Il tormento delle figure - Alda Merini

mercoledì 29 febbraio 2012


I versi sono polvere chiusa/ di un mio tormento d’amore/ ma fuori l’aria è corretta/ mutevole e dolce ed il sole/ ti parla di care promesse/ così quando scrivo/ chino il capo nella polvere/ e anelo il vento, il sole, / e la mia pelle di donna/ contro la pelle di un uomo.”
Alda Merini
Alda Merini incarna la figura dell’outsider: scarsi studi, la detenzione in manicomio, la diffidenza, e insieme la fascinazione di diversi intellettuali per la sua poesia appassionata, vibrante, carnale. Così in questo testo, Il tormento delle figure, ripubblicato recentemente all’interno de Il canto ferito, antologia uscita in allegato con Il Corriere della Sera, c’è un’epigrafe eloquente: “La cosa meno scandalosa della vita è lo scandalo.”
Perché Il tormento delle figure è un libro di prose che camminano proprio sul filo dello scandalo, lo scandalo dell’amore raccontato senza pudore ma con grande innocenza, come un’esperienza centrale. La convinzione profonda di Alda Merini è socratica, come nel Fedro di Platone ella esalta il delirio amoroso, la dissennatezza insita nel rapporto erotico, la follia del sentimento, la passione della carne.
“Il grande sentimento d’amore sconfina quindi nel delirio e nella demenza.”
Tutto questo filtrato, o deformato, attraverso una prospettiva cristiana.
“L’amore può essere assoluto e impreciso, comunque è sempre possessione demonica, perché il piacere è demonio, è fuga, è momento.”
E’ il libro di una poetessa che in vita si lamentò molto a causa della mancanza di amore, Vuoto d’amore è il titolo di uno dei suoi libri ma di amori ne ebbe molti e in queste prose trasfigura l’esperienza erotica fino a farne una manifestazione deviata dello spirito: “Il vero amore è lo spirito che si converte in Es, lo spirito che sbaglia rotta.”
Che i rapporti siano platonici o meno è considerato secondario, quello che conta è avventurarsi ai limiti dell’esperienza amorosa, per trovare l’unità fra anima e corpo tanto che Merini scrive: “Per adorare l’anima, bisogna tener conto del corpo.”, oppure “Negare il corpo vuol dire negare l’arte, e negare l’arte vuol dire negare l’anima.”
Lo scandalo è l’amore stesso, che, anche quando non arriva all’amplesso, conserva la sua dimensione peccaminosa, anzi, nelle parole della poetessa milanese, la castità accresce il peccato.
Alda Merini è così sospesa fra carnalità e spirito, dove la carne e la passione sembrano le uniche realtà in grado di mettere ali allo spirito, di farlo volare e viaggiare.
Le figure di queste prose sono gli amanti di cui si scrive; padre R, misterioso frate di cui Merini s’innamorò, Giorgio Manganelli con cui ebbe una relazione da adolescente, il marito Ettore, il clochard Titano e altri. C’era il rischio di scivolare nel pettegolezzo autobiografico ma Alda Merini trasfigura ogni racconto traverso il meccanismo della sua scrittura, che nasconde e rivela al tempo stesso, trasforma sostanzialmente ogni incontro, anche il più banale, in un’esperienza mitica, a tratti mistica, persino nel caso di rapporti occasionali consumati in fretta.
Infatti, una delle figure, possiamo tranquillamente dire uno degli amanti, è Dio, che compare spesso fra le righe, testimone di questi scandali d’amore e confidente segreto della poetessa. C’è anche una visione sottilmente tragica “ E Dio è precipizio, non è né luce, né canto.”
