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Le inenarrabili tribolazioni della Poesia in tempi di barbarie

venerdì 1 marzo 2024

 


V’invito a leggere su Bibbia d’Asfalto la mia riflessione sulla bella antologia di prose “Le inenarrabili tribolazioni della Poesia in tempi di barbarie”, a cura di Lodovica San Guedoro, la sua lettura mi ha permesso di dire alcune cose; è la mia pietra scagliata in piena veglia a tutto ciò che l’attualità farneticante di oggi, di ieri e di sempre va spacciando come letteratura. Moneta falsa e oltretutto logorata dall’uso ma, sotto sotto, invito a cercarvi i motivi etici. In altri tempi, non così lontani, questa strenua difesa di un pensiero originario ed errante mi avrebbe garantito il rogo o perlomeno la galera. Oggi non so. Probabilmente nulla dato che va letto fino in fondo e supera di gran lunga la soglia di attenzione media ma mi tocca provarci. Buona lettura per chi vorrà. Ecco il link.

Ettore Fobo

Lo scopo dell’artista

mercoledì 25 agosto 2021



 

Ah quanti fraintendimenti! Lo scopo dell’artista non è la bellezza, velo squallido posto sugli orrori del mondo per farcelo accettare con un timido “Bè, però,  insomma,  tutto sommato Bach può giustificare Auschwitz e Michelangelo,  che so,  Hiroshima"; no,  l’artista è  colui che gettandosi nel dinamismo degli orrori ne perpetua l’assoluta magnificenza extramorale aldilà del bene e del male. Altrimenti anche Guernica ha il valore di una Madonnina messa sulla tomba del Novecento. La bellezza…per questo Rimbaud l’ha strangolata. Beau gest dell’artista assoluto. Nessuna consolazione, non ce l’avrete la casa in riva al mare con i puffi che cantano la vostra gloria. Bisogna essersi molto sporcati con la gran merda del dolore per dire questo. Non c’è un ordine morale del mondo. L’ordine estetico puzza troppo di Dio. Quindi a mare anche lui. Dinamismi,  forze, evocare l’impossibile:  ecco il compito dell’artista non allineato all’ordine linguistico vigente. Capri espiatori che denunciano che il male è inespiabile e pagano con la vita il prezzo della loro innocenza.

Ettore Fobo


 

 

 

Fragili fratelli nell'erranza - una poesia di Giorgio Caproni

sabato 1 maggio 2021




Il gibbone

a Rina

No, non è questo il mio
paese. Qua
fra tanta gente che viene,
tanta gente che va 
io sono lontano e solo 
(straniero) come
l'angelo in chiesa dove
non c'è Dio. Come,
allo zoo, il gibbone.


Nell'ossa ho un'altra città 
che mi strugge. È là.
L 'ho perduta. Città
grigia di giorno e, a notte,
tutta una scintillazione
di lumi - un lume
per ogni vivo, come,
qui al cimitero, un lume
per ogni morto. Città
cui nulla, nemmeno la morte
mai, - mi ricondurrà. 

 

***

da ”Congedo del viaggiatore cerimonioso & altre prosopopee”, Giorgio Caproni, Garzanti, 1965

***

Certe poesie ti accompagnano per tratti della vita, come compagne sonore di una crisi silenziosa. Così questa “Il gibbone” di Giorgio  Caproni si situa nei miei difficili vent’anni quando la sorte mi pose davanti a un bivio. La scelta fu se naufragare nella più assoluta mancanza di infinito o marcire nell’isolamento di chi rifugge ogni patria. A ripensarci, possedevo il pathos tragico dell’aut aut più che mai. Ma era un vicolo cieco che minava ogni possibilità di scelta. Ero solo, di quella solitudine che non basta a stessa ma che eroicamente forse sa forgiare un’anima, nell’officina in cui l’angoscia con un maglio modella quella che più tardi chiameremo la nostra personalità. È  quello che il mio maestro di quegli anni chiamava nei suoi libri: “filosofare con il martello”.

