’uso comune ciò che è stato separato nella sfera del sacro” quella che Agamben chiama “religione capitalistica” alienando e allontanando la realtà in una pura rappresentazione spettacolare, separando ogni cosa da se stessa e trasferendola nella dimensione del consumo, impedisce la fruizione del reale e quindi tutto diventa impossibile da profanare, da usare, perché tra questi concetti come si è visto Agamben individua una similarità, solo nel gioco è ancora possibile il gesto di una profanazione, che restituisca all’uso, ciò che è stato separato.

“I bambini che giocano con qualunque anticaglia … trasformano in giocattolo anche ciò che appartiene alla sfera dell’economia, della guerra, del diritto …

In questo modo , scrive Agamben, queste potenze disattivate e profanate nel gioco , diventano
la porta di una nuova felicità”, che consiste nel mandare in corto circuito i “dispositivi del potere “ e restituire “ all’uso comune gli spazi che esso aveva confiscato “. Perciò la profanazione si configura come uno degli obiettivi di una nuova politica, che vada in una direzione opposta a quella della “religione capitalistica “ e questo è il compito che Agamben affida alle nuove generazioni: “la profanazione dell’improfanabile”.

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Profanazioni è edito da Nottetempo

Il coperchio- Charles Baudelaire

mercoledì 12 agosto 2009

Scorra le terre e navighi per un mare remoto,
sotto un clima di fiamma o sotto un sole gelido,
accolito di Cristo o a Citera devoto,
Creso ardente o pitocco tenebroso e famelico,
villico,cittadino, in movimento, immoto,
posi inerte il suo piccolo cervello o pulsi anelo,
ovunque l'uomo prova sgomento dell'ignoto,
e con occhio che trema solleva il capo al Cielo.

Lassù, il Cielo! Incombente tetto sulla sua testa
volta d'opera buffa illuminata a festa,
dove ogni istrione calca un sanguinoso suolo;

amico ai pazzi asceti,contro gli empi feroce,
il Cielo ! Atro coperchio dell'immenso paiuolo
dove, infinita e minima, l'Umanità si cuoce.

...
Da I fiori del male- Charles Baudelaire- traduzione Gesualdo Bufalino- Mondadori

