lunedì 30 aprile 2012
avamposto mitorealista di lotta poetica
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I sonetti a Orfeo di Rainer Maria Rilke furono completati nel 1922, anno capitale nella storia della letteratura, poiché in quell’anno videro la luce anche La terra desolata di Thomas Stearns Eliot e Ulisse di James Joyce. E’ un testo dedicato a una ragazza morta, e dunque si configura come un monumento funebre in versi, un complesso e affascinante scritto in cui il poeta si commisura con il mito di Orfeo e cerca con lucidità di mostrarne l’attualità extratemporale e metastorica.
Lo sforzo di Rilke è quello di recuperare una dimensione di pura trascendenza, dopo l’eclissi del paganesimo e la morte di Dio, egli si propone di creare una realtà in cui il divino si presenta sotto le forme del canto, della poesia, della danza.
Afflitto dalla caducità, Rilke tenta la via dell’inno, in cui la consapevolezza della morte e dell’umana fragilità davanti ad essa è superata dall’irruzione di qualcosa di superiore, che il poeta identifica con la figura di Orfeo e con la dimensione del canto che egli incarna.
Rilke si muove in questi versi come in una calcolata ebbrezza, con una tranquilla estasi, restituendo al lettore la fascinazione per tutto ciò che diviene e scorre e pure permane come residuo di sacralità incontaminata, più forte della morte.
” Siamo in corsa incessante./Ma il tempo che avanza,/vedete, è solo un breve passo/ in ciò che eterno resta.”
E’ un tentativo importante, decisivo, uno degli esiti più alti del Novecento, che colpisce soprattutto per la potenza del dettato, colmo di stupefazione e di sensibilità filosofica, in cui le riflessioni sono rese attraverso immagini efficaci, dense di presagi e di echi, in cui l’orizzonte estatico del canto è avvertito come il luogo di una vera palingenesi, giacché qui sin dal primo sonetto tutto è “inizio, cenno, mutamento”. Sebbene effimera, l’esistenza pare essere uno scrigno di straordinari tesori, che il poeta ha il compito di illuminare per un momento, con procedimento simile quello della mantica apollinea, attraverso fulminanti intuizioni, la cui ambiguità rende il testo ricco di sfumature, e ne esalta la tensione all’indicibile, a una dimensione di pura contemplazione. Bella la traduzione di Sabrina Mori Carmignani, nonostante non ci restituisca l’ordito delle rime, rimane come traccia di questa straordinaria tensione al sublime.
Quello di Rilke fu un percorso angoscioso, egli sentiva acutamente il dolore per la caducità- celebre a proposito uno scritto di Freud in cui il padre della psicanalisi narrava di un suo incontro con il poeta e della tristezza di questi davanti alla precarietà delle bellezze primaverili- nei Sonetti a Orfeo Rilke formula uno straordinario superamento, mettendo al centro della sua scena interiore la potenza salvifica del canto, come luogo in cui l’esistenza risplende, oltre e a dispetto della morte.
Rilke mostra “la natura pulsante dell’essere”, e loda “lo spirito che ci sa unire” la sua è un’ebbra celebrazione di forme e figure, in una dimensione in cui anche “il legame tra le stelle è inganno” egli cerca la parola che sappia fondere la frantumazione dell’esperienza umana in unità.
La conclusione è positiva, lo sforzo del poeta è premiato, anche se tutto è congedo e partenza, il fondo immutabile dell’essere continua a pulsare nel canto.
Orfeo è la figura che tiene insieme i frammenti sparsi dell’universo e li redime poiché “Tutto ciò che accade si fa puro/ quando sereno lo spirito lo accoglie.”
Ed è proprio la serenità apollinea di questi sonetti a dar ragione a Rilke, nel suo tentativo di superare l’angoscia della caducità e mostrarci anzi la potenza del divenire e della trasformazione, giacché “noi ora siamo creature in ascolto, una bocca della natura”, il canto si configura come la realtà suprema in grado di riscattare l’essere umano ed elevarlo alle altezze della divinità. “Solo il canto sul nostro orizzonte/ è festa e salvezza.”
