giovedì 28 maggio 2015
Ciò che mi attraeva
originariamente, più ancora che il testo
di Pasolini, L’odore dell’India,
edito da Guanda, era l’occasione che lo aveva generato: un viaggio fatto
insieme da tre dei più grandi scrittori del nostro dopoguerra: Alberto Moravia,
Elsa Morante e appunto Pier Paolo Pasolini. Viaggio leggendario fatto da tre
icone della nostra cultura, in un luogo di per sé potentemente iconico e
leggendario: l’India.
Così appena in mano il libro
corro a leggere l’intervista finale, il colloquio fra Renzo Paris e Alberto
Moravia, il quale ci lascia en passant una bella e oggettiva testimonianza del proprio rapporto con Pasolini. Nel libro in realtà pochi
sono gli accenni al loro rapporto, però, esso si chiude, significativamente, con Moravia e Pasolini insieme e che assistono
a una cerimonia funebre, i roghi di Benares.
La lezione stilistica di Pasolini
è restituirci la visione di un evento, fino a rendercela quasi esperienza tattile, così noi sentiamo sulla pelle attraverso la sua scrittura il contrasto fra il freddo pungente e umido sul fiume Gange, e il tepore
sprigionato da questi roghi. Roghi di poveri morti, che paradossalmente danno
ristoro ai due intellettuali.
Grandi sono le differenze
dell’approccio all’India fra Moravia e Pasolini, tanto che vi è la necessità di
leggere anche la versione di questo viaggio data da Moravia nel suo L’idea dell’India; nell’attesa di leggerlo l’intervista è
piuttosto sinteticamente chiara. Più razionale Moravia e meno emotivo, più viscerale, sentimentale, Pasolini. Più astratto il primo, sul solco di un certo Illuminismo, più violentemente carnale e primitivo il
secondo.
Quello che colpisce del libro
oltre allo stile, è la grande pietà, la vera pietas classica, la compassione quasi cristiana di Pasolini verso la povertà senza speranza
di questo paese, contro il quale, per altro, non lesina giudizi anche duri,
specie verso il sistema delle caste.
Più che un viaggio, il suo è un
vero e proprio vagabondaggio; il suo
sguardo coglie, al solito
ossimoricamente, la bellezza e l’orrore,
lo splendore e la miseria, l’infamia e il sublime, curiosamente sospeso fra
realismo e allucinazione.
L’ immagine che racconta bene
questa duplicità è quella del giovane indiano intento a pregare un misero, e forse grottesco, pupazzo di latta, con una
espressione di totale concentrazione e devozione che Pasolini definisce, non ironicamente, “sublime”.
Nel contrasto fra la miseria e
povertà della causa e lo stato d’animo
che suscita c’è molto della visione di Pasolini. La sua denuncia dei rischi dell’industrializzazione e della
brutalità nascosta nel consumismo hanno validità anche oggi. In questo testo
sono sullo sfondo. Pasolini vaga, anche disordinatamente, in un paesaggio arso
dal sole che a tratti gli ricorda la pianura padana in grande, vaga nella notte
indiana, incontrando gente povera,
mendicanti, guidatori di risciò e si fa l’idea di un’ umanità umile, dolce e
rassegnata. Certo c’è dell’ idealismo in questa visione dei poveri, c’è ancora
una volta nel marxismo di Pasolini un’eco di cristianesimo, ma essa è al
servizio di una visione del mondo, a suo modo potente, a suo modo originale, a
suo modo profetica.
Un’altra immagine che mi ha
colpito è quella dei borghesi del Rotary
club, professionisti agiati, intellettuali, attori, sono visti da Pasolini come
dei morti viventi. Interno borghese con
morti, potrebbe essere il titolo
della sequenza, quasi cinematografica,
che lo scrittore dedica a questo
incontro. Ecco, il vagabondaggio di
Pasolini sembra a tratti un vagare di cinepresa, il suo è un libro molto
visivo, a dispetto del titolo.
C’è anche una curiosa anticipazione
di una scena di Apocalypse now, quella iniziale con Marlon Brando sul letto che pensa e
il rumore delle pale del ventilatore diventa quello degli elicotteri. Pasolini
descrive una visione analoga a quella di
Coppola. Mancano giusto Marlon Brando e
i Doors in sottofondo.
Il libro è traccia leggendaria del vagare di
un poeta in una terra la cui duplicità e ambiguità probabilmente lo incantavano
e lo atterrivano insieme. Elsa Morante
rimane sullo sfondo, viene citata da Pasolini perché in un’ occasione fa loro da interprete, data la
sua superiore conoscenza dell’inglese. Pasolini appartiene profondamente
a un’altra epoca, a una sua privatissima
antichità, non priva di misticismo, sebbene probabilmente egli non lo
riconoscesse appieno.
Pasolini era una natura che amava
molto la gioia, parola che usa spesso. Così la sua è proprio la ricerca della gioia, nella tragedia, ed egli
la trova nell’umiltà del povero ragazzino mendicante che si vergogna e nella sua
timidezza pare allo scrittore segno inesplicabile di una tragica bellezza
umana, forse inspiegabile.