La prosa di Alda Merini è sospesa fra il lamento e l’inno, si situa in quella dimensione in cui le parole sono incandescenti e lo scandalo aleggia sempre, perché lei, per via della sua storia, era estranea a quel mondo milanese d’ipocrisia e perbenismo.
E’ lo scandalo della follia, lo scandalo di una sensibilità esagerata, anche lo scandalo di una sessualità bruciante, Alda Merini era davvero questo fiume in piena che trasportava perle e vecchie carabattole, sentenze aforistiche illuminanti insieme a frasi appesantite da un pathos e da una retorica eccessive, da outsider che se ne frega delle convenzioni e insegue soltanto l’acme del sentimento. Il tormento delle figure è un testo emblematico del percorso della poetessa milanese, giustamente riprodotto integralmente in questa antologia Il canto ferito, curata con grande passione e rispetto da Nicola Crocetti.
Dopo tanto materiale di non eccelso valore pubblicato dopo il successo mediatico, è necessario rileggere il miglior lascito di Alda Merini; in queste prose ascoltiamo una voce significativa del Novecento italiano intonare il suo canto d’amore, ora disperato, ora colmo di un’ebbrezza, anche erotica, fatalmente scandalosa, perché in questa società la sensibilità è uno scandalo di per sé.
Se anche Merini sembra talvolta peccare d’ingenuità nella sua visione del poeta come negromante dell’ispirazione, ha ragione però quando in questo libro scrive:
“ L’Italia dell’Umbria, della fontana di Trevi, l’Italia della Dolce Vita, non sa che i poeti vivono nel cuore dell’Africa, e sono amici degli stregoni, dei pitoni, degli elefanti e della pratiche magiche della terra. “
Anche l’eros è qui raccontato con accenti geniali:
” Lo so, le tue alchimie erano notturne. Udivo i tuoi sogni sopra la mia pelle ora per ora, e gemevo contro le pareti tenendo strette le gambe contro di te, magnifico avvoltoio.”
Il tormento delle figure è un bel testo, quel che si dice un testo maturo, in cui la dicotomia carne - spirito è raccontata con sobrietà a tratti deliziosamente allucinata, e il delirio è, in maniera apollinea, contenuto dalle figure che lo ispirano. Uniche note stonate, certe giustificazioni spiritualistiche della carnalità, che inficiano un poco l’autenticità del suo discorso.
Comunque sia, Alda Merini pare divisa fra cielo e terra, fra l’anelito a realtà trascendentali e la carnalità, anche brutale. C’è poi un aspetto autodistruttivo, per esempio del clochard Titano scrive: “La tua violenza mi servì. In fondo, Titano, tu non lo sai, ti ho sempre aperto la porta sperando inconsciamente che tu fossi il tanto auspicato Assassino. “
Qui, dove l’amore si rivela anche divorazione reciproca e un reciproco scannarsi, noi leggiamo, a mio avviso, una delle opere migliori della poetessa milanese, un testo che le fu commissionato da Il melangolo nel 1990, e che fu dedicato a Giorgio Manganelli e alla sua Hilarotragoedia, un testo in cui il sentimento è purificato dalla passione erotica, non dissimulata, raccontata a tratti con discrezione, a tratti in maniera impudica, ma soprattutto trasfigurata in mitologia personale.
E’ interessante la dinamica della scrittura, che sa trasfigurare poeticamente il dato ordinario e insieme ne restituisce anche la crudezza originaria. E’ una scrittura carnale, che si mistifica spiritualmente e viceversa, in un processo inverso.
“Noi tutti abbiamo nel cuore la bambola manganelliana, e non riusciamo a partorire questa bambola perché è il vudù dello spirito. Questa bambola ha ali metalliche e mente di trascendenza”.