Favole della vita-Peter Altenberg

domenica 9 agosto 2009


Altenberg porge uno “ specchietto tascabile” alla società del suo tempo, la Vienna a cavallo tra Ottocento e Novecento , ove essa può ravvisare la crisi dei suoi valori, la vanità dei suoi presupposti, la perdita di identità che la caratterizza profondamente, ma soprattutto ci rende conto della sua interiorità di escluso per vocazione, della sua prigionia dorata di individuo in un mondo sempre più spersonalizzato. Fra racconti che sono “estratti di vita” aforismi che incidono per la loro brevità, divagazioni intellettuali, prose poetiche, si snoda l’esperienza letteraria di questo raffinato rabdomante di sensazioni, che lascia nell’anima l’impressione che tutto, bene o male, pur nella sua mediocrità, riesce a mantenere il suo incantesimo; così tulipani, bambine che pescano , gite in barca, parchi montani, conversazioni galanti, sono i brandelli di una ricerca di se stessi che ciascuno può compiere, complice questo scrittore austriaco , amico di Kraus, i cui temi sono disparati, la cui ricerca di una verità poetica affonda negli strati più remoti del romanticismo, per riemergere moderna nella consapevolezza dell’estrema vanità di ogni tentativo di fuoriuscire dalla logiche imperiose della borghesia più blasè. Mai cinico, sempre colmo di questo incantamento Altenberg esalta la donna, il cui fascino esercita su di lui un potere immenso, mai è incline alla lubricità, il suo sguardo, sebbene nelle sue parole affiorino tutte le turbolenze del desiderio, pare pienamente casto, pur nelle sue deviazioni feticistiche, la sua venerazione della femmina è un vero e proprio culto religioso, da cui egli non recede mai,ed è il filo rosso che lega questi frammenti, colmi di una sensibilità in lotta con il grigiore e con le inevitabili asprezze della vita. Certo l’uomo è una creatura torbida, cupa e inerte che solo la vicinanza con l’elemento femminile può risollevare allo stato di creatura divina; così le adolescenti, le ballerine di Altenberg portano la grazia nel mondo, con il loro movimento , coi loro sguardi, coi loro giochi, regalano qualcosa che il mondo stesso non è in grado di accogliere, senza profanare. Il rischio del kitsch è abilmente evitato in questi scritti, foglietti volanti che spesso Altenberg scriveva nei caffè di Vienna, lasciandosi andare in una dimensione in cui l’ispirazione non è costretta da nessuna imposizione, in cui è libera di amare anche ingenuamente i suoi prati estivi, le sue fanciulle, i suoi fiori. Talvolta affiora la ferocia si vorrebbe “torcere il collo“ ai tulipani che simboleggiano la donna amata che ci rifiuta, si vorrebbe “nel proprio intimo” prendere a calci colei che sobri, si venera in sommo grado, ma questa ferocia è sempre sotto controllo mentale, una fuoriuscita di lava dal bocciolo di un sentimento la cui purezza è il risultato di un processo di affinamento interiore, traverso il lavorio di una coscienza poetica che si mescola ad
un' immediatezza raggiunta quasi per caso; Altenberg dice della sua scrittura che è una rapsodia meditata sul momento, un‘improvvisazione senza fini e senza fine. Certamente il personaggio Altenberg, ciò che egli crea con le sue stesse parole, è un ingannatore, come tutti i poeti, il velo che pone sulle cose, per farle apparire come miraggi di un’esistenza beata è una pura creazione letteraria, ciò nonostante la grazia esiste, talvolta diabolica, esiste e lo scrittore austriaco, ha lo sguardo adatto per vedere in essa l’epifania, la rivelazione, lo shock e tradurli in scritti delicati, anche quando trattano temi inquietanti, scritti sorretti da una visione poetica la cui esattezza è il segno che qualcosa è stato visto, un lampo metafisico ha galleggiato sopra le nostre teste .
