Quella di Patrizia Cavalli è una voce
inconfondibile nel panorama della poesia italiana contemporanea, voce forse
aspra, forse acida, sicuramente lontana dai cliché
ampollosi della retorica ipertrofica comune a certa poesia, ora troppo
barocca, ora rileccata o asettica. Così questo libro Einaudi, Poesie (1974-1992),
pubblicato per la prima volta nel 1992,
che raduna le sue prime tre raccolte, è un buon viatico per cominciare ad
attraversare i territori di questa poesia.
Si va dritti
alla sostanza delle cose, con pochi tocchi lievi: ”Eternità e morte insieme mi minacciano:/nessuna delle due conosco,
nessuna delle due conoscerò.”
Disillusione, disincanto, che sfiorano il cinismo e
il sarcasmo ma non vi sprofondano, rimanendo sullo sfondo di un discorso che sa
evitare le paludi del senso comune, pur rimanendo sobria testimonianza di una
vita. È una lingua scarna, spesso epigrammatica, che vibra di folgorazioni e di
sentenze minimali, mai troppo ardenti, mai troppo glaciali, ma sempre
inappellabili: “Ormai lo so,/ lo vedo
bene, la gente in viaggio/non mi piace. […]”.
Se in questa “ perfezione di deserto” diventiamo “parenti del niente” Patrizia Cavalli è consapevole che siamo giunti
all’era fatale del nichilismo. I valori si svalutano, gli orizzonti culturali
si annebbiano o sfumano, Dio esce di scena, rimanendo un semplice residuo
retorico, l’arte stessa diventa un trucco da
prestigiatori, che perde progressivamente prestigio, la poesia non ne parliamo,
ha smesso completamente di incidere; il
titolo della prima raccolta del 1974 del resto è emblematico : “Le mie poesie non cambieranno il mondo”.
Così non resta al poeta che una piccola
ricognizione nel quotidiano, che, però,
è anche il “lusso immenso di un’ esplorazione, ”parlando sommessamente, senza
strepiti e senza sogni.
Non è quello di Patrizia Cavalli un linguaggio
onirico o visionario, ma un linguaggio che, quasi radente al suolo, sa cogliere l’humus colloquiale in cui affondano le
voci della coscienza e del mondo. La forma dell’endecasillabo è quella
prediletta e spesso affiorano rime interne al verso, usate in modo
demistificatorio e ironico.
Così anche “L’io singolare proprio mio”, titolo di una raccolta, pare
un’ironia, se l’io è in realtà qualcosa di universale, forse uguale per tutti,
una mera funzione psichica omologante, una finzione.
Il tono intimo, dimesso, è risposta a una
scrittura inutilmente pirotecnica che, per Patrizia Cavalli, lascia in ombra la vera
sostanza, quando a interessarle è la frase lapidaria, concisa, che condensa
un’esperienza e non serve per produrre un effetto.
Qui tutto è parco, sobrio, stilisticamente
spoglio, pratico direi e le raffinatezze mai ostentate ma nascoste da una
scrittura che sembra avere l’obiettivo di mascherare l’abilità dell’artefice. È
una poesia la cui maestria non è immediatamente evidente, ma si apprezza dopo
diverse letture, specie l’opera di un’inesausta scarnificazione.
Questo linguaggio è una risposta agli
sperimentalismi che troppo spesso svuotano la parola di senso, distorcendo il
reale, qui il reale è raccontato nella sua verità senza abbellimenti retorici o
eccessivi stravolgimenti lirici, senza fantasmagorie lessicali. Linguaggio
diretto, anche semplice, piano.
Persino la produzione poetica è minimale (qui
sono raccolte tre sillogi che coprono un arco quasi ventennale). L’effusione
lirica è trattenuta, si sacrifica all’equilibrio formale ogni eccesso
linguistico.
Talvolta affiora un grido, che l’ordine
manifesto si rompa e riveli il caos sottostante, più vitale, pericoloso e
fecondo:
“Dio,
fatti valere, distruggi i giardinetti
curati e
fioritissimi. Vieni, foresta!”
La sensazione finale è che l’influenza di
Patrizia Cavalli sia stata vasta. Dobbiamo probabilmente a lei una parte dei versi minimali e
quotidiani che si scrivono oggi, sulle sue orme, magari senza la sua abilità e
padronanza tecnica.