Il poeta come fingitore - una riflessione su Pessoa

sabato 18 febbraio 2012



"Il poeta è un fingitore. /Finge così completamente/ Da fingere che è dolore/ Il dolore che davvero sente.”

Fernando Pessoa

Subito Pessoa evoca un’idea di modernità: non potendo essere se stesso per una sorta di maleficio, o per quella che ai tempi si chiamava nevrastenia, si frantuma in un’infinità di doppi, si trasla nella maschera, si frantuma. Pessoa è proprio questo universo poetico frantumato in più direzioni, che sono poi i vari eteronimi che il poeta portoghese interpretò sulla pagina, poeti dotati di una loro biografia, di un loro pensiero, di una loro visione. Pessoa divenne così il filo che univa e reggeva un universo di infinita simulazione, di mascheramento, di supremo nascondiglio. In Pessoa, come penso in Kafka, è potente l’impossibilità di essere, di manifestarsi, per effetto quasi di un maleficio, quello che Artaud chiamava “affatturamento globale”, perché il pensiero è male, è una malattia, i filosofi sono ”uomini pazzi”.

La più grande ossessione di Pessoa è il peso della propria presenza nel mondo come essere intellettuale, e quindi gioco forza immaginario, metafisico. La sua grande mistificazione è un chiave inglese per scardinare tutte le altre illusioni della metafisica, in primis il concetto di identità. Per Pessoa ciascuno non è un’unità  ma come per Nietzsche, è una costellazioni di impulsi e di sogni. Non c’è nulla di metafisico, “tutto è occulto” e le religioni sono solo una forma di pazzia- “Pazza , la fede vive il sogno del suo culto”- cosa ci rimane, spogliati di tutto l’apparato metafisico, non potendo più naufragare in Dio, se non accettare l’arida, la rude, realtà della Tabaccheria, in Pessoa antimetafisico, luogo metafisico per eccellenza? E’ questa la grande contraddizione d Pessoa che se rinuncia a Dio, a se stesso, al simbolismo delle cose, che sono quello che sono, come in una poesia di Sbarbaro, sente nostalgia di queste realtà metafisiche che nella maggior parte versi, a livello intellettuale, tanto dispregia, segni di una malattia.

Talvolta, però, soprattutto nel Pessoa ortonimo, Dio appare come una dimensione con cui rapportarsi, egli appare come la voce dell’universo, la sintesi delle sue creature. Quindi in Pessoa c’è un inevitabile sdoppiamento, egli prima finge di non credere a realtà trascendentali poi di credere, mescola le carte e ironicamente ce ne mostra una con un jolly ghignante. E’ l’ambiguità inevitabile di chi, attraverso la moltiplicazione delle maschere, sempre si dissimula, preferendo l’evanescenza di questo processo allo spietato inquadramento dell’identità. Dunque sognare sì, vagheggiare, vaneggiare, ma rimanendo al tempo stesso consci della propria presenza nel mondo, in cui anche l’infinito ci ignora, dove la stessa vita è “un mendicante sbronzo/ che porge la mano alla propria ombra”.

Nelle parole dell’eteronimo Alberto Caerio c’è un rifiuto del panteismo dei poeti mistici, in nome di un’oggettiva consapevolezza molto moderna, che intuisce la nullità delle cose, magiche perché dotate solo di esistenza, non di pensiero, che in Pessoa è sempre un agente inquinante. Cosa c’è da sognare per l’uomo moderno incarcerato in un abisso di convenzioni se non la spontaneità degli animali e dei bambini, o addirittura, per l’uomo metafisico, gravato di troppi sogni e troppi incubi, lo stadio inanimato della pietra?
Pessoa sogna senza sognare, in lui vive un profondo disincanto che lo distacca dalle cose, di cui pure egli diventa il cantore: Il cantore dell’oggetto pietrificato, della “nostalgia delle cose che non furono mai” né potranno essere, teso unicamente alle commedie della propria anima, alle vicende della propria interiorità tragicamente riconosciuta senza sostanza. Pessoa vive da poeta tutte le contraddizioni della modernità e cerca di superarle attraverso l’artificio e la simulazione, per conquistarsi semplicemente uno sguardo neutro. Non si può uscire da se stessi, l’uomo è insieme la prigione e la guardia carceraria, si potesse sospendere il pensiero e accedere a cosa? Pessoa non crede alla beatitudine dell’estasi, forse la sua beatitudine era la suprema banalità per cui una cosa è quella che è. Dietro non c’è nulla nessun mistero, ma solo la superficie che riflette un profondo disincanto. Pessoa non sembra credere nemmeno alla propria poesia, al suo potere di farmaco, è disilluso tanto più cerca artificiali esaltazioni nel suo vagheggiare solitario. “C’è molta metafisica nel non pensare a nulla.”

