Dario Fo, con questo suo primo
romanzo, La figlia del papa, uscito
per Chiarelettere nell’aprile del 2014, dimostra tutto sommato di essere un
artista capace ancora, all’età di 88 anni, di rinnovarsi, rimanendo al tempo stesso
fedele alle fonti della sua ispirazione, che da sempre affondano nell’antichità medievale o rinascimentale, spesso
rielaborate anche linguisticamente. Con
questo romanzo si propone di diradare il fumo di leggende, miti o semplici
maldicenze che da sempre avvolgono il personaggio di Lucrezia Borgia, di cui
Dario Fo riscrive la vicenda, partendo proprio dalle fonti storiche, interessato, come si legge nella quarta di copertina,
nient’altro che a “ricercare la verità”.
Che quella raccontata dal
premio Nobel sia la verità pare, però, poco
probabile, sarebbe stato più onesto riconoscere al racconto la sua
natura di finzione letteraria e lasciare perdere l’ossessione tutta
contemporanea per la verità. La verità, bah, questa illusione lasciamola agli storici
e ai preti.
Il romanzo è abbastanza agile,
scritto con una lingua immediata ed efficace che non indulge a sperimentalismi
di alcun genere, solo in alcuni casi un gergo moderno traspare come un po’
incongruente. Mi sarei aspettato una maggiore aderenza linguistica all’epoca
narrata, ma in fondo non è un grande problema, perché il romanzo funziona
abbastanza, anche per la scelta di usare come tempo grammaticale il presente, che conferisce ulteriore immediatezza
alle vicende raccontate.
Così l’epoca narrata, con i suoi
intrighi, le sue guerre, i suoi colpi di scena, i suoi assassini, pare più
facilmente specchio della nostra, a conferma che l’umanità cambia d’abito, muta
le proprie maschere, ma nella sostanza rimane identica. E’ proprio questo è ciò
che colpisce: se la Storia è maestra in qualcosa, lo è in questo. Solo in
superficie, accidentalmente, le cose cambiano, in profondità risuona sempre il
detto dell’Ecclesiaste: “Non c’è niente di
nuovo sotto il sole”.
L’abilità, solo a tratti un po’
furbesca, di Dario Fo è quella di restituirci il periodo storico, per inciso la
fine del Quattrocento e il primi due
decenni del Cinquecento,
attraverso il racconto delle gesta di una famiglia cui la vox populi, e in parte la
storiografia, ha nei secoli attribuito
ogni genere di nefandezza: la famiglia Borgia, con il capostipite Rodrigo, che
diverrà papa, i figli Cesare, e Lucrezia, soprattutto, la figlia del papa appunto, principalmente
messi in evidenza
E’ una storia d’inganni di cui
Lucrezia soprattutto farà le spese. Sin da bambina, infatti, ella sarà vittima
del padre - che si fingerà per tanti anni suo zio, lo zio cardinale, fino quando eletto papa non rivelerà la verità
alla famiglia - e del fratello, lo spietato Cesare. Pedina nelle loro mani
ella sarà costretta a sposarsi più volte
per assecondare la ragion di stato ma saprà lentamente emanciparsi e rivelare
una natura forte, libera, capace di volgere a proprio favore anche le
disavventure.
Così il romanzo si configura come
la celebrazione di una donna, che per la storia è controversa e che, invece, secondo la versione di Dario
Fo, fu manovrata sin da bambina, facendo
con coraggio emergere la propria personalità contro tutto e contro tutti,
figura di eroina, determinata e compassionevole, che seppe sfuggire al degrado
morale della sua epoca e della sua famiglia, uscendo paradossalmente pulita dal
pantano di calunnie, illazioni, maldicenze che la perseguitarono tutta la vita
e addirittura nei secoli successivi la sua morte. Tra queste maldicenze Fo
annovera anche le accusa d’incesto con il padre papa e con il fratello Cesare,
che tanto hanno infiammato l’immaginazione dei contemporanei e dei posteri,
fino a fare di Lucrezia Borgia la figura
luciferina di una pericolosa e dissoluta femme
fatale.
La ricostruzione di Dario Fo,
non so quanto storicamente attendibile, è comunque interessante, al solito egli
ci conquista con un’affabulazione moderna intessuta di passione per la storia,
magari rielaborata secondo il suo estro.
il romanzo ha però il limite di
avere una conclusione debole, un finale in sordina, un epilogo opaco. Anche
certi dialoghi sanno troppo di fiction, di feuilleton,
per essere pienamente credibili, si rinnova la sensazione che linguisticamente Dario
Fo avrebbe dovuto osare di più, nella ricostruzione di un linguaggio
rinascimentale che fosse totalmente accettabile e magari più colorato, più
sontuoso e spumeggiante, e forse anche più arduo, meno leggibile. Troppo spazio
viene inoltre dato alle vicende amorose
con qualche spiacevole caduta nel romanzo rosa.
La figlia del papa è comunque un’operazione letteraria coerente con
il percorso artistico di Dario Fo, ed è tutto sommato un romanzo che si può leggere, senza, però,
aspettarsi troppo. Un premio Nobel può scrivere anche un romanzo senza
troppe pretese, gradevole, un testo che più che alla grande arte appartiene
alla letteratura di consumo. Non bisogna per questo gridare allo scandalo. Io
l’ho letto volentieri, traendone anche diletto, nonostante nutra da sempre
riserve su Dario Fo. Il testo è anche
accompagnato da disegni dello stesso Fo, che ha realizzato anche la copertina, disegni
interessanti che arricchiscono il testo e fanno del libro un’operazione
artistica a tutto tondo.