Nadja – André Breton

domenica 27 maggio 2012



In questo romanzo Nadja si definisce cosi:  “Io sono l’anima errante”, Breton ne rimane sconvolto e vede in essa l’essenza del surrealismo. E’ un romanzo su un incontro fortuito, su un personaggio sfuggente, su una materia sommamente aleatoria. Inizia con una domanda capitale e insieme un po’ fatua “Chi sono, io?” e con riflessioni e aneddoti prosegue fino all’apparizione del personaggio principale, Nadja, cui Breton si rivolge come in sogno, attratto dalla potenza del suo sguardo, mentre passeggiando la incontra in un boulevard di Parigi.

 Disegni e fotografie accompagnano e completano il testo che pare un complicato assemblaggio di pensieri in fuga, riflessioni in cui un pathos  d’incantesimo permea la fibra di ogni nervatura del testo.   Nei momenti migliori queste schegge sono attraversate da un denso mistero, nei momenti peggiori, questo stesso mistero appare una forzatura un po’ vacua. Perché Breton rimase così colpito da questa donna, con la quale intrecciò una relazione amicale così profonda? La domanda rimane sostanzialmente senza risposta e questo incontro resta misterioso nella sua essenza e il libro forse è una traccia inutile, dichiara alla fine Breton, nell’impossibilità di testimoniare alcunché.

Breton scrive una storia all’apparenza autobiografica, basata tutta su un tessuto di coincidenze, di fascinazioni del tutto personali, prima raccontando di spettacoli teatrali cui ha assistito, poi dell’amicizia con i suoi sodali, infine scrivendo il diario di quest’incontro, fatale per entrambi, misteriosamente colmo di presagi e coincidenze, che però, a tratti, nella rievocazione, paiono gravati da un’eccessiva concettosità. Per attraversare certi periodi si sconta una certa dose di noia, quella noia che ci coglie davanti a ciò che sovverte troppo potentemente i nostri meccanismi letterari, esistenziali.

Invettive contro la psichiatria si alternano a descrizioni di paesaggi parigini, su tutto svetta la figura di Nadja di cui Breton scrive: “ Mi dice il suo nome, quello che si è scelto  lei ’ Nadja perché in russo è l’inizio della parola speranza e perché è soltanto l’inizio ’ ”. 

I due personaggi vagano per le strade di Parigi, s’incontrano casualmente, si frequentano, si compenetrano, fino a  che si separano. E’ una storia di amore platonico, in cui a vincere è il fascino e il mistero di una figura a metà fra la strana saggezza di Sibilla e la follia. Nelle parti migliori del testo Nadja incarna proprio questa figura ferina, colma di un’inesplicabile attitudine alla sentenza, all’aforisma che racchiude un mondo, schiacciata da problemi economici cui Breton, finché potrà, porrà rimedio con generosi slanci.

Breton non sopporta la gente comune, il suo passivo accettare la consuetudine del lavoro e scrive violente requisitorie contro di essa, colpevole di accettare supinamente lo status quo:

” E’ gente che non può avere nulla di interessante dal  momento che sopporta il lavoro, con o senza tutte le altre miserie. Che cosa li potrebbe innalzare se la rivolta non è in loro la più forte?( …) Io odio, con tutte le mie forze, questo asservimento che mi si vuole far accettare come un valore. Compiango l’uomo per esservi condannato, per non poter in generale sottrarvisi(…)”

In questo contesto la libertà è “l’atto incessante di spezzare quelle catene” che tengono l’uomo ancorato al buon senso, alla cosiddetta realtà, per volare aldilà delle convenzioni millenarie che hanno fatto dell’uomo uno schiavo. In questo senso, in questa ripulsa verso la normalità e il lavoro, c’è la grande provocazione del poeta francese, il cui messaggio di libertà continua a percorrere, inascoltato, le strade del mondo.
Come Flaubert, Breton ebbe a dire “Nadja sono io”, cogliendo in questa figura sprazzi di quell’originalità che i surrealisti avevano perseguito come un dogma.

Nadja è considerato  un romanzo importante per capire il surrealismo, Blanchot ha speso parole decisive su di esso e nel 2007, al tempo della sua ristampa italiana di Einaudi, Il Corriere della Sera dedicò a Nadja un articolo,  scritto da Alberto Bevilacqua,  dall’inequivocabile titolo de Il ritorno di un capolavoro.   A me è parso un romanzo ambiguo, quasi un romanzo sull’ambiguità del reale, un finto romanzo che si traveste da diario e viceversa,   a tratti eccessivamente pensato, rimuginato con sofferenza, di contro ai liberatori esperimenti di scrittura automatica.  Interessanti sono soprattutto le idiosincrasie di Breton, i suoi scatti di nervi, le sue insofferenze, più dei suoi misticismi e dei suoi deliqui, che comunque provano la sincerità del suo slancio.