In Pessoa ogni eteronimo racchiude un’unicità, un mistero, una voce inconfondibile, a cominciare da Bernardo Soares quello maggiormente ricalcato su Pessoa stesso, fino all’autore di una delle poesie più violentemente cupe Alvaro de Campos, prigioniero di una nave e dell’oppio, del male di vivere, colui che con gesto irato vuole troncare con ogni commedia della propria anima, in uno slancio di autenticità.
Pessoa sente con l’immaginazione e si chiede cosa significhi il passare del fiume, la vita del contabile, la tabaccheria davanti casa. C’è solo questa via, quest’angolo di mondo; l’orizzonte, l’oltre non sono temi di Pessoa che non vi crede, non c’è trascendenza alcuna, se non, e qui Pessoa involontariamente è mistico, nel non pensare. Tutt’al più quello che conta è la sensazione, il sentire trasognato di chi vive smarrito ma consapevole del proprio smarrimento, da cui trae anzi sostanza di canto universale, nel caso di Pessoa il canto della disgregazione, dell’impossibilità ad essere e della necessità di fingere, perché la sensazione finale è che per Pessoa dietro la maschera non ci sia nessuna faccia ma il vuoto.

“Non sono niente.
Non sarò mai niente.
Non posso voler essere niente.
A parte questo, ho dentro tutti i sogni del mondo.”

Alvaro de Campos” convalescente del momento”, è quasi un futurista, esalta la macchina e scaglia un ultimatum contro la Cultura borghese del suo tempo, è un poeta decadente, ”sonnambolico”, devastato dal male di vivere. Riccardo Reis è un poeta sognante, nelle sue Odi si rivolge a delle donne, anche se ogni bacio sa di congedo, e la “legge inappellabile ”gli duole dentro. Alberto Caeiro è l’antimetafisico, l’antimistico, che proclama che le cose non nascondono nessun segreto, solo si limitano ad esistere; Caeiro sembra cosi perseguire l’innocenza della pietra. Infine Bernardo Soares, l’impiegato contabile autore del Il libro dell’inquietudine, sognatore dedito all’inazione, schiacciato dalla consapevolezza metafisica della propria inanità, rinchiuso in poche vie di Lisbona a tessere le sue trame di fantasia e sogno. Pessoa incarna così una pluralità di voci, che si distinguono una dall’altra, e insieme sono unite da echi profondi.

E’ una costante simulazione, una finzione profonda, l’artificio di mille maschere che sembrano divenire autonome. La sostanza, massimamente evanescente, è in questi versi dell’eteronimo Alberto Caeiro, tradotti come tutti quelli citati da Paolo Collo.

“Altre volte a fior dei ruscelli
Si formano bolle nell’acqua
Che nascono e si disfano
E non hanno alcun senso
Salvo esser bolle d’acqua
Che nascono e si disfano.”

Tutto qui, verrebbe da dire, nessuna trama occulta, nessun senso metafisico, eppure…
La metafisica, cacciata dalla porta, rientra dalla finestra, nel non pensiero infatti Pessoa riconosce la meta delle sue ambizioni, non pensiero che lo avvicina ai mistici, tanto disprezzati. Pessoa è insieme sia una cosa che l’altra, un universo di emblematiche frantumazioni, sotto il segno, algido, di una moltitudine di maschere. Qui tutto è invenzione dal nulla e consapevolezza del nulla, Pessoa interpreta l’uomo novecentesco alla massima potenza, e ci lascia ancora oggi un’idea della modernità, come luogo di questa moltiplicazione di nemesi, ombre, maschere, potenze dell’ignoto. Ascoltiamo ancora Alberto Caeiro:

“ (Lodato sia Dio perché non sono buono,
E ho l’egoismo naturale dei fiori
E dei fiumi che seguono il loro cammino
Preoccupati senza saperlo
Solo di fiorire e scorrere.
E’ questa l’unica missione del mondo,
Questa- esistere chiaramente
E saper farlo senza pensarci).”