Non ci resta che ammirare il sublime congedo, con questi versi definitivi, Rilke compie il suo periplo intorno alla figura di Orfeo:
"E se il mondo ti dimentica,
Perché il regno di Orfeo è duplice: scorrere e restare, divenire ed essere, canto e ascolto, diventano un tutt’uno.
Pubblicato da Ettore Fobo alle 09:56 10 commenti
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La traduzione di un’opera poetica è una delle operazioni più difficili e nel caso di quest’antologia di Marina Cvetaeva Dopo la Russia questa difficoltà è ancora più evidente. La traduttrice Serena Vitale deve fare i conti con una scrittura dirompente, elusiva, rapsodica, ellittica, emorragica e mi pare ci riesca benissimo, confezionando una traduzione esemplare, che ha la bellezza di un originale e trasferisce la potenza oracolare di questo dettato stranito, penso di poter dire fra i più complessi del Novecento. Questa complessità reca con sé l’idea dell’immediatezza, il tono è sempre accorato, esaltato, ansimante, ai limiti del delirio, consapevolmente assunto dalla poetessa russa come espressione del caos primordiale in cui affonda il linguaggio. Ancora una volta risuonano le parole di Barthes, quando scrive nei suoi Saggi critici che il compito del poeta non è esprimere l’inesprimibile, convinzione degli ingenui, bensì in maniera più enigmatica ”inesprimere l’esprimibile”, sottrarre al linguaggio la sua superficie di illusoria comprensibilità e restituircelo voragine sibillina.
Quella della Cvetaeva sembra una poesia difficile da tradurre, fatta com’è di pensieri in fuga, frasi interrotte, giochi di parole, esclamazioni apparentemente fortuite collegate da un’immaginazione furibonda, che come un fiume attraversa la pagina, trasportando le parole alla loro foce con una potenza espressiva che sembra risiedere nei nervi stessi della poetessa. Qui è tutto un sussultare ambiguo di forme linguistiche, un fremere di concetti spappolati, un venir meno delle parole, di cui si descrive l’implosione, il collasso semantico, l”urlo primordiale”.
Prendiamo per esempio il Poema della fine, sembrerebbe raccontare la fine di un idillio amoroso ma la tensione che si avverte è tale che sembra descrivere la fine stessa di un universo, forse di quell’universo patriarcale che ha imprigionato la donna in una serie di stereotipi. Quella di Cvetaeva è una poesia emorragica, sulla pagina la poetessa russa sanguina parole e immagini con una furia calcolata, con impeto trascinante, tanto che, benché complessa, questa poesia pretende una lettura veloce, non il rimuginare di chi si chiede sterilmente cosa significa ma l’accettazione di colui che sa che la poesia è, come ha detto mirabilmente Carmelo Bene, “il risuonar del dire oltre il concetto”.
Così si coglie il lavorio di Serena Vitale per restituirci la nervatura di una poesia che più appare caotica, più rivela la sua profonda realtà di oracolo gettato con rabbia oltre il muro del sonno piombato delle parole comuni. Quello che più colpisce è l’invenzione linguistica, la manipolazione delle parole, l’esattezza di uno stile altamente costruito, che però da l’idea di essere fulmineo come un getto di colata lavica. E’ proprio vulcanica la poesia di Marina Cvetaeva, un flusso che, se disarticola le parole, lo fa per restituircene l’imponderabile mistero, la potenza primigenia di quello che la stessa Serena Vitale nell’introduzione chiama ”magma sonoro”.
Grande nemica della poetessa russa è l’”immortale mediocrità” dei filistei, dei ricchi, dei borghesi, cui dedica un ironico elogio, la pattumiera del quotidiano, fatta di “bigodini, pannolini/ calamistri arroventati/capelli bruciacchiati/cappelli, cuffiette(…) di felicità volgari/ coniugali” oppure “la perniciosa anemia cristiana”, che celebra “l’assurda eresia/ che chiamano anima.” o ancora “l’immortale piaga della coscienza” che è sempre coscienza del disagio. S’intitola Amore una delle poesie più brevi, che riporto integralmente, perché è una delle poche in cui il pungente disincanto lascia spazio anche alla dolcezza:
“Fuoco? Uragano? Terremoto?