 L’alternanza di testo scritto con fotografie di vedute parigine, o disegni di strane archetipiche figure, ha qualcosa di magico e affascinante che rimane nella memoria. Sembra a tratti di entrare nel museo di un sogno che Baudelaire raccontò in un suo scritto.  Nadja è un libro profondamente illustrato in cui gravita un senso di mistero all’opera per unire i nostri destini, casualmente, e casualmente dividerli.

Le requisitorie contro l’uomo comune e la psichiatria hanno una loro efficacia, altrove mi sembra che Breton non riesca del tutto a dare una forma compiuta a questo insieme di ricordi, che si disperdono, però lasciando comunque l’idea che Nadja sia un personaggio indimenticabile, archetipo ferino dell’eterno femminino che cade in basso, nella pazzia e nel manicomio, esiti dell’anticonformismo estremo di chi è consapevole di vagare, da spettro, nel mondo.

C’è la bella ricostruzione di Parigi, che diventa un personaggio all’interno del romanzo al pari degli altri, raccontata attraverso i suoi palazzi, i suoi teatri, i suoi bistrot.  C’è poi una costante interrogazione sulla letteratura e sulle sue forme, Breton in Nadja si muove in un territorio ambiguo fra saggio, romanzo, e diario, mescolando i generi o meglio annichilendoli, per far brillare puro l’atto della scrittura come investigazione in quel territorio in cui il reale e il suo fantasma si confondono.

C’è infine una velata tristezza, un’ impossibilità, una fatalità che incombe per spezzare il volo di questo personaggio ambiguo, Nadja, figura che Breton ha reso leggera e  fugace come un’immagine sull’acqua.


Una poesia di Ernesto Cardenal

giovedì 24 maggio 2012





Come lattine di birra vuote

Come lattine di birra vuote e cicche
di sigarette spente, sono stati i miei giorni,
come figure che passano su uno schermo televisivo
e scompaiono, così è passata la mia vita.
Come le automobili che passavano veloci per le strade
con risate di ragazze e musiche di radio…
E la bellezza passò veloce, come il modello delle macchine
e le canzoni della radio che sono passate di moda.
E non è rimasto niente di quei giorni, niente,
solo lattine vuote e cicche spente,
risate su foto ingiallite, biglietti rotti,
e la segatura con cui all’alba spazzarono i bar.

 ***

tratto da " La vita è sovversiva" - Ernesto Cardenal - traduzione di Antonio Melis - Edizioni Accademia (1977)

Ubik – Philip K. Dick

sabato 12 maggio 2012



Philip K. Dick è un grande narratore, uno di quegli scrittori in grado di tenerti incollato alla pagina, per sapere “come va a finire”, come nelle lande dell’infanzia, quando si leggeva per ricercare il piacere della scoperta e il senso del meraviglioso.  Così la lettura di Ubik è una rivelazione, trattandosi questo di un romanzo iperstratificato, dove il postmoderno e la fantascienza fanno a gara per confonderci, per gettarci in un’arguta architettura di eventi, che sostanzialmente hanno lo scopo di disorientare, per rivelarci come tutta la nostra vita non sia nient’altro che un sogno, essendo la realtà la costruzione fragile di una soggettività allucinata.

Ubik, spogliato dei suoi attributi fantascientifici, è, infatti, una riflessione potente sulla precarietà dell’esperienza sensoriale e della vita stessa, in un continuo gioco d’inganni e depistaggi il protagonista Joe Chip dal futuro si trova catapultato in un mondo alternativo, un’America degli anni Trenta, dove dovrà lottare insieme ai suoi compagni di avventura per la sopravvivenza. Detto così sembrerebbe lineare ma sotto c’è un sostrato d’inganni per cui le cose si riveleranno molto diverse.   Qui dove tutto è gioco, un abile giocatore come Dick ci catapulta in una storia in cui non ci sono certezze, in cui tutto è labile, provvisorio, ingannevole e falso.

Ubik è il nome di una sostanza miracolosa all’interno del romanzo ma è anche, come chiariscono i paragrafi in esergo ai capitoli, la quintessenza della merce, essendo ora un unguento, ora una marca di caffè, ora un rasoio, ora un tranquillante, ora un deodorante,  eccetera eccetera,  e infine coincidendo con Dio stesso. Parrebbe il leggendario soma vedico ma nelle sue trasformazioni racconta l’ossessione capitalistica per l’oggetto assoluto, la merce perfetta. Il romanzo, dunque, si configura come una profonda e terribile riflessione sulla reificazione dell’esistenza, Ubik, la merce perfetta, è appunto ubiqua, onnipresente, e s’identifica con il logos ordinatore; in un universo che progressivamente perde consistenza, solo lei, la merce, è in grado, nelle sue imprevedibili mutazioni, di essere il centro e il motore di ogni cosa.