Lo scrittore come iconoclasta - una riflessione su Sade

sabato 11 febbraio 2012



“E l'uomo e la donna sanno fin dalla nascita che nel male si trova ogni voluttà.”
Charles Baudelaire

Il rapporto con Sade è stato per me un crinale difficile, lo è per tutti, credo. Da ragazzino temevo il Divin Marchese e a distanza di anni, leggendolo, ho scoperto perché: era la paura di rispecchiarsi nei suoi personaggi, di vedere la mia umanità stessa ridotta a brandelli dalla sua estetica del male. Che ne sarebbe stato delle mie finzioni? Ho percepito sempre Sade come uno scrittore pericoloso, e lo è, forse uno dei pochissimi, veri, sovversivi delle lettere, una sorta di brigante in una terra abitata da onesti contadini.

Da adolescente lessi comunque il racconto di Justine e Juliette in quella prima stesura de Le sventure della virtu’, per poi scoprire che Sade, ossessionato dal tema del vizio trionfante e della virtù vilipesa, aveva dedicato diverse riscritture a questa storia, ossessivamente reiterando la sua sfrenata passione nera fino al delirio. Delirio che prese le forme ambigue di quello straordinario romanzo che è La nuova Justine. Romanzo nero e terribile, spaventoso in ogni sua fibra, nonostante questo, anzi a causa di ciò, terribilmente comico.

Perché Justine subisce di tutto: dallo stupro fino alla tortura, viene ingannata, circuita, perseguitata, fino ad assistere impotente ad omicidi, orge spaventose, descritte con minuzia, e il suo buon cuore, la sua virtù, la sua bontà, rimangono pateticamente inalterate, producendo una dissonanza che fa scattare il sorriso, la risata, fosse anche il riso sarcastico, biliare, che i francesi chiamano rire jaune. Più Justine invoca la bontà del creatore, più si abbattono su di lei sciagure di ogni sorta. Più invoca misericordia, più ottiene di essere trattata con ferocia. Gli eventi orribili non la cambiano, ella, rimanendo salda nei suoi principi, si offre al mondo come una vittima sacrificale. Personaggio impossibile, irrealistico, paradossale, Justine serve solo a dimostrare la tesi che stava tanto a cuore a Sade: la virtù porta disgrazia, in seno alla società umana solo il vizio può prosperare. Così Juliette, la sorella, abbandonando ogni remora morale, rubando, prostituendosi, uccidendo, ottiene i favori della sorte, viene premiata dalla fortuna.

La comicità è insita anche nella ripetizione dello stesso modello: i libertini feroci di Sade sono tutti uguali, e son filosofi, e filosofeggiano intorno alla necessità del male. La loro tesi è sempre la stessa: la natura vuole il male, lo predispone, e fare i voleri della Natura è cosa somma e giusta, e tanto peggio per le vittime della loro depravazione, chi è più forte è giusto che applichi la forza. La filosofia di Sade non regge assolutamente su nessun piano, chiamarla filosofia è già troppo, si tratta, e ciò è interessante, di una parodia. E anche questo produce effetti comici, perché questi personaggi sono assolutamente grotteschi, spaventosamente grotteschi, tanto più condiscono di affermazioni filosofiche o pseudo tali le loro porcherie. Sono perciò il rovescio insanguinato dell’illuminismo, il suo frutto avvelenato.

Quella di Sade è una terribile operazione di macelleria, con cattiveria chirurgica egli ci libera dalla ipocrisie del buon cuore, mostrando l’essere umano nella sua mostruosità e la natura, non più idealizzata, come luogo del sopruso. Solo che Sade non piange su questa constatazione, l’ingiustizia lo eccita, lo sprona a duellare con le forze naturali in una gara di mostruosità.

