Si è molto parlato di questo
romanzo di Houellebecq, Serotonina,
prima che uscisse il 10 gennaio 2019, per La Nave di Teseo, nella traduzione di
Vincenzo Vega. Se ne è parlato molto e spesso mi pare di poter dire in maniera
fuorviante, come spesso capita alle opere di questo scrittore, vuoi per
l’ambiguità intrinseca al personaggio, vuoi per mere ragioni pubblicitarie e di
lancio editoriale.
Romanzo profetico? Potrebbe darsi dato che Houellebecq spesso ha
visto con anticipo le tendenze sotterranee
della nostra epoca e le ha raccontate nel suo modo diretto e quasi
brutale.
In questo caso, secondo la stampa
e certi siti internet, avrebbe previsto la rivolta dei “gilet gialli”. Nel suo
romanzo accade qualcosa del genere in effetti, perché Houellebecq analizza il
malessere della Francia profonda, quella degli agricoltori messi in ginocchio
dalle politiche economiche imposte dall’Europa unita.
Questo per quanto riguarda
l’attualità ma il romanzo verte su ben altro. Anche se i riferimenti al presente giornalistico fanno gongolare i media e del resto sembrano essere messi lì apposta
come specchietti per le allodole.
Ma il fulcro del romanzo è
altrove. In una visione cupa e pessimistica della nostra epoca e della nostra
civiltà in disarmo, sostanzialmente. Quella di Houellebecq è una diagnosi
impietosa, viviamo una realtà distopica e distorta, dove gli individui sono
resi soli fino alla pazzia, dove la speranza è perduta e ciascuno sperimenta un
abbruttimento quotidiano, che non può essere definito nemmeno tragico, perché
la tragedia presuppone una forma di nobiltà, qui si tratta soltanto di
squallore malamente dissimulato.
Così Houellebecq racconta di
fallimenti esistenziali come sintesi di un fallimento più universale, quello
della civiltà occidentale e dell’umanità che in essa si è riconosciuta con
tutto il corollario che ormai sappiamo a memoria ma che lo scrittore francese
ci ripropone con la vividezza di uno spaccato socio – antropologico: fine delle
illusioni (religiose, politiche, scientifiche, sentimentali) e trionfo di
quello che Leopardi, lui sì davvero profetico, chiamava nell’Ottocento
“l’arido vero”. Sebbene non inedita, la
chiaroveggenza di Houellebecq è fuori discussione. Egli vede il deserto che
stiamo percorrendo tutti, più o meno nello stesso stato di sonnambulismo, e lo
racconta in maniera dura senza consolazioni, brutalmente come già detto.
Serotonina è un buon romanzo, solido, ben strutturato anche se non
griderei al capolavoro, perché stilisticamente non siamo nel regno della grande letteratura.
Houellebecq è un scrittore di talento con molto mestiere e molto acume e
antenne per captare i segnali del nostro tempo come pochi sono in grado di fare,
ma non lo definirei un genio e si
percepisce comunque che la sua vena sia in via di esaurimento e che la sua
energia creativa stia scemando inesorabilmente. Questo romanzo così è quasi una
confessione.
L’inizio è debole, ricalca situazioni già viste
nell’opera di Houellebecq e non è particolarmente ispirato. Ma Il romanzo dopo
un centinaio di pagine comincia a crescere fino a diventare un ritratto
convincente di un’epoca orribilmente desolata nel profondo, come la nostra.
Il personaggio principale Florent-
Claude Lebrouste è un funzionario del Ministero dell’ Agricoltura di 46 anni che
vive l’epilogo di una relazione amorosa con una misteriosa ragazza giapponese
più giovane di lui e scopre in sé i segni di una depressione. Assumerà un
farmaco antidepressivo il Captorix e comincerà a narrare la sua vita mescolando
passato e presente.
Tutti i personaggi di Houellebecq
sono schiacciati dal peso del tempo che passa, togliendo loro forza, bellezza e
illusioni, impoverendo drammaticamente i loro orizzonti di senso, condannandoli
a un lento ma ineluttabile sfacelo.
Questo è un romanzo di non luoghi
(alberghi, discount, centri commerciali) dove si consuma l’agonia di questi
personaggi dove anche il consumismo ha
perso il suo fascino ed è diventato una vuota liturgia nichilistica che
contribuisce al generale abbruttimento.
Qualche limite nella
descrizione dei personaggi femminili,
dove si indulge in qualche stereotipo, “donna angelo” o cinica sfruttatrice, essi
rimangono come prigionieri di una certa bidimensionalità da figurine. Ma c’è qualche
nota positiva anche qui: la sobria intelligenza di Kate o l’allegra vitalità di
Cécile sono ben raccontate Il panorama
psichico è comunque lo stesso per tutti i personaggi o lo diventa con il
passare degli anni: abulia, cinismo,
disincanto, resa emotiva, interiore e
quasi sistematico annientamento.
Così Houellebecq vede la nostra epoca, tutta
desolazione malcelata, speranza nessuna, incubo di una disperazione senza
fondo. C’è solo da chiedersi quanto di autobiografico ci sia in queste percezioni
e quanto invece di realmente oggettivo.
Sentiamo le parole del
protagonista: “[…]ed
ecco come muore una civiltà, senza seccature, senza pericoli né drammi e con pochissimo spargimento di sangue, una
civiltà muore semplicemente per stanchezza, per disgusto di sé, cosa mai
poteva propormi la socialdemocrazia, evidentemente niente, solo una
perpetuazione della mancanza, un invito
all’oblio”.
Qui Houellebecq sembra riecheggiare i
versi di T. S Eliot: ” È questo il modo in cui il mondo finisce/non
con un boato ma con un borbottio”. Così ancora una volta Houellebecq ci
racconta la sua umanità di “Uomini Vuoti”:
cinici, disperati, pavidi, soli.