Il senso di una fine di Julian Barnes, tradotto per Einaudi da
Susanna Basso, ha vinto uno dei più importanti premi della letteratura scritta
in inglese il Man Booker Prize. Ha come sponsor nella quarta di copertina il
noto critico Antonio D’Orrico, che lo esalta definendolo: “Bellissimo, bellissimo,
bellissimo”. Ma non è il solo, anche
Nadia Fusini, Goffredo Fofi, Alessandro Piperno e altri si sono prodigati in
elogi. Con queste credenziali ci si
aspetterebbe un romanzo almeno decente, invece leggo un’opera scadente,
sciatta, incolore, fiacca, monotona, sostanzialmente inutile. Innanzitutto
stilisticamente, il linguaggio ammicca ed è fintamente profondo; sovraccarica
di citazioni letterarie, quella di Barnes è una prosa finto sofisticata ed esangue.
Il personaggio principale, nonché narratore di
tutta la vicenda, Tony Webster, è un
uomo qualunque che vive una vita del tutto ordinaria finché non scopre che un
suo amico del liceo si suicidato tagliadosi le vene. Questo evento scatena in
lui una ridda di ricordi che lo disorientano e nella seconda parte del romanzo
un’inaspettata eredità turba la sua routine.
Questo è più o meno tutto, non un
personaggio azzeccato, non un’idea vincente, non un balzo oltre l’ordinarietà stilistica,
un romanzo mediocre che più volte sono stato sul punto di abbandonare. 150 pagine di nulla. Dietro un bel titolo si cela un romanzo
modesto, maldestro, definirlo con tanta enfasi ”bellissimo” non ha proprio
ragione d’essere, dietro il tono amicale da brav’uomo del narratore e
protagonista, probabile alter ego dell’autore stesso, s’intuisce la vacuità e direi la vanità dell’intera operazione.
Per giunta Il senso di una fine è considerato il miglior romanzo di Barnes, il
che è tutto dire. La bonomia del suo tono pare ipocrita, non sopporto gli
autori che per ingraziarsi il pubblico fanno gli amiconi, ti chiamano in causa,
si rivolgono direttamente a te, ti fanno addirittura l’occhiolino. Il romanzo gira intorno a una trama debole,
confusa, raffazzonata; i personaggi sono tratteggiati in maniera grossolana,
Tony Webster è una figura senza carisma, una nullità contenta di sé, che nel
corso del romanzo scopre pateticamente la propria inettitudine e
insoddisfazione, personaggio incolore più adatto a una farsa tragicomica che a un
romanzo drammatico. L’altro nodo è proprio questo: Il senso di una fine è un dramma o una commedia mal dissimulata? Il
sentore d’agrodolce in letteratura è una dissonanza di sapori fastidiosa. Barnes
ci prova a suscitare interesse con qualche considerazione sull’esistenza, ma
quasi tutte paiono faticose, contorte, vacue, a volte inutilmente altisonanti e
soprattutto insapori. Il romanzo si legge davvero a fatica, con fastidio
crescente.
Tracce di minimalismo obsoleto,
linguaggio povero, idee consumate, caratterizzazioni insipide, finale insulso e
sconcertante, nell’insieme il romanzo
appare datato, confuso, noioso e persino pedante, non un guizzo, non una luce,
non una frase da ricordare, gli effetti sull’immaginazione sono soporiferi. Potrebbe andare bene per chi soffre
d’insonnia. È in sostanza un’involontaria apologia della mediocrità e
dell’insignificanza, una riflessione scontata sulla fallacia della memoria,
sull’impossibilità di stabilire la verità di un evento storico; il personaggio
principale è una comparsa di un romanzo implicito, non ha volutamente lo
spessore di un protagonista. Protagonista di che, poi? Di una storia che si
dimentica nell’istante stesso in cui si legge. Gli amici di Webster sono
sovrapponibili, tanto si somigliano, vengono confusi facilmente e sono
interscambiabili, un po’ più sostanziosi i personaggi femminili ma tutto
sommato dimenticabili. La scrittura è sacrificata all’understatement, opaca, persino
scialba, perché le idee non ci sono. A
tratti è persino irritante nella sua ostentata banalità. Per tutto il libro si
attende un guizzo che non arriva. Davvero un romanzo insignificante. Da evitare.
Alla faccia dei premi prestigiosi e dei critici paludati.
.