La radicalità di Sade è questa: in nome della libertà i suoi personaggi possono permettersi tutto. Nulla di più lontano però dalla famosa frase di Voltaire: “La mia libertà finisce dove comincia quella degli altri”. Gli altri qui non contano nulla, sono solo strumenti atti a soddisfare una spaventosa, e spaventosamente irrealistica, libidine. Peggio dei personaggi del Satyricon, questi libertini conoscono desideri smodati, sono senza limiti, aldilà delle stesse possibilità naturali. In Sade c’è un ritratto impietoso dell’uomo stesso, cui si riconosce e di cui si incoraggia solo il formidabile egoismo. La furia iconoclasta di Sade non ha limiti e distrugge ogni valore della religione cattolica, da lui sommamente spregiata. La sua visione del mondo è perciò un’etica cristiana rovesciata, in cui fare il male è l’immensa voluttà, e fare il bene una condanna a diventare soltanto vittime dell’altrui malvagità . E’ dunque dal sacro che Sade prende la sua energia, la pornografia è innanzitutto profanazione, scempio, aggressione a dei valori. E’ proprio la Provvidenza dei cristiani a essere rovesciata: chi fa il male trionfa, chi fa il bene finisce nella disgrazia.

Quella di Sade è letteratura di perversione, perché alla base c’è un rovesciamento, Sade diventa pervertito in sfregio di tutti i valori consacrati, delirando nelle sue pagine come un ossesso, pagine in cui risuona quella che Blanchot ha chiamato “la solitudine dell’universo”, immagine e proiezione della stessa prigionia di Sade, che, com’è noto, passò quasi tutta la sua vita in carceri e manicomi. Gli vengono attribuiti un paio di atti di violenza su prostitute, nulla rispetto a ciò che fanno i suoi personaggi, la realtà è che la sua colpa principale agli occhi della società del suo tempo non è stata soltanto la sua vita dissoluta, ma soprattutto aver scritto nei suoi romanzi il più feroce inno al male. Sade è comunque uno scrittore colpevole, la sua immaginazione nera era senza veli, senza freni, colpevolmente assurda e mostruosa. Con Sade la letteratura con gesto irato si toglie la maschera che le ha affibbiato la scuola e si mostra criminale, scandalosa, folle, perversa. Come ha visto Foucault, da un lato Sade esalta la ragione, come gli Illuministi, dall’altro la mette letteralmente al servizio del caso, del caos, della più cieca e irrazionale violenza. Sade pare uno scrittore ludico, che scrive per il proprio piacere perverso, mettendosi dalla parte dei demoni che imperversano nell’essere umano, invece di condannarli, li esalta.

Nei suoi scritti ci ha dato la più nitida delle immagini del male, agendo così, involontariamente, da moralista. Perché, orribili e mostruosi i suoi personaggi definiscono in maniera negativa l’essere umano, gettano su di esso una luce sinistra.

Il mondo di Sade è rigorosamente diviso in vittime e carnefici, deboli e forti, e nessun precetto morale può impedire che la natura si realizzi spaventosamente crudele come Sade la rappresenta. Questa è la sua convinzione profonda: fare il male è necessario, Dio è una fola, la Natura ci vuole malvagi. Non c’è nessun equilibrio nei suoi romanzi, se non quello puramente formale, tutto è eccessivo, votato a disintegrare, più che infrangere, leggi, tabù, convenzioni; l’ universo stesso non basta a contenere la fame di distruzione dei suoi personaggi, che diventano emblematici. Come ha notato Bataille, Sade è quasi liturgico, nella sua ossessiva reiterazione dell’identico copione, è sicuramente ossessionato dalle sue stesse tesi, messe in bocca a personaggi che si somigliano tutti, nell’uguale depravazione.

Sebbene in possesso di uno humor crudele e funebre, nessuno scrittore è meno ironico di Sade, nei suoi romanzi la perversione si mostra in tutta la sua violenza come un regno senza gioia, e il piacere, tanto esaltato, è ombra fra le ombre, essendo insaziabile l’anelito di questi libertini. Sade ci fa capire che la smania di distruzione è senza fondo come la crudeltà umana, quando l’uomo raggiunge quella che Bataille chiamava, riferendosi proprio al Marchese de Sade, ” la vertigine del suo scatenamento” . Tutto è parodia in Sade intendendo la parodia come un controcanto avvelenato, una profanazione costante, i suoi personaggi sono mossi da desideri stratosferici, guidati non dall’istinto, ma da un’immaginazione senza freni.

