Mi trovo spesso, leggendo e
scrivendo poesia, nella difficile situazione di dover rispondere alla fatale
domanda: di che parlano le tue poesie? Di cosa parli la poesia contemporanea è
davvero un tema complesso da affrontare. Questa domanda si ripropone nella
lettura di questo libro fondamentale della poesia contemporanea americana e non
solo, che leggo nella traduzione di Damiano Abeni, edita da Bompiani nell’agosto
del 2019, Autoritratto entro uno specchio
convesso di John Ashbery, pubblicato originariamente negli Stati Uniti nel
1975.
Di cosa parla, dunque, la poesia
contemporanea?
Naturalmente, dati i tempi, chi
fa questa domanda esige spesso una risposta sintetica, da twittare in simulata
compagnia. Ebbene, leggendo Ashbery mi è arrivata una specie di risposta. È un
pensiero notturno questo, colmo di presagi, un pensiero parziale, sicuramente, che
ora, in questo momento, mi sembra efficace: la poesia contemporanea parla della
disintegrazione dell’io o meglio la
mette in scena, la mostra.
Così dopo la morte di Dio,
assistiamo alla morte dell’Io, questa entità un tempo stabile e certa, un tempo
fondamento psichico unitario e ineludibile, sta deflagrando. Io che si
configura come un epifenomeno, una semplice onda nello smisurato oceano della
psiche, dell’inconscio sì ma questo inconscio non è edipico, come voleva Freud,
piuttosto è dionisiaco, come nelle divinanti parole di Friedrich Nietzsche. Tuttavia
il dionisiaco è stato frainteso.
Apparentemente Ashbery di
dionisiaco non ha nulla, almeno di quel dionisiaco pret a porter, del tipo “sesso, droga e rock and roll”. È piuttosto
una questione che ha a che fare con flussi che s’intersecano, di voci che
emergono alla coscienza, risalendo dalle profondità di una scrittura criptica,
enigmatica, onirica soprattutto e per nulla didascalica. È, come ho già detto, la destrutturazione linguistica del soggetto come
agente della storia. Soggetto che esplodendo riscopre la molteplicità quale suo
principio fondante.
Ashbery non imbocca il lettore
con discorsi codificati ma li frantuma tutti, apparendo così un poeta d’incomparabile
difficoltà, un poeta per poeti, si diceva una volta ma chi non lo è in fondo?
Questo, però, per Ashbery è particolarmente vero.
La sua poesia mi pare una
conversazione fra più figure che rimangono nell’ombra e dall’ombra traggono la
materia enigmatica del loro dire o dis-dire. Voci che s’incontrano in un punto
e si smarriscono in un altro. Tangenti di sillabe che incontrano il cerchio del
silenzio cui spetta sempre, come scrive Ashbery in un verso, “l’ultima parola”
su tutto.
Nell’introduzione di Autoritratto entro uno specchio convesso
il critico americano Harold Bloom, recentemente scomparso, scrive che la poesia
oggi deve ”frantumare la forma”, dissolvere le forme codificate, divenute
inservibili per raccontare la fluttuazione del pensiero contemporaneo. Che cosa sia “frantumare la forma” ce lo
mostra Ashbery ricordando che in poesia la forma è tutto e il contenuto, il
famoso o famigerato contenuto, un accessorio. La poesia è un fatto di pensiero
e il pensiero è delirio in senso etimologico, qualcosa che “esce dal solco” scavato
in noi dai luoghi comuni, che sono diventati sangue e carne, nei millenni. Così
con la poesia si trasformano i linguaggi, e con essi i valori, cioè i modi con
cui valutiamo le cose. Evento carsico che passa inosservato ma, come
l’evangelica “pietra scartata dal costruttore”, si rivela decisivo, fa la
Storia, che è in fin dei conti storia delle Idee che creano quella cosa
chiamata Realtà.
I versi di Ashbery decostruiscono
i monoliti linguistici che ci ingombrano la mente, sono davvero un “esotico
rifugio in un mondo spossato”, la loro cifra è l’enigma che non svela il proprio
mistero ma infittisce l’ombra. La parola sogna attraverso Ashbery, l’io si frantuma,
Ashbery riesce a non farsi capire cioè a non farsi codificare e ingabbiare.
Rimane intangibile come il vento e come il vento sussurra ”fuori dal tempo”,
perso in “gelidi recessi/ di rimembranza.”
Affrontare Ashbery significa
entrare in un labirinto e uscirne frastornati, disorientati, suggestionati. È
l’esperienza della poesia nel suo nucleo profondamente incomunicabile. Ancora
una volta risuonano le parole di Roland Barthes per cui il compito del poeta
non è mai esprimere l’inesprimibile ma ”inesprimere l’esprimibile”. Rimaniamo
sulla soglia di questo enigma.