lunedì 26 luglio 2010
Se, come penso, la poesia è ciò che va aldilà della sua interpretazione, sarebbe futile cercare di decifrare i versi di Sylvia Plath, una delle poetesse per cui quest’assioma è più vero. Bisognerebbe fermarsi sul limitare delle sue poesie, e afferrarne l’essenza, lasciandola svaporare nell’incomprensione, che così facilmente permette di assorbire il mistero, vero scopo della poesia; ma alcune cose vanno dette. La poetessa americana colpisce prima di tutto per il suo freddo anticonformismo, la sua poesia, classificata dalla critica come confessional poetry, in realtà ha un respiro più ampio, una dimensione insondabile. Non è propriamente poesia dell’io, anche se può sembrare tale, è una lirica antisentimentale e tagliente, in cui i sentimenti sono spogliati della loro aura sacra e costantemente profanati. La poesia di Sylvia Plath è il frutto di una mente refrattaria all’ordine e alle classificazioni di maniera, è confessionale solo nella misura in cui restituisce alla vita quotidiana la sua centralità, mostrandola però come una gabbia,così per reazione lo spazio interiore si dilata, la poetessa americana ingloba il mondo esterno, che sembra diventare un’emanazione dell’interiorità. Questa poesia può apparire come uno sfogo crudo e crudele, un battere d’ali nel vuoto, un respiro fuori dal coro.
Colpisce in una donna, madre per giunta, la decisa irrisione del mito della maternità, il fastidio per gli infanti è presente in più di un verso, insieme all’avversione per la quotidianità amorosa della coppia convenzionale e verso molti diktat della società patriarcale. In ciò consiste la sua crudeltà: elevare lo smarrimento a chiave di volta dell’esistenza, mostrandosi nuda”come la pagina bianca” la poetessa americana muore suicida forse per eccesso di confidenza con la tenebra (in un verso arriva a dichiarare che la luna è sua madre) per un eccesso di anticonformismo. Alcuni versi si stagliano duri e petrosi, come un cuore sconfitto, altri invocano la tenerezza, con slanci mai patetici, altri ancora hanno in sé il germe di una disperazione priva di quella pietà per se stessi, che ci impedisce di franare sotto il peso dell’angoscia.
In una poesia dedicata al padre, morto quando lei era bambina, un altro mito d’amore viene trucidato, in versi crudeli e anche offensivi, che non lasciano spazio ad alcun sentimento d’affetto. Ecco questa è una costante: Sylvia Plath ama apparire fredda, ieratica, distante, anche se non si fatica a riconoscere che i suoi versi sono bruciature sulla pelle, ferite non cicatrizzate. La poetessa americana non ci sussurra canti di consolazione, non fa mai della retorica sentimentaloide, ma ci sferza con dei versi la cui esattezza è tenuta viva da una rabbiosa consapevolezza, anche sociale: “Tutti con occhi vacui dai riflessi di mica/vanno in schiera al lavoro, come dopo un lavaggio del cervello.”
“Io sono ancora cruda”, ”tutta odio”, “la mia testa una luna giapponese di carta” ,”Per te o chiunque sono troppo pura”, con questi flash si descrive Sylvia Plath, la sua lingua funziona per lampi e oscuramenti improvvisi, sempre attenta a liquidare le emozioni, cascami di una retorica che probabilmente la disgustava. Sylvia Plath ama apparire come una ragazza cattiva, e come tutte le ragazze cattive lascia dietro di sé una scia di enigma; la sua trascendenza non era nel divino, assente, né nell’amore, considerato un peso o una catena, era forse nella lucidità estrema, d’agonizzante, che certe sue poesie esprimono. La lucidità di una che amava lo specchio perché rifletteva esattamente la realtà senza finzioni, senza”preconcetti”. Infastidita dal mondo, tediata dal menage familiare, disgustata dalla quotidianità, lei dichiara la sua lontananza, la sua estraneità. Il suo cielo era “senza stelle, né padre”, era “acqua buia”, la sua poesia è forse la testimonianza di un naufragio esistenziale, sicuramente la confessione di una solitudine impossibile da redimere.