Quando un libro piace, di solito,
si sente usare l’espressione “l’ho letto tutto d’un fiato” oppure lo si loda
dicendo che è scorrevole, si legge facilmente, eccetera. Nella mia esperienza
invece ho notato che non sempre un libro del genere è necessariamente un bel
libro, un libro da ricordare. Capita che letto tutto d’un fiato, tutto d’un
fiato si dimentichi, a volte libri ostici nella lettura, o nella prima lettura,
si rivelano poi fondamentali per la costruzione di una visione del mondo.
Questa premessa per dire che
questo romanzo di Irvin Yalom, La cura Schopenhauer, appartiene per me alla categoria dei romanzi
letti tutti d’un fiato, dei libri divorati con avidità. Oltre tutto in questo
caso, diversamente da quello che ho appena detto, si tratta davvero di un bel romanzo, con personaggi
ottimamente descritti, una trama fluida, costellata di piccoli o grandi colpi di scena, ben calibrati all’interno del
testo, che si configura come un meccanismo narrativo esemplare. Lo ricorderò?
Ho l’impressione che si tratti di uno dei romanzi migliori da me letti quest’anno.
L’edizione americana risale al
2005, esattamente come quella italiana
di Neri Pozza, tradotta da Serena Prina. Si tratta di una, a tratti davvero prodigiosa,
fusione di filosofia, psicologia, biografia, narrativa, ed è il secondo romanzo
di Irvin Yalom, psichiatra americano di una certa fama, che si sta dedicando
alla narrativa, con ottimi risultati. E’ quasi l’invenzione di un genere
letterario a parte, narrativa psicologica con incursioni filosofiche che hanno
una certa efficacia. Prima di
questo Yalom aveva scritto Le lacrime di Nietzsche, dopo ha
pubblicato invece Il problema Spinoza, trasformando forse quella che era in origine una sua genuina intuizione in un cliché, in un
marchio di fabbrica.
Il protagonista de La cura Schopenhauer è uno psichiatra di
65 anni, Julius Hertzfeld, che scopre un
giorno di essere affetto da una malattia incurabile. Allora comincia una serie
di riflessioni che lo scuotono nel profondo e lo inducono a ripensare alla sua
vita. Sarà il contatto con un suo paziente del passato, Philip Slate, a metterlo in relazione con Schopenhauer,
terapeuta ante litteram, maestro di
vita, figura fondamentale della
filosofia di ogni tempo, di cui il romanzo racconta la vita e descrive per
sommi capi il pensiero.
Si tratta di un romanzo corale,
avendo come protagonista non un solo personaggio ma un gruppo, per inciso il
gruppo di terapia gestito da Julius. E’ quindi anche la storia dei cambiamenti
che occorrono alle persone coinvolte nella terapia. Così il romanzo vive su due
piani: il primo costituito dalle dinamiche interne di questo gruppo, il secondo
riguarda invece la biografia di Schopenhauer, la cui vita è analizzata,
soprattutto, nella misantropia e nel pessimismo
che l’hanno caratterizzata. Così da una parte abbiamo persone che cercano di
superare le loro difficoltà relazionali, dall’altro la storia di un filosofo
che ha fatto della solitudine il metro della propria libertà.
Il romanzo narra di
trasformazioni psicologiche, di avventure dentro il pensiero, d’illusioni e di
finzioni pericolose per l’integrità dell’individuo. I suoi limiti sono paradossalmente
legati ai suoi pregi: a tratti sembra un libro troppo ben fatto, troppo
conforme alle regole della narrazione, i
cui colpi di scena arrivano al momento giusto e tengono il lettore
letteralmente incollato alla pagina. Il tutto sembra uscire da un manuale di
scrittura creativa, togliendo forse al romanzo un po’ di caotica spontaneità. Inizialmente il personaggio di Philip è
raccontato in maniera troppo negativa, incarna in maniera troppo sfacciata la figura
del capro espiatorio, pare un’inverosimile
macchinetta di citazioni che solo nel proseguimento del romanzo acquista solidità.
Bisogna, però, leggere tutte le oltre 450 pagine del romanzo per capire appieno
la portata di questa trasformazione e ciò che all’inizio può apparire
artificioso o stereotipato si risolve in una rivelazione. Altro difetto è nella
descrizione delle dinamiche di gruppo, davvero qualche volta l’eccessiva
tensione al politicamente corretto risulta stucchevole ma si tratta davvero di
cercare il pelo nell’uovo. Questo è un ottimo romanzo, costruito con maestria,
pieno di spunti interessanti.
In definitiva La cura Schopenhauer è un’intelligente
parabola sul senso della vita. Ed è forse paradossale che per scrivere questo racconto lo
psichiatra - scrittore abbia preso come fulcro la vita e il pensiero di uno dei
filosofi più pessimisti della storia. Tra le altre cose ha messo in crisi uno dei miei assiomi, di cui
parlavo all’inizio di quest’articolo: che l’eccessiva leggibilità di un romanzo
sia quasi una prova contro di esso. In questo caso il romanzo è scritto con semplicità
ma questa semplicità, lungi dall’essere un limite, è funzionale a raccontare le
avventure e le disavventure interiori dei personaggi coinvolti e ad avvicinarci
alla figura, scontrosa e solitaria, di uno dei filosofi più geniali della
storia, avendo anche il coraggio di evidenziarne i limiti caratteriali. In un
passo Yalom arriva a scrivere che Schopenhauer sarebbe stato, nella nostra epoca,
come diverse personalità di genio, il candidato ideale per una terapia
psicologica. Però, Yalom non cade nella
trappola di psicanalizzarlo e realizza
così un’interessante fusione di narrativa, psicologia, divulgazione filosofica,
biografia, riuscendo nella difficile impresa di armonizzare istanze così
diverse.