Così Dick con questo romanzo mette a nudo il Capitalismo stesso, mostrando come esso sia entrato in ogni interstizio della vita ma anche della morte, giacché in questo romanzo i morti continuano una larvale esistenza, chiamata semi vita, gestita come un enorme business da imprenditori dai nomi improbabili.
La trama è talmente labirintica che riassumerla significherebbe sminuirla, perché il meccanismo che Dick crea ha una sua coerenza allucinata, che in una sinossi si perderebbe.

Quello che conta realmente è notare come in questo romanzo il reale si confonda in una fantasmagoria d’illusioni, la vita e la morte si mescolino, e tutto viene costantemente ribaltato, per sorprendere il lettore, sul piano del meccanismo narrativo, sul piano filosofico per ricordarci che il reale è fittizio, l’esperienza umana non ha più consistenza di un’allucinazione ipnagogica. Il linguaggio di Dick è semplice, il suo stile di scrittura immediato e non particolarmente elaborato, eppure la sua capacità di narratore è straordinaria e le implicazioni filosofiche evidenti. Come un prisma Ubik offre al nostro sguardo tali e tante sfaccettature che si rimane storditi, tutto condito con un umorismo nero e con un’irrefrenabile tensione alla parodia in chiave postmoderna. Suspense, humor nero, elementi di spy story, fantascienza, metafisica, sono mescolati in un affresco che ci racconta sostanzialmente l’assurdità dell’esistenza, la sua imponderabilità.

Romanzo di culto,  Ubik fu pubblicato nel 1969 e, a distanza di più di quarant’anni,  conserva il suo fascino misterioso, il suo ambiguo messaggio rimane sostanzialmente  indecifrato, il finale, infatti, spiazza il lettore rimettendo tutto in gioco, come in una spirale infinita. E’ questa l’esaltazione del divenire e della trasformazione, la stessa realtà è tutt’altro che stabile, oscillando vertiginosamente fra incubo e allucinazione.
In questo regno di mistificazioni si perde l’orientamento, lo scopo di Dick, oltre quello di sorprenderci per tenerci avvinti alla pagina, è quello di mostrare che non vi è alcuna certezza nella vita, tutto è aleatorio.

Ubik è dunque letteratura allo stato puro, un gioco sottile di contraffazioni in cui anche la stessa verità è sospetta, o meglio non è possibile,  il  procedere della narrazione di Dick  è  un grande gesto d’illusionismo, che ci seduce, ci sconcerta, ci toglie letteralmente la terra sotto i piedi e ci lascia la sensazione finale della beffa, perché qui  lo scrittore si mostra onnipotente, fa dei suoi lettori ciò che vuole, se li rigira tra le mani come  gli stessi personaggi che ha creato.

Le parole dentro il magma - la poesia di Mario Luzi

sabato 5 maggio 2012



Con le prime raccolte La barca (1935) e Avvento notturno (1940) un giovane Luzi ci racconta della sua fascinazione per le giovinette fiorentine, le fanciulle che “non sanno finire d’aspettare l’avvenire”, e che rappresentano  il cuore pulsante di questi versi giovanili, così  spontanei e freschi.  Il poeta fiorentino però non dimentica ”il dolore della giovinezza” e chiedendo perdono per i suoi “ dolci peccati”, tocca il vertice di una prosodia leopardiana, innestata sulla stessa modulazione pessimistica del poeta recanatese- si veda, per esempio, la poesia Il cimitero delle fanciulle, nella raccolta Avvento notturno, dove l’esistenza si mostra “solenne” ma “irta”. 

Lo sforzo di Luzi nel prosieguo della sua poesia è ribaltare questa nozione del negativo in una superiore accettazione;  la consapevolezza del dolore e della vanità trovano una requie nelle serenità apollinea con cui il poeta procede nella versificazione,  che assorbe le tensioni contemporanee e le restituisce purificate dalla stessa classicità del poetare, fondamentalmente  sereno,  anche se aggredito  da un’interiore  ansia, assennato, anche se arso dalla febbre del divenire, quieto, anche se roso dall’inquietudine dell’incomunicabilità,  e mai sopra le righe. E’ forse il limite della poesia di Luzi questa pacatezza, che non viene mai meno, e rende i suoi versi classicamente belli ma un po’ asettici, poco sanguigni ma questa pare un po’ la cifra stessa della poesia italiana del Novecento. Luzi non grida, non strepita, è sempre così attento a contenersi che la sua poesia, pur bella, non riporta mai nessun eccesso, non registra il grido dei viventi piuttosto il loro opaco balbettio.