Cvetaeva canta l’assenza, il venir meno, le “tenebre veggenti”, la separazione degli amanti, e il mito della felicità amorosa viene irriso in versi enigmatici, sibillini. Smarrimento, esilio, assenza, disagio, sono le parole chiave.
“Per asili e tuguri terrestri/ come orfani, smarriti./ E quale, quale marzo è oggi?/ Ci hanno smazzato. Come carte.”
Risuonano sullo sfondo i dati biografici, con i suoi terribili lutti (Cvetaeva perse la figlia di tre anni, che morì di denutrizione), con il suo esilio (la poetessa visse a Parigi) le persecuzioni del regime sovietico(il marito venne fucilato), l’ostilità persino della comunità di esuli russi, insomma quelle tragiche esperienze che la condussero all’atto estremo del suicidio, nell’agosto del 1941, a 48 anni.
La vita, qui in questi versi, viene ricondotta a vanità delle vanità, Cvetaeva ne coglie la miseria, in versi lucidi, rabbiosi, quasi furenti, dove la rabbia più che nei contenuti è dentro lo stile stesso della scrittura, che non si preoccupa dell’immediata leggibilità ma insegue soltanto la propria ambigua frantumazione. La poetessa russa opera per sottrazione, in un tessuto spogliato via via di metafore e immagini, fino a che rimangono soltanto i sussulti dei nervi, un linguaggio frequentemente spezzato. A volte il suo verso sembra l’affiorare di un grido, con tutte quelle esclamazioni, quei trattini che troncano la frase, la riducono a brandelli, la fanno precipitare. Su molti suoi versi, penso per esempio al Poema della montagna o a al già citato Poema della fine, o ancora allo splendido esito di Sibilla, c’è poi qualcosa di solenne che incombe, una fatalità misteriosa, una gravità oracolare. Emergono sentenze velenose contro la società, l’astio di un’esclusa si raffina fino a diventare spregio e sfregio della mediocrità umana.
Oltre le parole consuete che usiamo per ingannarci, arriva la poesia, con la sua oscurità, che però non redime, non sazia, ci lascia insaziabili come Fedra, cui la poetessa russa dedica una lirica appassionata. Così il mito e la letteratura, con le sue Euridici, le sue Ofelie, le sue Fedre, le sue Elene, confermano la solitudine dell’essere umano, la necessaria solitudine di chi non accetta la mediocrità che pure servirebbe a lenire il dolore dell’assenza ma qui l’assenza è anche ricercata, richiesta, come nel caso della poesia in cui Euridice, rivolgendosi a Orfeo, lo implora di non cercarla, di lasciarla fra i morti. Quella di Cvetaeva è una poesia tragica, violenta, anche furiosa come il grido di una Baccante, come il ringhio di una lupa, sotto una luna gelida.
“Di canuta lupa romana sguardo,
Il corpo è socraticamente una prigione, un “sepolcro”, la nascita una caduta nel tempo, l’anima un’”assurda eresia” il poeta “è quello / che imbroglia in tavola le carte /che inganna i conti e ruba il peso”. Non c’è quasi traccia di felicità in questi versi, che funzionano come un meccanismo perfetto e perfettamente stritolante, e ci lasciano soli e sbalorditi, a fare i conti con il nostro quotidiano nulla, con la grande assenza e il grande vuoto della nostra interiorità più profonda, quando si è aldilà di ogni consolazione. Mi sembra che Cvetaeva si situi proprio in questa dimensione, non accettando la mediocrità dell’esistenza, sentendone spaventosamente la tragica futilità ma trasfigurando questa consapevolezza in un canto straordinario che in fondo non è che un grido di prolungato sgomento.
"Sussulto – e giù dal cuore il peso
Pubblicato da Ettore Fobo alle 09:29 4 commenti
Etichette: libri di poesia, Marina Cvetaeva
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