sabato 28 febbraio 2015
Non esito a dire che Il mare e lo specchio di Auden è uno dei
testi poetici più complessi che siano stati scritti nel Novecento. Parlarne è
già impegnarsi a sviscerare un enigma insolubile; dunque è un testo che non è
possibile esaurire attribuendogli significati cristallizzati, una solida e
incontrovertibile verità da comunicare. Bisogna porsi in ascolto e nulla più,
veder affiorare una terra ingannatrice, una Fata Morgana di significanti in
eruzione. È letteratura pura, quella che Calasso chiama ”letteratura assoluta”, svincolata da ogni funzione sociale o bassamente comunicativa, essa è un procedere
dentro il mistero della parola, un sussultare della lingua fra impeti barocchi
e pathos luminoso, fra ritmi musicalmente ineccepibili e riflessioni
filosofiche, espresse spesso con
divertita noncuranza e che si avvolgono su se stesse come una spirale.
Difficile fu il cimento della leggendaria traduttrice
Aurora Ciliberti, quando negli anni ‘60
tradusse questo testo che la casa editrice SE ripropose nel 2001; rendere
questi versi fluenti come l’originale ed
evitare che essi apparissero contorti.
Il discorso di Auden non può che essere “tradito”, data la potenza e la
sottigliezza del suo versificare.
Purtroppo questa è una di quelle volte in cui si finisce per rimpiangere
di non poter apprezzare totalmente l’originale. La traduzione, però, è
viva, le scelte lessicali coerenti,
Ciliberti ci lascia un’eco credibile dello straordinario modello di
riferimento. Purtroppo si perdono tutte
le rime e quando ne vengono proposte alcune, francamente non sono all’altezza ma il compito
della traduttrice era impossibile. Insisto molto sulla traduzione perché in
parte l’ho ammirata, in parte ho avvertito
la fatica della traduttrice, il suo rovello, la sua sofferenza.
Il mare e lo specchio è,
come dice il sottotitolo, un “commentario
a «La
Tempesta» di Shakespeare”, dove Auden esplora il tema stesso dell’arte, del
teatro, della poesia, le possibilità del travestimento retorico operato da
Shakespeare convergono verso una scena in cui i due spiriti opposti, quello
dell’aria Ariele e quello terrestre e selvaggio di Calibano, nella loro opposizione spesso
inconciliabile, raccontano la potenza
dinamica dell’espressione artistica. L’opera d’arte stessa sembra scaturire da
questa opposizione che assomiglia, mutatis
mutandis, a quella prefigurata da
Nietzsche fra Apollo e Dioniso.
Nel personaggio di Prospero si
riecheggia lo stesso Shakespeare che rinuncia alla sua arte come Prospero alla
magia e ai suoi libri: “ Ma ora questi
pesanti libri non mi servono più, poiché/ dove vado le parole non hanno peso: è
meglio/, dunque, che abbandoni il loro allettante consiglio/ alla silenziosa
dissoluzione del mare”.
Il linguaggio di Auden è come un
serpente che si squama, che guizza
veloce, o come una cometa la cui coda ghiacciata è composta di aforismi e
sentenze piene di visionaria saggezza o immagini potenti come questa della ”silenziosa dissoluzione del mare”.
Il mare è la vita stessa,
mutevole, sconfinata, inafferrabile, lo specchio è quello dell’arte che non può
essere narcisistico autocompiacimento ma un fuoriuscire da sé, come nell’amore.
Commentario in cui si delineano, nel fasto onirico di un linguaggio poetico fra
i più arguti del Novecento, forti contrapposizioni: fra anima e corpo, fra
spirito e materia, fra caos e ordine, fra sogno e ragione, fra verità e
illusione, fra gioco(l’arte) e il dovere (l’azione),
Se anche ”la maturità è tutto”, la
saggezza è pura illusione, come ci raccontano questi versi mirabili: “Se la vecchiaia, che certamente/ è malvagia
quanto la giovinezza, può sembrare più
saggia/ è solo perché la giovinezza può ancora credere/ che verrà a capo di
qualcosa, mentre la vecchiaia/ sa solo troppo bene di non aver ottenuto
niente”.
Il monologo in prosa di Calibano
è un pastiche linguistico pieno di
difficoltà e di trabocchetti retorici, un gioco linguistico che mette a
durissima prova il lettore dove il senso della vita stessa si palesa forse
ironicamente e coincide con il “grido di
agonia” che la suggella. Qui la scrittura di Auden deve aver causato più di
un capogiro alla traduttrice, l’immagine di uno che si muove sul filo del
funambolo, pieno del rischio di morte, è appropriata, laddove la morte è in
questo caso l’incomprensione assoluta. Auden modella una lingua buia dove solo
a tratti accende la luce di un apoftegma che con la sua bellezza rende sensato
il periglioso attraversamento di questo linguaggio di incomparabile difficoltà.
Linguaggio raffinatissimo, astratto ma ricco di cose concrete, di immagini vivide, come questa ”la sola eccezione, la cifra che nessuna
delle sue magie può trasmutare, è l’indifferente zero”, dove “l’indifferente zero” è ciò che placa il
movimento di una prosa tumultuosa, quasi irruente, il gelido simbolo del nulla
che conclude una riflessione vertiginosa e abissale.
Ecco, vertiginosa, abissale, sono due aggettivi
perfetti per designare questa prosa dove le contraddizioni si
moltiplicano, e il gioco stilistico si
fa sempre più variegato, sfumato, sognante. Il rischio è che questa prosa
appaia un gioco fine a se stesso, e la sua magnificenza retorica risulti
stucchevole fino al solipsismo. Tuttavia l’ingranaggio di questa scrittura è
ben oliato, anche nella traduzione, e
alla fine ciò che essa comunica principalmente è il godimento estetico, e lo stupore per come Auden riesce a trattare le
parole, arrivando a “inesprimere l’esprimibile”, così come nella felice espressione di Roland
Barthes.
Fra poesia e prosa Auden racconta Shakespeare, mostra la potenza oscura
del linguaggio, ci affascina, ci disorienta, ci guida con lui in questa
camminata sul filo del funambolo (immagine che non a caso praticamente apre il libro) e realizza un’opera la cui complessità è di
per sé invito a danzare con le parole, a viaggiare al ritmo forsennato della
sua mente; ci catapulta in quel terreno
minato in cui la parola è epifania misteriosa, fuoco d’artificio, ”valzer sulla corda del funambolo”, riconciliazione
fra il divino e il terrestre, fra l’io e il mondo, fra l’arte e la vita.