"Dio pensa nel genio, sogna nel poeta e dorme nella restante umanità “. Ecco che gli artisti romanticamente si struggono, soffrono, si esaltano a un livello incomprensibile agli altri, addormentati nel loro bestiale torpore, sentono con un’intensità sconosciuta alle masse, sono il sale della terra e Altenberg ci invita ad assomigliare ad essi, ad essere dei creatori di bellezza, in un mondo in cui la bellezza è costantemente minacciata, e l’orrore cova i suoi scempi nel modo che sappiamo. Forse in questa esaltazione della figura dell’artista è all’opera un’illusione romantica di Altenberg, il cui entusiasmo per la bellezza però suona assolutamente autentico e ciò basta. Un prato montano, una fanciulla, possono inebriare allo stesso modo una fantasia che cerca la sua estasi nella quotidiana fatica d’esistere, un articolo di giornale che parla della sparizione di una ragazza diventa un simbolo dell’annientamento della giovinezza e della bellezza stessa.Altenberg accenna appena alle ninfe, ma la loro scomparsa, dolorosamente cantata dai poeti dell’Ottocento, è presente nelle sue righe, “la follia che viene dalle ninfe” di cui scrive Calasso era sicuramente nelle sue vene di appassionato di una femminilità da sempre in via d’estinzione. Questa raccolta delle opere di Altenberg - tutte pubblicate fra il 1896 e il 1925 - stupisce per la potenza di fascinazione che riesce ad esprimere, da queste pagine si esala tutta la tensione più feconda della società viennese, che così bene viene tratteggiata anche nelle sue piccole o grandi follie, i suoi riti quotidiani, le sue disavventure. Quelle di Altenberg sono le parole di un esteta che non si rassegna, e cerca romanticamente “l’ideale nel reale”, che talvolta affonda nella mediocrità dell’esistenza con il sogno disperato di un mondo in cui dominino, per usare le parole di Baudelaire,” lusso, calma e voluttà “. La sua sensibilità per le venature più riposte di un paesaggio, la sua passione per i fiori, il suo gusto liberty per la conversazione, la passione per le adolescenti, e gli straordinari dialoghi che registrano gli umori di una società in declino, sono il lascito di questi scritti che nella loro semplicità, paiono conservare l’indecifrabilità del reale, aumentarne a dismisura il mistero. Ecco mistero è tutto ciò che respira nell’opera di Altenberg, il cui nitore è spiazzante, la cui chiarezza naturale non è offuscata dalla cupezza che pure s’indovina aver tediato il suo autore per tutta la vita, dilagando negli ultimi anni anni in una disperata confessione di disfatta. Quando è al meglio la prosa di Altenberg è incantevole, simile a certi dipinti di Klimt nella sua vaga aura sognante, è densa di una emotività delicata, di una tenerezza che sfugge ai chiaroscuri dell’esistenza e rimane testimonianza di una sensibilità che disperatamente ha cercato di restare a galla nel mare di tristezze di cui troppo spesso consta la vita, rimanendo aggrappata alla concezione romantica dell’esistenza, in un’epoca in cui ella denunciava già segni di cedimento, di cui Altenberg mostra di essere dolorosamente consapevole, da ciò deriva la sua modernità e la tempo stesso la sua inattualità di poeta della piccole cose.Certo talvolta il suo entusiasmo può apparire stucchevole e datato, frutto di un'epoca ormai scomparsa, ma la leggerezza dei suoi "schizzi" l'esattezza delle sue percezioni, il più delle volte raggiungono lo scopo di farci sentire parte di un mondo di tenerezze ancestrali e invincibili.Il suo sguardo afferra l’orrore, ma preferisce sostare in quella zona di contemplazione per cui vedere è tutto, sentire pulsare il mistero dell’esistenza e rimanerne affascinati è lo scopo; ricordando la levità di certi scritti di Robert Walser, i foglietti volanti di Altenberg testimoniano il tentativo di raggiungere l’estasi attraverso le parole, ed è così, girovagando fra parchi, laghi e montagne, che Altenberg coglie gli umori di una società minacciata dal vuoto. Egli la vede e, a differenza di Kraus , non la giudica,non la sferza , ama l’odore di dissoluzione che da essa emana, e sorride.
Gli ultimi scritti sono pervasi invece da una disperazione senza fondo, testimonianza di una sensibilità che si percepisce in declino, scompaiono i prati, le fanciulle e affiora nient’altro che la dura realtà dell’io, la vecchiaia, la malattia e quel bel mondo di incantesimi si trasforma nell’agonia di una mente, che non sopporta più la durezza della vita. Le ultime parole di questo scrittore sono spoglie,aride. Dove è finito l’entusiasta cantore delle inezie e delle bellezze del vivere ? Sotto il peso di una consapevolezza che non vuole pace, aborrisce il suo stesso successo, e non riesce più a evadere, imprigionata da un’ombra, che pare incombere su tutti noi .




