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Autodifesa di un folle - August Strindberg

sabato 28 settembre 2013







Strindberg è stato indubbiamente un grande artista ma nel privato doveva essere un uomo pressoché insopportabile o quanto meno difficile da trattare. Tale è l’impressione che emerge dopo la lettura di questo romanzo autobiografico, Autodifesa di un folle, scritto tra il settembre del 1887 e il marzo del 1888, che, se è ricco della verve creativa dello scrittore e drammaturgo svedese, al tempo stesso denuncia la sua irritabilità, la sua instabilità,  le sue manie, la sua gelosia patologica. Perché sebbene questo scritto nasca per denunciare la depravazione della moglie Siri von Essen, descritta nel personaggio di Maria, in realtà si rivela un boomerang e un’arma  a doppio taglio.

 A uscire da quest’autodifesa malconcio e ferito è Strindberg stesso, di cui emergono la monomania, la misoginia, la teatrale ed enfatica disperazione,  i tratti, insomma, di un’alienazione mentale di cui egli incolpa in qualche occasione la moglie. Ella era una civetta, una donna viziata, una madre a volte disattenta,  indubbiamente, che riservava i pezzi migliori di carne per il suo cagnolino dando gli scarti al marito,  la mente alterata dello scrittore svedese ne fa un mostro, però,  ben aldilà delle sue reali  mancanze, tutto sommato minime. Strindberg non era il libero pensatore che impersonava nei suoi scritti, era un maschilista della peggior specie, un misogino inferocito, con, malcelati, i  tratti di un patriarca borghese con idee vetuste.

Queste si trasmettono al romanzo che, se pieno di vita e di rabbiosa e furente vitalità, è però attraversato da una misoginia che pare davvero patologica, da una paranoia strisciante, a tratti anche da una rabbia insensata. E’ la deriva di un romanticismo ormai datato, che leggiamo in queste pagine, dove l’idealizzazione della donna, elevata a Madonna, è solo il preludio della sua sconsacrazione, del suo decadere a donnaccia. E’ un procedimento ben noto alla psicanalisi che trova in queste pagine terreno fertile, il terreno in cui è nata.

Intendiamoci, Strindberg è uno scrittore abile, dotato di un pensiero sufficientemente lucido e insieme sufficientemente schizoide per creare un’opera d’arte riuscita, ma se il suo intento era difendersi dalle accuse della stampa del tempo, fallisce clamorosamente. Più che un’autodifesa il romanzo risulta così un’autodenuncia involontaria.

Come non parteggiare per la moglie - che pure ha i suoi  limiti - osservando il delirante vittimismo di Strindberg, che incarna con violenza idee arretrate sulla condizione femminile, che se non era quella della schiava, come voleva il nascente femminismo di allora, era, però, indubbiamente, fonte d’isteria e alienazione? Perché tutto si svolge all’interno dell’ambiente aristocratico e borghese, la moglie di Strindberg, con sciocche velleità da attrice, non è certo un personaggio dalla moralità impeccabile, ma farne un mostro, come vorrebbe  lo scrittore svedese è davvero eccessivo. Così da questo romanzo esce uno Strindberg patetico, ridondante, delirante, che scioglie le sue ragioni nell’acido dei suoi stessi eccessi di paranoia, anche se è capace in fin dei conti di denunciare gli orrori del matrimonio borghese,  da un lato solo, però,  quello maschile, con poca o nessuna comprensione verso i soprusi che la donna è costretta a subire.  

 Autodifesa di un folle è dunque un romanzo stilisticamente avvincente in cui, però, vengono diffuse idee datate legate a una misoginia che ha fatto, fortunatamente, il suo tempo, almeno a livello di superficie culturale, perché se scaviamo in profondità probabilmente le idee di Strindberg riscuotono ancora credito. La colpa principale della moglie è quella di non corrispondere all’immagine idealizzata che lo scrittore aveva creato nella sua mente. Colpa che non poteva essere perdonata, pena la perdita d’identità per lo scrittore svedese.

 E’ questo un romanzo in cui il delirio, però, assurge all’arte, Strindberg ci fornisce un ritratto di se stesso ambiguo: se da un lato egli è da ammirare per le capacità artistiche, per  la moralità e la rettitudine, dall’altro la sua delirante gelosia, la sua misoginia miserabile,  il suo patriarcale dispotismo, venato di idee paranoiche, sono da biasimare. La bellezza nel romanzo è nella sua, probabilmente involontaria, sincerità; nel tentativo di accusare la moglie Strindberg scivola sulla buccia di banana di un patetismo d’altri tempi, regalandoci più che il ritratto della depravazione muliebre, come avrebbe voluto, una propria caricatura, un autoritratto impietoso, uno schizzo della propria follia e insieme della follia di un’intera epoca che diede a Sigmund Freud materia per i suoi studi sulla nevrosi e sull’isteria. Epoca in cui sostanzialmente sia gli uomini che le donne, in modo diverso, sembrano vittime di un’identica alienazione, ancora più insidiosa perché non riconosciuta culturalmente e soffocata sotto strati di ipocrisia.