giovedì 27 agosto 2015
Storia di Nino, a dispetto del suo titolo, un po’ comune e forse
banale, è un romanzo che ha una sua
sofferta originalità, misterioso, inquietante, anche se non totalmente
compiuto, dalla strutturazione un po’ fragile, dalle concettualizzazioni a
volte discutibili. Dario Bellezza ci mostra le sue laceranti contraddizioni:
intellettuale diverso perché omosessuale, votato per indole a una fantomatica
purezza (pasoliniana? Ricordo che i due furono amici e che Pasolini lanciò
Bellezza sulla scena letteraria italiana); Bellezza fu dolorosamente consapevole
dell’assurdità di questo sogno di purezza, dell’intima corruzione dell’umano e del suo
mondo ma non fu altrettanto consapevole dei propri pregiudizi di evidente matrice cattolica che lo inchiodarono a una visione un po’
stereotipata della sua stessa omosessualità.
Qui ci racconta la storia di un
adolescente, Nino, che dopo anni di collegio ritorna alla casa dove è stato
cresciuto da tre zie e la trova chiusa, sprangata, abbandonata. Così iniziano
le sue peripezie in una Roma da incubo con Bellezza che volutamente non risolve
gli enigmi che dissemina nel testo. La discesa agli inferi di Nino è reale o
immaginaria? Si propende per la prima ipotesi ma non si ha la certezza. L’impressione
è che quello di Bellezza sia un atteggiamento difensivo o uno stratagemma per
non gettare in faccia al lettore tutta la perversione e la corruzione del mondo
che si racconta. Così il velo dell’ambiguità ci preserva dalla pornografia, una
pruderie impedisce pienamente a Bellezza
di svolgere il suo romanzo. Così notiamo
una mancanza di coraggio che impedisce alla storia di svilupparsi pienamente, di
accedere al vero regno della perversione
letteraria che sovverte l’ordine costituito. L’ordine morale del mondo è
appunto ciò che schiaccia Nino e gli impedisce di evolvere in uomo e
personaggio compiuto.
Fra Kafka e de Sade lo scrittore
romano scrive da poeta un finto romanzo di formazione, inconcluso, come incompiuto,
perché il personaggio è un adolescente, trafitto dalla nostalgia per affetti
famigliari forse solo immaginari, e i contorni della sua personalità rimangono
vaghi. Nel corso del romanzo egli non
evolve realmente, non si trasforma, rimane vittima di un destino avverso.
Diversamente dal Saba di Ernesto Bellezza
gioca sul registro dell’indeterminatezza. Le tre zie esistono o sono solo una
proiezione del suo desiderio? La risposta sarà sconcertante, nel bel finale di
scuola mitteleuropea più che mediterranea, mi sembra.
Cupo, dannato, sofferente, così è
l’uomo per Dario Bellezza e Nino,
piccolo uomo, non sfugge alla regola: non c’è innocenza nel mondo ma solo
“vizio”, parola questa così intrisa di cattolicesimo da tradire l’autore e
consegnarlo alla sua epoca (il romanzo è il primo di Bellezza e fu
originariamente pubblicato nel 1970 con il titolo L’innocenza).
L’innocenza è violata,
calpestata, derisa ma il nocciolo non è solo questo. L’ambiguità dei contenuti
cozza con la chiarezza quasi manieristica della forma. Bellezza pare un po’
antiquato nel linguaggio come se rispondesse al disagio moderno dei suoi
personaggi con una prosa classica e un po’ affettata e con concettualizzazioni
tradizionali. La sua lingua è anche bella ma mostra le rughe degli anni. Affiora
un odio di sé, della propria omosessualità, che rende forse anche questo
romanzo l’ennesima testimonianza dei guasti prodotti dall’omofobia in Italia,
tanto che le vittime come Bellezza reiteravano su se stesse il biasimo dei
carnefici, in quell’Italia piccola e abietta che negli anni Sessanta definiva
un poeta come Pasolini, “invertito” in un cinegiornale, con tranquilla, feroce,
grottesca ilarità. C’è l’impressione che Bellezza si sia schierato masochisticamente con la pubblica morale che lo condannava e
abbia pagato così un prezzo molto alto per un forse inconscio desiderio di
conformismo.
Storia di Nino è accompagnato nell’edizione Mondadori del 1982 da
quattro racconti, abbastanza tristi e lamentosi, che nulla aggiungono, come nota
nell’introduzione Gualtiero De Santi, e di cui si poteva fare a meno, penso io.
Con Storia di Nino invece Bellezza riesce a sorprenderci, a disorientarci con una vicenda multiforme, sottilmente
ambigua, sfuggente, dal sapore vagamente kafkiano, ma appesantita da un senso
del peccato molto italiano. Bellezza non è Genet, non è così fuori dagli schemi
della società borghese ma il senso di colpa per la diversità omossessuale è
ancora più aspro, talvolta patetico.
Questa colpa, che attraversa
tutta l’opera che conosco di Bellezza, ci riporta in territori di angosciosa
ambiguità, dove il “peccato” e il “vizio” sono ancora, come in Baudelaire ma
dopo più di un secolo, parole di grande risonanza emotiva. Oggi che si sono
spente quasi, notiamo la differenza ma era un
attimo fa e ancora la risonanza non è sparita totalmente. Quest’aspetto, però, contribuisce a rendere il
romanzo un po’ datato. Il cripto- cattolicesimo di fondo di Bellezza era il suo
vero martirio, certo non l’omosessualità che visse male a causa di un insieme
di pregiudizi da cui non si seppe liberare mai. Questo romanzo avrebbe potuto
essere migliore se Bellezza avesse compiuto il salto verso una visione di se
stesso e del mondo veramente moderna.
Forse per questo, duole constatare
che Dario Bellezza è letto poco, come narratore e come poeta. Oggi come ieri. È
questo il vero ”peccato”.