sabato 26 novembre 2016
Per una corretta valutazione le poesie
di Bukowski vanno contestualizzate. Intanto va detto che ne ha pubblicate
probabilmente troppe, come chiunque voglia scendere come valanga sul villaggio
dell’umana indifferenza. Accanto a libri interessanti (Le ragazze che seguivamo, La canzone dei folli) abbiamo opere francamente
scadenti (Il grande) o discutibili (So benissimo quanto ho peccato) e
potremmo continuare.
Questo Ehi, Kafka!, edito da Guanda nel luglio 2015 nella traduzione di Simona
Viciani, si pone a metà fra l’opera riuscita e il fallimento; fra le due
opzioni il pendolo oscilla quasi casualmente. È un libro in cui accanto a
poesie interessanti, pur nella loro ruvidezza ostentata, se ne trovano altre
irrisolte, inutilmente, provocatoriamente sciatte, con ripetizioni stucchevoli.
Ma quando emerge il disincanto e
la disillusione di Bukowski, e la critica, verso una società perbenista, puritana, ipocrita, si fa più corrosiva; il
suo messaggio è importante. Si tratta di una raccolta che l’autore ha voluto
fosse postuma e che ha il titolo originale di The Flash of Lightning Behind the Mountain. Il titolo italiano con
cui si è scelto di intitolare la raccolta ha una sua sintetica potenza icastica,
benché la poesia eponima sia abbastanza anonima.
Naturalmente non bisogna
appettarsi un maestro di stile, un raffinato esteta ma piuttosto uno scrittore
sporco di tutte le disillusioni e le delusioni di un uomo di mezza età che, prima
di raggiungere un inaspettato successo, ha per decenni conosciuto nel profondo
il marciume della sua epoca.
Vita di strada, picaresca, e vita
da impiegato delle poste, ordinaria, dissolutezze erotiche e sbronze,
scazzottate e gioco d’azzardo, sono l’humus da cui però Bukowski è uscito con l’amore per la scrittura, per la musica classica, per quei momenti di perfetta
beautitudine che anche una vita grama sa regalare, momenti, come nella massima di Oscar Wilde, in cui si fissano le stelle nel pantano
dell’esistenza.
Si scrive per uscire
dall’inferno, chiosava più o meno Artaud, e Bukowski ha fatto questo
dimostrando come la potenza della scrittura possa salvare l’uomo che la esprime
e coloro che hanno il coraggio di incamminarsi su quel tappeto di fiamme che è
la sua pagina, irta dei tizzoni ardenti
di una consapevolezza disperatamente ironica.
Vittima di un padre dispotico che
lo ossessionava con l’etica del lavoro, di una madre assente, genitori che
egli definisce ”stupidi” e che non
gli hanno dato nulla; vittima dei suoi natali in terra tedesca per i ragazzini
della città americana in cui è vissuto e che lo perseguitavano in quanto “crucco” durante parte della sua
infanzia.
Ehi, Kafka! è un testamento più equilibrato di altri suoi libri,
ugualmente amaro, senza consolatorie illusioni, dove l’autore non si guarda
compiaciuto allo specchio ma fissa l’abisso di una vita invivibile.
Bukowski impiegato, Bukowski
romanziere, Bukowski poeta, Bukowski giocatore d’azzardo, Bukowski ubriacone,
Bukowski donnaiolo, Bukowski depravato,
Bukowski ironico, disperato, umano; quante anime ha saputo incarnare.
Così anche in Ehi, Kafka! assistiamo a litigi
insensati, feste alcoliche concluse male, scopriamo che la fonte della sua
ispirazione era “SCOPARE” gridato a una giornalista, ci commuoviamo davanti
alla storia di un suo amore perduto, di un suo amico dal buon cuore, ucciso mentre cercava di sventare lo scippo di
una vecchietta, nella poesia Un bravo
ragazzo, o ancora condividiamo la pietà per un' attrice invecchiata, sfiorita, ammalata, nella poesia Cleopatra.
La sensazione, però, è che questo
libro sia troppo corposo, 305 pagine, in edizione bilingue comunque, e che
alcune poesie sarebbero dovute essere espunte perché nulla aggiungono all’opera
ma l’appesantiscono, penso a gamba
misteriosa, la vecchia coppia, posto
amichevole, per esempio.
Bello, nel suo solito modo di
affabulatore un po’ scortese, il racconto degli anni sessanta nel modo disincantato
di chi sa, perché l’ha imparato sulla
propria pelle, che è impossibile ogni palingenesi, utopistica ogni pretesa
rivoluzionaria, perché l’uomo è corrotto, in un mondo dominato da un soffocante
anelito all’autodistruzione, malcelato
dietro modi politically correct e da conformismi più che bestiali.
Si lavora come schiavi, si soffre
come cani, si china il capo davanti al sopruso di questa vita invivibile, per
alleviare tutto questo Bukowski scrive, beve, ascolta musica classica su radio
mezze scassate, fa mille lavori, ha mille donne ma la poesia forse più bella in senso classico
di questo libro diseguale è una poesia d’amore, dedicata a una sua donna morta
giovane, Jane.
S’intitola barfly, la riporto integralmente:
“Jane, che è morta da 31 anni
non avrebbe mai potuto
immaginare che avrei scritto
una sceneggiatura sui nostri
giorni di bevute insieme
e
che ci avrebbero fatto un film
e
che una bellissima star del cinema avrebbe impersonato la sua
parte.
mi sembra di sentire Jane adesso: «una
bellissima star? oh per l’amor del Cielo!»
Jane, è lo show business, quindi torna a dormire, cara, perché
per quanto ci abbiano provato non sono
proprio riusciti a trovare
nessuno che fosse tale e quale a
te
e non ci riesco
neppure io.”
Quella di Bukowski è per una buona parte una poesia che forse i più
faticherebbero a ritenere tale, è una specie di pernacchia allo stile, all’arte
stessa, uno sguaiato grido di dolore destinato a non raggiungere alcuna stella
perché nel mondo dello scrittore americano, tranne in rarissime occasioni, non c’è cielo che le contenga, la faccia ben
affondata nel pantano. In questo egli
continua a esserci contemporaneo.