· Favole della vita è edito da Adelphi

Tutte le opere- Antonia Pozzi

sabato 18 luglio 2009

La fantasia trasforma la realtà, la trascende, e allora la contemplazione di un mare immaginario appaga più di quello vero, nell’immaginazione, seconda Antonia Pozzi, risiede il segreto mormorante delle cose, la sua è una poesia mentale, nata da un impulso maturato lungamente, nei fondali della coscienza, al tempo stesso una cosa profondamente immersa nel sangue di tutte le ferite del vivere. A ventisei anni la poetessa decideva di mettere fine alla sua vita, lasciando un’opera poetica destinata a superare le anguste vicende dei suoi brevi giorni, ed incantare poeti come Montale, un'opera che si segnala subito per la sua leggerezza, per una chiarità di tono che rende partecipi di un vasto mistero che ci alita addosso la sua ambiguità ;a volte realmente inquietante, altrove tenerissimo, a volte disincantato, il verso della Pozzi è un mormorio che si intuisce provenire da una mente lucida, appassionata, desiderosa di purezza e che, nella dolcezza della rievocazione poetica , sa mischiare la nostalgia a un prepotente desiderio di vita. Se” la voce è un tralcio d’edera" e il cuore è avvinto unicamente ai” gridi delle sue rondini” noi entriamo realmente nella sottile regione dell’abbandono poetico. Ci guida questa poetessa milanese, la cui voce “ il silenzio allarga” per farci percepire “ i misteri della sera, dei cimiteri dischiusi, dell’inverno che si avvicina”. Parola la sua a volte epigrammatica, veloce, capace di sondare la realtà con uno sguardo che sembra miracolosamente scampato alle opacità più meschine della vita. Su tutto sulle tragedie, sulle bellezze dell’esistenza si effonde un velo di crepuscolo infiammato dalle più dolci convulsioni del cuore, e i volti sgorgano negli specchi sereni, l’amore si rivela in tutta la sua purezza enigmatica, dilavato dal lavorio di una coscienza talvolta lacerata dalla sua assenza o dalla sua tragica impossibilità. La natura è un luogo in cui una cieca violenza si agita senza sosta, “dove il cuculo svolazza solo” e un cucciolo ferito dallo zoccolo di un cavallo simboleggia questo fato sinistro degli esseri viventi. Uomini con “occhi di poveri” vagano in una vastissima solitudine e la tristezza è uno “scirocco pregno di salsedine” e l’anima si protende verso “ignoti mari”, desiderosa di una pace che superi la comprensione, come nello Shantih eliotiano. Il cuore “inaccessibile” e” fatto solo” è davvero il fulcro di ogni ferita e la sorgente di un canto soffuso, dolcemente intriso di tutte le negatività, che però osa restituirci uno sguardo non più da afflitti, ma da scrutatori di bellezze fuggevoli. Il verso di Antonia Pozzi è colmo di immagini che con delicatezza esplorano anche i territori di una durezza implacabile, e le immagini naturali confondono la tavolozza dell’esperienza umana, per fondersi in un mosaico di impressioni e se le cose “ silenziosamente piangono su noi “ e i volti sono “macchie d’ombra” è possibile toccare la vertigine di una riconciliazione con le cose stesse, abbracciare la totalità indifferente, superando così il senso d’estraneità che ci pervade e che Sartre negli stessi anni (gli anni trenta del secolo scorso )ha così efficacemente descritto ne La nausea. Leggendo le poesie di Antonia Pozzi, nonostante il tragico epilogo della sua vita, non si corre il rischio di affondare in nessuna disperazione, la bellezza dei suoi versi è in grado di esiliare ogni cupezza, di isolarla come perla in una conchiglia. E’ così per tutti i poeti di talento, affrontare l’orrore e, mescolandolo al proprio sangue, restituirlo purificato dalle sottigliezze del dolore. I paesaggi sono quelli lombardi e allora laghi e torrenti fanno da sfondo a questa ricerca inesausta di bellezza, vivificata dalle passioni amorose della poetessa, i versi d’amore sono stille che racchiudono in sé il terrore della solitudine, la paura dell’abbandono, e un desiderio d’innocenza filtra nella spossatezza di una vita che soffre mancanze atroci e allora come un riscatto i fanciulli, le bambine diventano protagonisti, sotto uno sguardo che sa vedere in essi la leggerezza e l’incantesimo dell’infanzia. La poesia è “ un solido ponte” sulle “voragini della vita” e la capacità della poetessa milanese di far vibrare questa verità assieme alla nostalgia del silenzio ci rende partecipi di un mondo in cui lo splendore è presente accanto alla più nera disperazione, in cui le parole non sono staccate dalle cose, ma ne rappresentano il cuore. “ Per troppa vita che ho nel sangue/ tremo …” scrive la Pozzi e c’è da crederle, le sue poesie sono attraversate da una meraviglia e da una passione cogente, da una stretta necessità che li rende testimonianza indispensabile non solo di una vita, ma di tutte. Una “remota estate” avvampa nel sangue coi suoi fiori, bocche infantili cantano sulla “ tua solitudine”, ed “una trasparenza di falso cielo “, “enormi baratri azzurri “ convivono in questi versi , che ricordano tele di pittori impressionisti, capaci come sono di rendere vivido il paesaggio, nella melanconia tutta umana che rappresenta forse il suo segreto e il suo commento più appropriato .La lezione crepuscolare è ben presente in questi versi dove boschi melanconici, cimiteri, nevai sono descritti con pennellate sicure e improvvisi mutamenti di prospettiva e talvolta, ma raramente a dire il vero, con un sentimentalismo un po’ di maniera . “Il fugace sgomento “ della poetessa milanese è davvero l’indizio della sua sensibilità esacerbata, il suo canto, in fondo andato oltre l’ infelicità, è traccia di una meraviglia per l’esistenza,che traluce dal fondo buio della solitudine, realtà questa che ossessivamente fa capolino in questi versi , per tarpare il volo di una ragazza che ebbe la ventura di luccicare per un istante prima di sparire, per sua stessa scelta, ingerendo una dose letale di barbiturici.

