sabato 17 ottobre 2015
Leggo Il desiderio di essere come tutti di Francesco Piccolo (Einaudi, 2013), romanzo - pamphlet vincitore del premio Strega nel 2014 e non ne
ricavo un’impressione positiva, anzi direi che il mio giudizio è totalmente
negativo. Si tratta innanzitutto, più che del "matrimonio (burrascoso) fra la vita privata e la vita pubblica”, come
recita la quarta di copertina, di un
miscuglio piuttosto indigeribile di romanzo di formazione e saggio socio - politico sull’Italia degli ultimi trentacinque
anni, un’insulsa brodaglia di menefreghismo qualunquista e opportunismo mascherati dall’impegno
politico. Inizialmente l’autore dà un’importanza eccessiva alle sue paturnie
adolescenziali (con l’aggravante che la sua micromegalomania è stemperata dal
tono modesto e politicamente corretto) e il
suo desiderio di conformismo (denunciato nel titolo e confermato dalla scialba
citazione in esergo di Natalia Ginzburg) è la nota più autentica del romanzo.
Insomma, non mi commuove la sorte
di un adolescente borghese che sul
finire degli anni Settanta aderisce al
comunismo, sentendosi, povero lui, escluso dalla famiglia per questa scelta
estrema (?), e contestato dai suoi compagni più radicali per le sue
origini altolocate. Doppia esclusione che costituisce il suo
dramma, scissione comune a molti e francamente poco interessante dal punto di
vista narrativo. Insomma, mi pare la solita storia del rivoluzionario
per conformismo, del rivoluzionario con la paghetta di papà che, però, stoicamente,
soffre in silenzio per questa contraddizione e, stracolmo di
narcisismo, ci scrive pure sopra un
romanzo.
In copertina il “tutti”
del titolo è graficamente quello della prima pagina dell’Unità all’indomani dei
funerali di Berlinguer, che segnano per l’autore l’ingresso nella vita adulta.
Così il romanzo annaspa inizialmente fra
noiose e a tratti pedanti (ahi, il politichese di ritorno) considerazioni
saggistiche sul compromesso storico e sul rapimento Moro - quest’ultime gravate
oltretutto da un senso di tragicità secondo me artefatto, ipocrita e fittizio - e narrazioni di vicende personali; mi sembra
manchi di autenticità anche se la simula bene, anche se in fondo ci restituisce, forse aldilà delle intenzioni di Piccolo, il clima di irrespirabile pesantezza
ideologica di quegli anni che,
nonostante le bombe, a volte vengono
contrapposti spesso miticamente al vuoto consumistico di quelli successivi. Non
si sa fra i due quale sia peggio, se l’adolescente desiderio di una fantomatica
rivoluzione, (mostruosa l’immagine dei suoi compagni estremisti che si abbracciano felici all’indomani del
rapimento di Moro) o l’acquiescenza bovina ai miti del successo,
dell’apparire, del consumo totale.
Per Piccolo la scelta è già nel
titolo della prima parte del romanzo, La vita pura: io e Berlinguer e della seconda, La vita
impura: io e Berlusconi. Troppo facile, mi viene da pensare, contrapporre
Berlinguer, santo laico e altruista, a Berlusconi,
miliardario vorace ed egoista. Il
primo votato alla causa della giustizia, del rigore etico, il secondo alla propria causa, al mantenimento
del proprio potere. Contrapposizione furba, che fa
stare il borghese Piccolo piccolo con la coscienza in pace ma non del tutto
perché egli ancora più furbescamente
riconosce uno dei mali della sinistra intellettuale italiana, quella di sentirsi superiore e soprattutto diversa, mi riferisco a quella sinistra radical chic che lo scrittore incarna così bene. Ecco Francesco Piccolo ci convince del contrario di
quello che proclama: egli è succube del vuoto edonismo anni Ottanta, solo che non gli conviene ammetterlo. Un’altra
stonatura: Piccolo è di Caserta, non dice una parola sulla terra dei Fuochi,
sulla camorra, sui problemi della sua città, solo banalissime tirate moralistiche sulla nobiltà della
sconfitta. Tutto questo giocando a tennis con il suo amico democristiano,
amando perdere e arrancare eroicamente per ogni punto conquistato, metafora questa,
secondo Piccolo, della sinistra in
Italia.