 Non avevo città, né reale né ideale e fortemente mi risuonavano i versi finali “Città/ cui nulla, nemmeno la morte,/ mai, - mi ricondurrà” ma non come un rimpianto di un Eldorado inattingibile e perduto piuttosto come un’orgogliosa dichiarazione di estraniamento. Rimbaud mi aveva insegnato che noi, noi poeti, mettiamola così, non siamo al mondo. Così, ora, è con nostalgia che la rivivo. Nostalgia di un orrore di vivere che mai più sperimenterò nella sua cruda e crudele intensità. Il passato è passato senza essere stato che un sogno sognato svanendo. Così suonava più o meno  una mia poesia di allora. Ero un angelo senza Dio, un gibbone in gabbia e nessuna città prefigurava il mio ingresso in comunità. “Non sposerò Frida, non entrerò in comunità”, ripetevo come un mantra, sarei rimasto come l’agrimensore kafkiano sulle soglie del Castello, alle porte di questa città ideale che mi struggeva. Ora che ho sposato Frida e sono rientrato in città, non posso dire di ricordare quegli anni, la legge dell’oblio dissipa tempi e memorie. Forse per fortuna, mi rimangono poesie come questa, istantanee di un male di vivere che ha reso leggendari, comunque quegli anni, in cui, devoto all’impossibile,  tracciavo su carta i segni astrali di una giovinezza che ancora una volta Rimbaud mi aveva suggerito di scrivere su fogli d’oro.  SI obbedisce sempre a una Necessità implacabile senza l’illusione di una scelta, lasciamola a chi si illude di controllare il proprio destino. Ecco lo sfondo tragico del mio pensare a vuoto le formule fatali dell’esistenza.

Ettore Fobo nacque fenice dalle ceneri di me stesso. Nell’urto con il mondo mi ero frantumato e dissolto. Ma non è forse ciò che accade a chiunque viva la propria giovinezza come una strenua lotta per diventare se stesso e non la sua caricatura all’ultima moda, socialmente accettata? Ed è sempre Kafka a insegnarmi il nuovo mantra della maturità così dolorosamente conquistata: ”Nella lotta fra te e il mondo stai dalla parte del mondo. “

 Buon Primo maggio a tutti, in particolare a coloro che il poeta Lamberto Garzia chiama i senza casta di questo moderno Occidente. A  quei giovani che non studiano, non lavorano, non guardano  la tv, non vanno al cinema, non fanno sport, fragili fratelli nell'erranza. 

Ettore Fobo

 

 

 

Facebook e altri non luoghi di una perenne alienazione

domenica 12 luglio 2020




Confesso,  ed è  per chi mi conosce un’amara confessione,  che mi sono deciso,  dopo molta riluttanza, ad aprire un account Facebook. Sono anni che ne parlo male, ed eccomi qui, agganciato anch’io a questo vortice, la mia faccia impressa in questo continuum di infernali  futilità. So bene che se il “mezzo è il messaggio” qui tutto è fagocitato dall’impersonalità di un blob, il messaggio annientato, il pensiero distorto e omologato, è il Mercato di cui scrive Nietzsche, in cui ogni  parola realmente autentica è bandita. Non da una subdola censura ma perché sommersa dalla massa di informazioni che si presentano ogni volta come verità definitive ma sono irrilevanti.

Per non parlare delle privacy. Si finisce per sapere cose anche importanti su persone che nella vita quotidiana sono delle sconosciute, con le quali magari ci si saluta a stento,  solo perché si è “amici” su Facebook. E potrei continuare. Credo che sia impossibile  usare Facebook e sia molto facile esserne usati manipolati, marchiati nel profondo. Allora perché sei entrato a farne parte? È la domanda dei più scaltri fra i miei lettori.

Semplice: un pensiero si è intrufolato nel mio dormiveglia  e ho concluso che da poeta ho il dovere di conoscere Facebook. Per me è come la discesa nell’Inferno dantesco o nell’Ade orfica. Esagero forse ma ahimè, son fatto così. Vi ricordo il libro di Luigi Siviero, di cui ho scritto tempo fa su Lankenauta.

Se Facebook è il regno della visibilità imposta come bene sommo, cosa c’entrano i poeti, da sempre devoti all’invisibile? “Mi sono sempre rifiutato di diventare la fogna del pensiero di tutti” chiosa ormai utopisticamente Artaud, che ha pagato questa purezza di intenti con l’alienazione mentale. E potrei scriverne ancora ma in questo periodo di pensiero la scrittura mi pesa un po’. E Io? E Facebook? Irrilevante che io parli di Dio o delle mie deiezioni per  la stessa natura del mezzo. Dunque? Sperimentazione. Mi tocca, sebbene obtorto collo.

Vedremo.