Poesie scelte 1947-1995- Allen Ginsberg

sabato 4 luglio 2009

Ginsberg è un poeta dalla fondamentale vocazione all’oralità, la sua è una poesia destinata alla recitazione, spesse volte su un tema musicale, magari jazz, perché ritmicamente Ginsberg opera in quella direzione. “Apocalisse be bop “ del suono la pagina è un florilegio di frantumi, pensieri vaganti, paesaggi intravisti e poi dimenticati, sogni ed incubi che egli coglie dal fondo di un'America di cui già negli anni sessanta del secolo scorso annuncia l’irrimediabile caduta; un'America di capitalisti sfruttatori, che giustifica e produce le peggiori carneficine. Ginsberg come Whitman ama però profondamente il suo paese, ne ama la natura, gli spazi naturali, ma anche le super strade, i drugstore, i supermercati, ma riconosce in essi un’atmosfera da incubo, l’immagine agghiacciante di un moloch fatto d’industrie è l’altare cui si sacrificano le vite umane. Ginsberg oscilla fra una consacrazione della vita in termini spirituali- ma è una spiritualità di tipo orientale-e la denuncia del terribile male che affligge l’epoca contemporanea, con l’imbarbarimento del linguaggio parlato, scritto e visivo, promosso dal mondo dei media. Così L’operazione di Ginsberg è far entrare nel linguaggio poetico i gerghi, i tic verbali della tribù umana, frantumando spesso l’aulico con il prosaico, fondendo le sue visioni con materiale di scarto, per far emergere una verità più autentica di quello della tradizione poetica. Talvolta in questo risulta fastidioso, è il rischio quando si vuole abbassare il discorso al livello dell’asfalto, per coglierne gli umori deliranti. Ecco, Ginsberg sa delirare e giacché le menti migliori sono “distrutte da pazzia” come recita lo splendido incipit de L’urlo, per ritrovare la perduta “estasi naturale “ è necessario andare aldilà della ragione borghesemente intesa, piegarla alle logiche della più pericolosa disavventura linguistica, per disarcionare il senso comune dal cavallo del suo leccato e ipocrita perbenismo. C'è una potenza visionaria che non accetta la pochezza linguistica del linguaggio corrente, promosso dall’industria culturale e attraverso l’uso di droghe si tratta ancora una volta di liberare la mente. E' questo il clima culturale della Beat Generation: meditazione, zen, droghe lisergiche, una passione per la spontaneità, e la libertà sessuale, invocata come fine di ogni flagello repressivo. Risuonano le parole di Blake ”Se il folle persistesse nella sua follia raggiungerebbe il palazzo della saggezza”; Blake che rappresenta a tutti gli effetti il nume tutelare di Ginsberg - che disse di averne udito in visione la voce- probabilmente per via del ruolo fondamentale che il poeta inglese attribuisce all'immaginazione, nel comporre il mosaico dell'esperienza umana. Una passione per un formidabile cambiamento politico e dei costumi-di cui poi però Ginsberg decretò lucidamente il fallimento- agita i versi di questo poeta assolutamente energetico. Si tratta di una letteratura attraversata da spasimi di un’autenticità vitale che anche i detrattori più accesi non possono negare, da una forza oracolare, da una tendenza a far vibrare il caos, da una modificazione delle percezioni spazio temporali, sulle orme di una chiaroveggenza che apparenta Ginsberg a Rimbaud, ma culturalmente l’operazione di rilettura del poeta francese l’avevano compiuta i surrealisti, in maniera più efficace, in certe pose profetiche