 Ansia, uggia, dilemma, sono le parole che ricorrono spesso a sottolineare l’inquietudine  del poeta e di un’intera epoca, anche se il dettato di Luzi sembra estraniarsi dalla Storia e inseguire una propria purezza atemporale. Inizialmente   è  presente una forte componente cristiana che poi via via sfuma per ricomparire nello scritto La passione, interessante riscrittura dei Vangeli, testo  che fu commissionato al poeta nel 1999 dalla Santa Sede stessa, in occasione dell’allora imminente Giubileo.

La critica riconosce ormai nella raccolta Nel magma(1963)  il vertice di questo percorso poetico, di stampo chiaramente eliotiano, con frequenti echi danteschi: in questa silloge Luzi utilizza la conversazione borghese in termini stranianti, creando una dimensione che lo avvicina ai film di Antonioni, nella similare denuncia dell’incomunicabilità e dell’alienazione, di “questa malattia di non amore che/ dilaga. – “, come si legge nel poemetto  Nel corpo oscuro della metamorfosi, tratto dalla successiva raccolta Su fondamenti invisibili(1971).

Nel magma è una raccolta stratificata, dove il dialogo sembra farsi impossibile, e dove Luzi aduna “ le potenze della mente/ in un punto solo fra desiderio e ricordo”.
C’è un’oscura colpa che affossa il poeta, colpevole di essersi sottratto alla lotta, di essere precipitato nel mutismo, è la colpa sempiterna del poeta che, se si sottrae alle contraddizioni del sociale, lo fa per accordare “ le sfere d’orologio della mente/ sul moto dei pianeti per un presente eterno.” Quindi diventa un isolato e il suo linguaggio diventa incomprensibile ai contemporanei, “moltitudine/ morsa dalla tarantola della vita.”  Sospeso fra il “timore del mutamento” e la sua necessità, Luzi riconosce nell’epoca lo svuotamento, l’apatia, l’afasia, l’inerzia che la condannano. L’anima, in questa dimensione puramente negativa, si trova così a non desiderare più nulla, a rifiutare la vita, divenuta impossibile e opaca:

“ E l’anima malata al punto che non solo/ non ha pace/ ma non vuole pace, non desidera niente/ rifiuta il nutrimento, rifiuta la vita”.

Così come Montale ricercava” il punto morto del mondo”, “l’anello che non tiene”, Luzi cerca “ il punto pullulante dell’origine continua”, scoprendo alla fine della sua angosciosa ricerca “ il mutevole e il durevole/ strettamente mischiati alla sorgente”. “Una tortura di dilemma” s’insidia spesso nella mente del poeta, che con dolore e fatica traversa le lande del dubbio, un luogo “ non posseduto dal senso”, e la sua poesia è attraversata sempre da “oscura una domanda” che trova risposta solo nel “vibrare delle immagini” che al massimo può raccontarci qualcosa del “ fulgore dell’effimero”. Progressivamente la poesia di Luzi sembra frantumarsi, perdere di unità - una sua raccolta s’intitola genialmente Per il battesimo dei nostri frammenti (1985) - sebbene sia sempre presente una tensione che conduce il poeta aldilà delle apparenze, nella speranza di ricongiungersi con il tutto, per “ tutto definitivamente essere”.

L’opera di Luzi così sforza la tenebra, apre a dei bagliori di conoscenza ottenuta“ a sprazzi nel buio”, sfida l’afasia contemporanea, tenta il fuoco della divina “ compresenza/ del tutto nella vita e nella morte”, e nel suo libro forse più luminoso, Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini(1994),  troviamo questa straordinaria poesia, sintesi e traccia di una forse inappagata e inappagabile tensione al positivo dell’essere, alla “scienza dell’universo, il canto”:

“E’, l’essere. E’.
Intero,
inconsumato,
pari a sé.
                Come è
diviene.
             Senza fine,
infinitamente è
e diviene,
            diviene
se stesso
altro da sé.
           Come è
appare.
                               Niente
di ciò che è nascosto
lo nasconde.
                        Nessuna
cattività di simbolo
lo tiene
              o oltre la guaina lo presidia.
O vampa!
Tutto senza ombra flagra.

E’ essenza, avvento, apparenza,
tutto trasparentissima sostanza.
E’ forse il paradiso
questo? oppure, luminosa insidia,
un nostro oscuro
ab origine, mai vinto sorriso?”

Così Luzi appare un poeta parmenideo, reso inquieto dal divenire che tutto spazza e interessato alla sostanza immutabile, a quel motore immobile che può donarci come in sogno “l’eterno presente” cui aspira la sua poesia, anche in questo classica, anche in questo misurata;  una poesia dell’essere, consapevole però del vuoto sotteso a questo sforzo di recupero di una dimensione sapienziale,  in cui la parola possa volare alta sopra i frantumi del tempo e del divenire, fuoriuscendo dal magma contemporaneo della sua mancanza di significazione.