Chiuso nella Bastiglia, mentre fuori infuria la rivoluzione francese, Sade scrive Le 120 Giornate di Sodoma, sorta di Decamerone perverso, romanzo horror pornografico, tremendo noir claustrofobico, manuale della depravazione. E la Storia là fuori? Non farà altro che smarrire il manoscritto che verrà pubblicato per la prima volta nel Novecento.

Sade è uno scrittore scandaloso ancora oggi e lo sarà sempre, perché il suo scandalo è stato attaccare furiosamente le fondamenta stesse del vivere civile. Si è messo dalla parte del Male, e lo ha descritto con tutta la violenza dell’immaginazione, è stato maniacalmente preciso nel descrivere i contorni dell’umana depravazione, così preciso da dare il nome una perversione, il sadismo appunto. E’ stato così follemente preciso da diventare l’ emblema stesso della crudeltà. E’ il cattivo maestro per eccellenza, il genio maligno che ci osserva dalle profondità della nostra ombra.

Elogio dei sogni - Wislawa Szymborska

giovedì 2 febbraio 2012

Premessa: Il seguente articolo è stato scritto qualche giorno prima della recente morte della grande poetessa polacca. Lo pubblico in questa sede invariato e mi unisco al cordoglio di tutti coloro che amano la poesia.
***
Elogio dei sogni di Wislawa Szymborska è il primo numero della collana di poesia che esce in allegato al Corriere della Sera, collana ambiziosa e utile che si propone di sintetizzare un secolo di poesia, il Novecento.

Molta acqua è passata sotto i ponti da quando, pressoché sconosciuta in Italia, la poetessa polacca vinse nel 1996 il Premio Nobel, probabilmente causando sconcerto anche in molti addetti ai lavori letterari. Oggi Wislawa Szymborska è tra i poeti più letti e ammirati del mondo, tanto che il Corriere ha deciso di inaugurare con lei la sua collana, curata da Nicola Crocetti, che si preannuncia povera di poeti viventi(oltre a lei gli altri  premi Nobel Derek Walcott e Seamus Heaney).

E’ una bellissima antologia, che ripercorre il percorso creativo di questa poetessa, che usa l’ironia nei suoi versi e un tono colloquiale, minimale, privo di retorica e dunque estremamente moderno.

La modernità è un dato subito percepibile nelle movenze di questa scrittura che sa accogliere le minuzie e le inezie del quotidiano per restituircele con esattezza. E’ una poesia gioiosa che sembra poter superare tutte le angosce, ora con l’ironia, ora con una consumata saggezza, una poesia in cui è celebrata la stessa ”gioia di scrivere” , ma al tempo stesso il pragmatismo di chi di scrivere non se ne cura.

Szymborska opera con leggerezza, ironia, levità di tono, fino a sfiorare l’impalpabile, per gettarci anche nella ”vita inconcepibile”, ma con un gesto di materna dolcezza, senza ira, senza rabbia, senza rancore. Perché se da un lato può sembrare perfino una poesia innocente, per la sua mancanza di aggressività , è però fatalmente innervata di sentenze misteriose, di versi illuminanti, di immagini rapite. E’ una poesia sapienziale, in fondo, che nasconde nella banalità dei temi la sua profonda sostanza oracolare.

Szymborska è una Sibilla nascosta fra le fronde di una sensibilità contemporanea, fondendo ella i tempi e spazi del mito e della storia nell’istante di una perpetua epifania di stupore, parola chiave per interpretare la poetessa polacca. Stupore davanti alla vita, che non è da lei esaltata per le cose straordinarie ma per quelle semplici e ordinarie, come la cipolla di una sua famosa -e scherzosa - poesia , contenuta in questa raccolta, tradotta interamente da Pietro Marchesani.