Ginsberg cede a dei cascami ideologici, che rischiano talvolta di invalidare il suo discorso. Bardo barbuto di un mondo che non sa che farsene della poesia e la glorifica solo per riempirsi la bocca, il poeta americano talvolta imbocca la strada di un'autoesaltazione, non sempre ironica, attribuendo alla parola poetica una potenza salvifica, che nei fatti non ha, se non per pochi;certo trovo azzardato e un po’ fatuo scrivere come fa il poeta americano che “la poesia salverà il mondo“, anche se, all’interno della sua opera ,riconosco che questo verso ha il suo senso. Io credo che una maggiore distanza da certe esaltazioni, una freddezza in più, un disincanto più lucido, avrebbero giovato a Ginsberg, d’altronde non gli si può rimproverare di essere stato quello che era: un poeta visionario in un contesto un cui la visione è prerogativa delle tv. Il rischio dei profeti è quello di diventare dei buffoni di corte, mi pare che Ginsberg questo rischio l’abbia corso un po’, e in questo caso la corte è l’industria culturale, così disprezzata dal poeta, ma di cui in fondo egli è diventato un ingranaggio, certo la bellezza dei suoi versi migliori fa perdonare atteggiamenti un po’ ingenui, che oltretutto sono il debito che il poeta inevitabilmente paga alla propria epoca. Ginsberg cerca una specie di ebrezza, e la cerca mescolando i paesaggi mentali in un caleidoscopio di immagini in grado di rendere conto dell’enigmatica complessità del reale. L’eternità è il suo sogno, la sua passione, la sua musa, e quasi ossessivamente questo desiderio di trascendere i limiti della vita stessa emerge dai suoi versi, sempre colmi di una tensione, che ha bisogno di uscire dalla pagina, come canto, come grido, come esito di un’operazione intellettuale che vuole riconnetterci alla potenza della grande”dinamo stellare”. Un altro dei temi della sua poesia è quello dell’amicizia: i vari Kerouac, Cassady, Burroughs sono presenti nei versi di Ginsberg, come indispensabili compagni di bagordi filosofici e sessuali , mitizzati ampiamente, in una maniera che talvolta risulta un po’ eccessiva. L’autenticità con cui il poeta americano affronta il territorio della poesia, la sua rabbia, il suo impeto sono notevolmente interessanti e diverse poesie sono indubbiamente splendide, piene di un coraggio filosofico, di una sapienza stregata, di una lucidità visionaria, che confermano la bontà della sua ispirazione. Il linguaggio, forse illusoriamente, non sembra avere limiti, la mente di Ginsberg vuole il vuoto,la pace della meditazione, e l’ottiene con l’accumulazione di dati interiori, che per esempio in un poema come L’urlo sfuggono alla presa di una immediata comprensibilità, e sono una colata lavica di impressioni legate da un filo di sottile esaltazione. Altrove un tono pacato, meditabondo lascia pulsare la sua vena crepuscolare, nostalgica, piena di un amore inappagabile, di una sessualità esibita come riscatto di un’esistenza che sa essere veramente buia. Ma Ginsberg è per lo più, come Whitman, un poeta entusiasta, agguerrito, sul piede sempre di una qualche rivelazione, e questo può talvolta apparire incongruo, ma la potenza dei suoi versi è indubitabile, la freschezza delle sue immagini, che paiono fuoriuscire dalla pagina per imprimersi nella memoria, raggiunge l’obiettivo di liberare la mente dalle sue paralisi linguistiche. La sua è una poesia fortemente antiborghese, tutti i suoi versi tendono a fare a pezzi l’oppressivo