Ettore Fobo

Conformisti

giovedì 3 ottobre 2019




Certi poeti, certi sedicenti artisti, aspiranti velleitari per cui anche solo aspirare ad essere è un di più,  essi possono solo aspirare alla velleità, loro approdo mistico, laddove chiamano poesia un movimento intestinale del loro spirito, in realtà profondamente meschino e antipoetico,  cioè al massimo sentimentale.  Diciamo che costoro non si esprimono, semplicemente si sfogano. Lo fanno con sentimento? E chissenefrega dei loro deliqui. Ah,  questo scrivere di pancia,  per loro la banalità è un istinto gregario, fa tanto gruppo.

La loro universalità poveraccia di solito  sa di parrocchia, ma in genere scrivono dei casi loro, di quell’insulsa “brodaglia di amorazzi e usignoli” di cui parlava Carmelo Bene. Anche la loro eventuale pernacchia è parrocchiale e la loro cultura è solo, al limite,  venerazione del monumento e della sua funebre oppressione.

Essi sacrificano allo Spirito Santo della nostra epoca: il  conformismo. Se si fingono anticonformisti, al massimo finiscono per venerare la pinta di birra di un Bukowski ma ne ignorano il geniale sarcasmo, la sofferta ironia e la sottile strafottenza. Generalmente non ridono, infatti, sanno solo sghignazzare. Dentro la loro faccia cova la tremenda insignificanza che così spesso diventa livida e risentita arroganza. Li riconosco ormai al primo sguardo; rettili dal sangue gelido che sibilano soltanto  la loro vacuità aggressiva e strisciano ai piedi del Grande Idolo che ipnotizza.

Bigger than life

sabato 4 novembre 2017





Non scriverei oggi poesie, e forse nemmeno le leggerei, se non avessi incontrato a 14 anni “I fiori del male“ di Baudelaire. Aveva ragione Cioran a intitolare “Da Adamo a Baudelaire” un capitolo di un suo libro. Baudelaire fu un cambiamento epocale anche per me che ero poco più di un bambino.  Quando lo lessi, fu la mia iniziazione sacra, la scossa nervosa che generò in me il labirinto dei versi. E cominciai a vagare, fra libri, metropoli, illuminazioni, deserti.

Quando intorno ai vent’anni raggiunsi la terra desolata del mondo contemporaneo, Eliot fu il mio Virgilio in questo infernale precipizio che lo sguardo di Laforgue affilò come la lama con cui Benn compì le sue dissezioni sul cadavere del Novecento. Finché Mark Strand m’insegnò di quanto oblio è fatto il mondo e seminò in me l’idea paradossale di un futuro. Borges mi mostrò che labirinti e specchi hanno le loro sconosciute profondità.

Fra le donne, Emily Dickinson m’insegnò la solitudine che rende liberi e Marina Cvetaeva la necessità che un grido inconsolabile trafigga un cielo senza più preghiere. Negli ultimi anni Carol Ann Duffy mi ha guidato verso uno sguardo ironico, sarcastico, strafottente, con momenti di tenerezza sublime. Simic invece mi ha mostrato come la trascendenza esista nei dettagli anonimi della vita.  

E che dire di Rimbaud? “ Uomo dalle suole di vento” nella formidabile definizione di Verlaine. Il “mistico allo stato selvaggio” in quella di Claudel. La mia adolescenza ne fu tutta trafitta e di visioni tatuata. Vagheggiavo anch’io di una qualche alchimia del verbo. E di Pound? Garcia Lorca? Rilke? Whitman? Corbiére? Blake? Trakl? Majakovskij? Cendrars? Brecht? Auden?  Poe? Saint John Perse? Pessoa?  Ogni nome un’emozione diversa, una sottile introspezione psicofisica,   un’indagine nel tunnel  e nel sogno della parola,  nella diamantina oggettività della poesia.

E dunque gli italiani: Leopardi, Quasimodo, Campana, Montale, Gozzano, e un  poco più tardi Bigongiari, furono i maestri di una giovinezza riottosa, su cui svettarono anche i grandi outsider Pier Paolo Pasolini e Carmelo Bene a fomentare la rivolta contro i luoghi comuni linguistici che ci perforano il cervello con la loro automatica pesantezza.  Poi, più recentemente, la lettura di Jabès, la cui prosa rende indistinguibile poesia, misticismo e filosofia e dà voce a un enigma ancora più potente.  Le sue interrogazioni non cessano di aprirmi orizzonti a ogni riga. 

I nomi sono tanti, troppi. Nomi più grandi del secolo, o addirittura “bigger than  life”, come dicono gli americani. E così in questo istante questi nomi mi risuonano, vasti come il mare della grecità in cui tutto ebbe inizio, quasi tremila anni fa, numi tutelari di una vocazione più forte di ogni contemporaneo deserto.

Ettore Fobo