La cipolla è un’altra cosa/Interiora non ne ha./ Completamente cipolla /fino alla cipollità/ Cipolluta di fuori,/cipollosa fino al cuore,/ potrebbe guardarsi dentro/ senza provare timore.”

E’ la banalità dell’esperienza umana ad essere esaltata, come fosse una gloriosa manifestazione del mistero dell’esistenza, mai realmente inutile, mai realmente orribile, ma tutt’al più media, comoda, sicura.
L’impressione, leggendo la Szymborska, è che la vita sia confortevole come i suoi versi, calda come un tranquillo focolare, si ha la sensazione che le sue poesie siano stanze in cui è bello abitare, lasciandoci cullare dalla tranquillità e dalla pace di aver compreso che tutto questo affaticarsi ha nelle sue pause tutta la sua bellezza e tutto il suo mistero. Questa stupefazione davanti al mondo è il cardine di una poesia in cui i toni cupi sono assenti perché Szymborska esplora un territorio in cui tutto è alleggerito da una sorta di superiore accettazione.

Ugualmente vi sono poesie in cui sferza anche una visione tragica, ma tale visione non ci induce alla disperazione o alla rassegnazione, qui c’è sempre come un invito a danzare, fosse anche sul palcoscenico del nulla.

“Perché tu malvagia ora,/dai paura e incertezza?/ Ci sei – perciò devi passare./Passerai e qui sta la bellezza.”

Neanche la caducità dell’esperienza umana è sentita con sofferenza, perché è ciò che permette il mutare, e impedisce l’assuefazione. Sottintesa troviamo sempre la ricerca di un’invisibile armonia, nella diversità e nella somiglianza. Perfino l’infanzia di Hitler è raccontata come un’infanzia qualunque, colma di tutte le promesse di un’infanzia qualunque, con il piccolo Hitler circondato dall’affetto e dalle speranze dei genitori.

Splendido esempio della capacità icastica della Szymborska la poesia Impresso nella memoria, dove la poetessa implora pietà a una rondine, trasfigurata fino a diventare “Icaro perfezionato/ frac asceso al cielo” oppure “lutto festante/aureola degli amanti.” Nel bellissimo monologo di Cassandra anche il destino della profetessa pare meno tragico, così come in Tarsio, o nella poesia Uno spasso, la constatazione della piccolezza dell’essere umano, del suo essere povero e minuscolo, è spunto per l’esercizio di uno sguardo fondamentalmente ironico e disincantato. Altrove in Foglietto illustrativo Szymborska dà voce a un tranquillante che attraverso la sua “pietà chimica” è però destinato in qualche modo a rubarci l’anima.

“Vendimi l’anima./ Un altro acquirente non capiterà/ Un altro diavolo non c’è più”.

E’ una poesia che indaga anche nelle pieghe della conversazione comune nella poesia Funerale, dove vengono riportati stralci di discorsi qualsiasi, fra considerazioni quotidiane, banalità e frasi interrotte, o ancora esalta la bellezza del Pi greco, numero di infinite cifre che incita ”l’oziosa eternità/ a durare.”

Ecco dunque lo stupore ancora una volta a dare sostanza di mistero ad ogni cosa, con gesto meditato, ironico e affabile, Szymborska ci guida in questa realtà fatta tutta di una scrittura lieve, che toglie pesantezza e sembra darci le ali di una divertita saggezza di vivere. Ogni sua poesia è una scoperta e una sorpresa, è un luogo in cui la rissosa contemporaneità si decanta in un armonioso discorso, che esalta le piccole cose, prossime all’incantesimo per la loro semplicità misteriosa.

“Sto sulla scena e vedo quant’è solida.
Mi colpisce la precisione di ogni attrezzo.
Il girevole è già in funzione da tempo.
Anche la nebulose più lontane sono accese.
Oh, non ho dubbi che questa sia la prima.
E qualunque cosa io faccia,
si muterà per sempre in ciò che ho fatto. “