buon senso di cui la borghesia si gloria, per schiacciare tutti col mito della ragione e del lavoro. Ginsberg sta palesemente dalla parte dei pazzi, la cui mente è il luogo di un combattimento fra la paranoia del sistema e quel residuo di individualità che il sistema stesso non è riuscito ad eliminare. Così nei versi del poema Kaddish, la pazzia della madre del poeta è pretesto per tratteggiare tutta la demenza della vita contemporanea, la paranoia è il segno di un ‘invasione interiore che il soggetto non può che subire, cercando di riscrivere la storia stessa da una visuale che non sia codificata, e in questo sforzo perdendo il senno. Ginsberg cerca di porsi come grillo parlante di una società alla deriva, suo testimone e giudice, dall’alto della sua ispirazione il poeta ci ricorda che “Nessuno pubblica una parola che non sia vigliacco farneticare robotico di una mentalità depravata”. La condanna della guerra, la derisione dell’establishment, il viaggio attraverso un’America che oscilla fra il paradisiaco e l’infernale sono fra gli altri i temi di questa poesia, che si percepisce difficilmente traducibile- per questo è comunque ammirevole il tentativo del traduttore italiano Luca Fontana- le poesie di Ginsberg paiono arse da una foga e da un furore che sono l’indizio di una mente in perpetua ricerca di un bandolo della matassa che, fatalmente, non si trova. Una certa supponenza, la volgarità divenuta di maniera, una tendenza alla logorrea dispersiva, possono essere ritenuti il limite di queste poesie, ma quando Ginsberg libera la sua energia creativa può lasciare davvero sbalorditi, per l’efficacia icastica che riesce a costruire.
Questa antologia sterminata- sono più di ottocento pagine - raccoglie i versi di un poeta la cui influenza è stata enorme, ed è tuttora attiva, ma a volte mi chiedo se la sua attenzione spasmodica per l’attualità, col tempo, non lo renderà lontano, addirittura astruso, trattando tematiche d’attualità, o fortemente autobiografiche, si corre il rischio di sembrare, dopo poco, obsoleti. Della sua poesia resteranno i potenti afflati metafisici, certi slanci, la percezione di un mondo in rovina e la speranza di una palingenesi radicale, che affonda le sue radici nella consapevolezza che nel profondo tutto è santo, tutto vuole la beatitudine, il male è un accidente, se nella nostra mente regnasse il vuoto, e il non agire fosse la nostra priorità,saremmo saggi, ma questa saggezza, di cui Ginsberg è il nostalgico dolente e l’ispirato cantore , certo non è di questa terra umana, ed è sempre comunque sotto l’ala di un’ estatica follia.

Una poesia di Jim Morrison

venerdì 3 luglio 2009

Fu la più gran notte della mia vita
Benché una moglie non l'avessi ancor trovata
Avevo lì i miei amici ben vicini

Indiani disseminati sulle
carreggiate all'alba sanguinanti
Si affolla di spettri la mente del bambino
fragile guscio d'uovo

Scalammo il muro
Viaggiammo per il cimitero
Forme antiche tutt'intorno a noi
Niente musica se non l'erba bagnata
fresca percezione oltre la nebbia.

Due fecero l'amore in un angolo silenzioso
uno cacciò un coniglio nell'oscurità
Una ragazza si sbronzò e fece il morto
Io feci al mio cervello qualche sermone inerte

Cimitero fresco e tranquillo
Odio lasciare
la tua sacra distesa
Aborro del giorno la venuta lattiginosa


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Da Tempesta elettrica- Jim Morrison- traduzione Tito Schipa jr- Mondadori