L’autore descrive il suo ingresso nella società (borghese) delle
lettere, di come i giornali richiedano
la sua opinione (che lui stesso definisce scontata ) sui grandi temi del
momento (immigrazione, violenza contro le donne). Firma petizioni contro la fame nel mondo. Lo
fa per conformismo, al solito, insieme agli
altri intellettuali suoi sodali. Per sentirsi più buoni, per digerire
meglio. Più le opinioni sono scontate
più la coscienza di coloro che le producono e dei loro lettori è rassicurata. Non
sono sarcastico, questa è l’incredibile
confessione di Piccolo: grottescamente vera. Il romanzo diventa un’involontaria
apologia di quella che dovrebbe essere l’élite
culturale del paese: cinica, vuota, ipocrita, disillusa, contenta di aver perso
contatto con la realtà ripugnante nella sua bella torre d’avorio. Imbellettata
dalla nobiltà della sconfitta. Felice della propria dolorosa conquista: la “superficialità”. La superficialità che fa dire a Piccolo che gli anni del terremoto
in Irpinia sono stati ”i più belli della
sua vita” e che la vittoria di Berlusconi gli avrebbe comunque permesso di
condonare quei due soppalchi in casa. Piccolo narra una generazione di
opportunisti finto impegnati, con la
sua edificante storia di fallimenti politici,
con le sue elitarie sconfitte, con i suoi ghirigori mentali, con le sue
molto domestiche angosce metafisiche.
Conformisti contenti di sé, che hanno faticato (?) una vita per arrivare
a stabilirsi trionfalmente nella loro mediocrità ben remunerata e che non paghi
di ciò hanno coltivato insoddisfazione, indignazione, voglia di cambiare il
mondo, tutta la consolante retorica che fa di loro dei piazzisti del
progressismo più alla moda. Rivoluzionari da salotto buono, “rivoluzionari con la mutua” li definiva
Flaiano, con l’aggravante dell’autocritica (molto recitata) che li rende
nevrotiche e patetiche macchiette. Sintomatico
l’uso ossessivo della prima persona plurale, l’autore non si sente un individuo
ma parte di un gregge, il gregge dei buoni.
Leggiamo testualmente: “C’erano perfino delle feste […] alle quali
si andava e ci si lamentava di essere a quella festa; cene alle quali si andava
e ci si lamentava di essere a quella cena”. Così è la perenne “dolce vita”
romana : grottesche lamentele sul bel tempo che fu, sorseggiando Martini in compagnia dei loro
pari. La confessione di Piccolo non è un
“J’accuse” ma un’autoassoluzione; da qui il fastidio crescente che si prova
leggendolo.
Non mi stupisce affatto che un
romanzo così mediocre, noiosissimo
oltretutto, che mescola noiosamente aspetti narrativi e saggistici, abbia vinto il più importante premio letterario italiano. Esso è, infatti, uno specchio perfetto per l’intellettuale medio,
in cui questi può vedersi in tutta la sua insignificanza e mediocrità e
applaudirsi. Contento lui.
4 commenti:
Ho pure provato a leggere un libro di Piccolo ma l'ho trovato così... banale!
@Euridice
Banale sì, con l’aggravante di essere pretenzioso.
Purtroppo Piccolo e altri come lui fanno parte della stessa "parrocchia" che ormai affligge le patrie lettere da troppo tempo. Libretti senza coraggio, anodini, politicamente corretti, che non devono mai dare fastidio a nessuno. Non vorrei buttarla in politica, ma il target è quello degli elettori del PD e e lettori di Repubblica. Lo spiacevole è che non fanno altro che darti lezioncine di come si sta al mondo, sarà perché loro al mondo ci stanno benissimo.
@Massimo
D’accordo su tutto. Cricche e lobby si spartiscono l’Italia, non solo quella delle lettere, orticello in cui proliferano come gramigna raccomandati, parenti di e amici degli amici. È sconfortante. Soprattutto la supponenza e la mancanza di umiltà di questa gente miracolata. Ciò nonostante non bisogna arrendersi.
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