"Quando la follia scioglierà il suo legame con la malattia mentale, l'opera di Artaud apparterrà al suolo stesso del nostro linguaggio e non alla sua rottura"
Michel Foucault
Artaud ha degli incubi e questi incubi sono fatti del tessuto di una poesia in rivolta contro se stessa, sono fatti di pensieri e grida, la cui potenza schiacciante rischia di obnubilare l'autore e il lettore con lui. Poiché questo è Artaud: uno che si gioca la mente alla roulette dell'assurdo, piantando il chiodo della sua insofferenza nella carne del mondo, con la scrittura che pare voler uscire dalla sua immobilità e ritornare pura oralità, in uno slancio che dice tutta la profonda onestà dell'autore francese,che affronta la vita a muso duro, per piegarla alle logiche dell'impossibile; così la poesia stessa viene meno, urge il caos, la terra trema sotto i nostri piedi.
Se il poeta attacca gli Stati Uniti d'America è per dimostrare che la loro potenza si fonda sull'equivoco di una natura da dominare, di un mondo asservito alle logiche disumane della produzione e del profitto. Se parla del corpo è per farlo danzare in una vertigine che vada aldilà della stessa anatomia, poiché "non si è ancora finito di costruire la realtà ", non c'è una essenza da indagare analiticamente, ma qualcosa di sconosciuto deve emergere, irrompendo sulla scena del linguaggio. Così la poesia diventa un atto magico, per liberare l'umanità da tutte quelle realtà metafisiche che vivono da parassiti sul corpo dell'uomo. Artaud usa un bisturi per vivisezionare concetti come Dio, l'essere, lo spirito, il corpo, e il disordine della sua stessa mente, folgorata da uno strano fervore, si connette con degli strati geologici di pensiero e sembra fuoriuscire da quelle profondità con un 'enorme carica eversiva.
Non è una poesia di concetti quella di Artaud, ma di vibrazioni occulte che arrivano anche alla glossolalia, nel tentativo di far tacere la lingua stessa, nella prorompente caducità del suo sconvolgimento acustico, per farla diventare significante puro di un dissenso radicale, che rifiuti esegesi e liquidi così millenni di letteratura. Perché quella di Artaud è una lotta che in Per farla finita col giudizio di dio, in ogni verso si estenua, arrivando a scatenare quelle forze che stanno sotto o aldilà del pensiero, così come esso si è voluto. Artaud, insofferente verso la stessa poesia,vuole uscire dalle trappole del linguaggio, frantumare le concettualizzazioni, che esso opera in nome di una più che millenaria oppressione del corpo, vuole forzare la parola per far uscire il suo grido primitivo, la sua urgenza dionisiaca, la sua follia di balbettio sconnesso, per far saltare i codici e gli statuti linguistici, che fondano il valore. Infrange le tavole della legge, per conquistare una notte di silenzio inesprimibile, in cui taccia per sempre la logica che vuole elettrochoc e roghi, guerre e carneficine. La sua violenza verbale è sicuramente quello "sputo in faccia all'arte" di cui scrive Henry Miller, e nessuno meglio di Artaud ha realizzato la perfezione dell'insulto a "dio" privato anche della maiuscola, in quanto simbolo di tutti i dispotismi, nessuno ha puntato il dito accusatore, in maniera più radicale, contro ogni forma di oppressione fatta in nome della ragione, contro quel "succubato occultatorio di massa " che è la società umana.
Così Artaud si lascia attraversare da deliri, per sfondare i limiti della percezione, per fondare una prospettiva diversa e creare uno sguardo non più assoggettato a nient'altro che il proprio grido.
L'operazione di rottura costò a questo testo, pensato per la radio francese, l'intervento della censura: la trasmissione, benché fosse stata realizzata, non venne mai diffusa.
Così oltre ad essere un libro scritto martirizzando la lingua francese, è un libro parlato, destinato alla vocalità di Artaud stesso, acuta ai limiti delle possibilità umane, anzi un libro gridato, dove una "danza terribile " viene costantemente evocata, per frantumare la staticità pensosa della letteratura classicamente intesa.
L'edizione italiana di Stampa Alternativa unisce così al teso un cd in cui i versi sono recitati da Artaud stesso, e da altri attori che con lui hanno collaborato. E'un florilegio di voci, xilofoni, tamburi, che ha il potere di agghiacciare, e al tempo stesso elevare la poesia alla sfera pericolosa dell'indicibile. C'è qualcosa che non può essere detto, uno sfondamento del linguaggio, che non può esaurire sulla pagina il suo effetto di straniamento, e le parole diventano fuochi fatui che per un attimo come onde increspano la superficie del linguaggio. La lingua viene costantemente torturata da Artaud, che palesemente in questa operazione ci mette tutto se stesso, nello sforzo di cogliere, lo si percepisce, qualcosa di assoluto che la lingua stessa imprigiona. In questo paradossale desiderio di trasformazione della vita Artaud opera con crudeltà, polverizzando se stesso, e tutti quei concetti che si oppongono al caos delle forze che il poeta sente schiacciate dentro di sé dalle potenze della metafisica: Dio, la ragione, l'essere.
Per farla finita col giudizio di dio doveva essere il primo spettacolo del teatro della crudeltà, ma fu giudicato troppo forte per le orecchie dei francesi, ed a distanza di sessanta anni la sua potenza di scandalo è ancora viva, e sopravvivrà a tutte le mode, perché la ferocia di Artaud permette la dissoluzione di ogni pregiudizio, della "inconscia animalità dell'uomo", i suoi disgusti aprono una dimensione in cui il linguaggio mostra le sue crepe, e ciò che è consacrato odora di escrementi; tutto questo per liberare l'uomo da quelle potenze, da quelle illusioni di senso e di totalità, che lo separano dal proprio corpo, e lo trascinano dentro un vortice di idee, che alienandolo, lo privano della sua forza vitale. Ed è il corpo di Artaud, dominato, violato, sottoposto a decine di devastanti elettrochoc, che grida per tutti noi la rivincita del corpo stesso, contro tutto quello che nei secoli lo ha asservito; corpo vampirizzato dalla religione, dalla scienza, dall'ontologia, strumenti di un'alienazione che Artaud ha combattuto stando, coraggiosamente, dalla parte del delirio.