mercoledì 29 febbraio 2012
“ I versi sono polvere chiusa/ di un mio tormento d’amore/ ma fuori l’aria è corretta/ mutevole e dolce ed il sole/ ti parla di care promesse/ così quando scrivo/ chino il capo nella polvere/ e anelo il vento, il sole, / e la mia pelle di donna/ contro la pelle di un uomo.”
Alda Merini
Alda Merini incarna la figura dell’outsider: scarsi studi, la detenzione in manicomio, la diffidenza, e insieme la fascinazione di diversi intellettuali per la sua poesia appassionata, vibrante, carnale. Così in questo testo, Il tormento delle figure, ripubblicato recentemente all’interno de Il canto ferito, antologia uscita in allegato con Il Corriere della Sera, c’è un’epigrafe eloquente: “La cosa meno scandalosa della vita è lo scandalo.”
Perché Il tormento delle figure è un libro di prose che camminano proprio sul filo dello scandalo, lo scandalo dell’amore raccontato senza pudore ma con grande innocenza, come un’esperienza centrale. La convinzione profonda di Alda Merini è socratica, come nel Fedro di Platone ella esalta il delirio amoroso, la dissennatezza insita nel rapporto erotico, la follia del sentimento, la passione della carne.
“Il grande sentimento d’amore sconfina quindi nel delirio e nella demenza.”
Tutto questo filtrato, o deformato, attraverso una prospettiva cristiana.
“L’amore può essere assoluto e impreciso, comunque è sempre possessione demonica, perché il piacere è demonio, è fuga, è momento.”
E’ il libro di una poetessa che in vita si lamentò molto a causa della mancanza di amore, Vuoto d’amore è il titolo di uno dei suoi libri ma di amori ne ebbe molti e in queste prose trasfigura l’esperienza erotica fino a farne una manifestazione deviata dello spirito: “Il vero amore è lo spirito che si converte in Es, lo spirito che sbaglia rotta.”
Che i rapporti siano platonici o meno è considerato secondario, quello che conta è avventurarsi ai limiti dell’esperienza amorosa, per trovare l’unità fra anima e corpo tanto che Merini scrive: “Per adorare l’anima, bisogna tener conto del corpo.”, oppure “Negare il corpo vuol dire negare l’arte, e negare l’arte vuol dire negare l’anima.”
Lo scandalo è l’amore stesso, che, anche quando non arriva all’amplesso, conserva la sua dimensione peccaminosa, anzi, nelle parole della poetessa milanese, la castità accresce il peccato.
Alda Merini è così sospesa fra carnalità e spirito, dove la carne e la passione sembrano le uniche realtà in grado di mettere ali allo spirito, di farlo volare e viaggiare.
Le figure di queste prose sono gli amanti di cui si scrive; padre R, misterioso frate di cui Merini s’innamorò, Giorgio Manganelli con cui ebbe una relazione da adolescente, il marito Ettore, il clochard Titano e altri. C’era il rischio di scivolare nel pettegolezzo autobiografico ma Alda Merini trasfigura ogni racconto traverso il meccanismo della sua scrittura, che nasconde e rivela al tempo stesso, trasforma sostanzialmente ogni incontro, anche il più banale, in un’esperienza mitica, a tratti mistica, persino nel caso di rapporti occasionali consumati in fretta.
Infatti, una delle figure, possiamo tranquillamente dire uno degli amanti, è Dio, che compare spesso fra le righe, testimone di questi scandali d’amore e confidente segreto della poetessa. C’è anche una visione sottilmente tragica “ E Dio è precipizio, non è né luce, né canto.”
La prosa di Alda Merini è sospesa fra il lamento e l’inno, si situa in quella dimensione in cui le parole sono incandescenti e lo scandalo aleggia sempre, perché lei, per via della sua storia, era estranea a quel mondo milanese d’ipocrisia e perbenismo.
E’ lo scandalo della follia, lo scandalo di una sensibilità esagerata, anche lo scandalo di una sessualità bruciante, Alda Merini era davvero questo fiume in piena che trasportava perle e vecchie carabattole, sentenze aforistiche illuminanti insieme a frasi appesantite da un pathos e da una retorica eccessive, da outsider che se ne frega delle convenzioni e insegue soltanto l’acme del sentimento. Il tormento delle figure è un testo emblematico del percorso della poetessa milanese, giustamente riprodotto integralmente in questa antologia Il canto ferito, curata con grande passione e rispetto da Nicola Crocetti.
Dopo tanto materiale di non eccelso valore pubblicato dopo il successo mediatico, è necessario rileggere il miglior lascito di Alda Merini; in queste prose ascoltiamo una voce significativa del Novecento italiano intonare il suo canto d’amore, ora disperato, ora colmo di un’ebbrezza, anche erotica, fatalmente scandalosa, perché in questa società la sensibilità è uno scandalo di per sé.
Se anche Merini sembra talvolta peccare d’ingenuità nella sua visione del poeta come negromante dell’ispirazione, ha ragione però quando in questo libro scrive:
“ L’Italia dell’Umbria, della fontana di Trevi, l’Italia della Dolce Vita, non sa che i poeti vivono nel cuore dell’Africa, e sono amici degli stregoni, dei pitoni, degli elefanti e della pratiche magiche della terra. “
Anche l’eros è qui raccontato con accenti geniali:
” Lo so, le tue alchimie erano notturne. Udivo i tuoi sogni sopra la mia pelle ora per ora, e gemevo contro le pareti tenendo strette le gambe contro di te, magnifico avvoltoio.”
Il tormento delle figure è un bel testo, quel che si dice un testo maturo, in cui la dicotomia carne - spirito è raccontata con sobrietà a tratti deliziosamente allucinata, e il delirio è, in maniera apollinea, contenuto dalle figure che lo ispirano. Uniche note stonate, certe giustificazioni spiritualistiche della carnalità, che inficiano un poco l’autenticità del suo discorso.
Comunque sia, Alda Merini pare divisa fra cielo e terra, fra l’anelito a realtà trascendentali e la carnalità, anche brutale. C’è poi un aspetto autodistruttivo, per esempio del clochard Titano scrive: “La tua violenza mi servì. In fondo, Titano, tu non lo sai, ti ho sempre aperto la porta sperando inconsciamente che tu fossi il tanto auspicato Assassino. “
Qui, dove l’amore si rivela anche divorazione reciproca e un reciproco scannarsi, noi leggiamo, a mio avviso, una delle opere migliori della poetessa milanese, un testo che le fu commissionato da Il melangolo nel 1990, e che fu dedicato a Giorgio Manganelli e alla sua Hilarotragoedia, un testo in cui il sentimento è purificato dalla passione erotica, non dissimulata, raccontata a tratti con discrezione, a tratti in maniera impudica, ma soprattutto trasfigurata in mitologia personale.
E’ interessante la dinamica della scrittura, che sa trasfigurare poeticamente il dato ordinario e insieme ne restituisce anche la crudezza originaria. E’ una scrittura carnale, che si mistifica spiritualmente e viceversa, in un processo inverso.
“Noi tutti abbiamo nel cuore la bambola manganelliana, e non riusciamo a partorire questa bambola perché è il vudù dello spirito. Questa bambola ha ali metalliche e mente di trascendenza”.