sabato 27 aprile 2013
In letteratura ogni paradosso è
possibile, anche che un cimitero sia pieno di vita. E’ questa, infatti, la
primissima sensazione che si ha scorrendo le poesie che compongono questo testo
straordinario, “Antologia di Spoon River”, uno dei libri fondamentali per
capire il primo Novecento, che il suo autore Edgar Lee Masters cominciò a
pubblicare a puntate su un giornale già dal 1914, testo che rileggo oggi in una
traduzione del poeta Antonio Porta.
La scena delle poesie qui contenute è proprio
un cimitero di una città immaginaria, Spoon River, che si configura come la
cittadina simbolo della provincia americana, e più in generale come luogo
paradigmatico, dove l’esistenza umana si sviluppa nelle sue contraddizioni,
gelosie, invidie, meschinità, cattiverie, ma anche nei suoi atti di devozione,
nelle sue tenerezze, nella sua gratuita abnegazione. Il tutto reso dal poeta
americano con una sorta di realismo epico, anche se minimale, perché egli
disegna un’epopea, l’epopea della provincia americana, fotografata nei
dettagli, restituita viva a dispetto di ogni funebre sfondo. Il cimitero di
Spoon River è, infatti, luogo della memoria, dove immaginari personaggi
rivivono nel racconto in forma di epitaffio le loro esistenze, ora tragiche,
ora banali, ora banalmente tragiche o tragicamente banali. Queste storie sono
così sospese fra commedia e tragedia, fra poesia e prosa, e in esse la
provincia americana emerge con una misteriosa chiarezza onirica.
La traduzione di Antonio Porta
non mi convince fino in fondo. Mi sembra che egli ecceda con una resa
colloquiale, in alcuni casi sacrificando i congiuntivi e quindi la stessa consecutio temporum (stranamente questo
accade soprattutto nella prima parte del testo poi le cose migliorano e la
traduzione guadagna in solidità). Ma poi il dubbio sulla legittimità di alcune scelte
ritorna, vedendo passer-by tradotto, in
diverse occasioni e inspiegabilmente, con
passeggero invece che con passante.
Paradosso di un cimitero pieno di
vita, dicevamo. Perché la sensazione è che questi morti, su cui incombe
l’oblio, non si rassegnino al nulla e vogliano continuare a pulsare nelle loro
verità e nelle loro menzogne, come se la morte non potesse essere l’ultima
parola, e un immaginario secondo tempo fosse loro concesso.
Così abbiamo avvocati un tempo
celebri che si lamentano del fatto di essere caduti nel dimenticatoio,
ubriaconi che il caso ha voluto invece premiare con una tomba rispettabile,
sposi che anche da morti continuano a litigare a distanza, poetesse derise e
violentate, delinquenti, commercianti, medici, politici, soldati e tutta quella
miriade di personaggi che servì a Edgar Lee Masters per disegnare il suo
affresco memorabile, ironicamente epico,
leggendario.
In questi monologhi aleggiano verità scomode,
dolorose consapevolezze che rendono il testo un aspro ma colorito commentario
delle umane vicende, definito da qualcuno una Divina Commedia dei nostri
giorni, dove la dimensione del peccato è
presente in superficie e man mano
diventa una visione cupa e amara
dell’esistenza, esistenza che sembra già di per sé una punizione per gli
sventurati protagonisti di questa epopea in minore. C’è però anche
l’abnegazione di una moglie per il marito malato, l’impegno di un padre verso
il figlio cerebroleso, Masters evidenzia così anche la parte luminosa
dell’essere umano.
Non mancano anche le notazioni comiche, come
nell’epitaffio di Batterton Dobyns, il quale sul letto di morte ha la visione
della sua futura vedova che anni dopo il suo decesso, ”riposata, rubiconda e
prosperosa” (“rested, ruddy and fat”), in un hotel ordina, affacciata da una
finestra sul mare, l’ennesima fetta di roastbeef.
Il paese, Spoon River, è il luogo
meno adatto per qualsiasi idillio, cittadina che schiaccia i suoi abitanti e li
costringe il più delle volte alla resa; Spoon River è simbolo di un’America in
cui domina l’ipocrisia, il sotterfugio, la viltà, il conformismo, e che risulta
ben lontana da ogni visione apologetica o agiografica. E’ un’America perlopiù di
sconfitti che anche da morti levano le loro recriminazioni e il loro lamento.
La morte qui di per sé è avvertita come l’ultima, la più grande e beffarda, delle
sconfitte. Anche quando racconta di vite
apparentemente riuscite il poeta americano mostra che in esse agiva
comunque il tarlo di qualche
insoddisfazione, di qualche rimorso, di qualche insuccesso. Naturalmente, come
capita sempre con la grande letteratura, la visione di Edgar Lee Masters dalla
provincia americana assurge all’universalità; si capisce che è la stessa
dimensione umana a essere cantata come deludente, disperata, vana, vuota. Le
poche figure eroiche in un mare di mediocri, arrivisti, arraffoni, sembrano
stridenti, quasi appartenessero a un’altra specie, venissero da un altro pianeta.
Il senso dell’assurdità dell’esistenza,
che permea diverse poesie, non impedisce tuttavia al poeta di creare anche
personaggi spensierati e felici, come il violinista Jones che “ha eseguito la
vita per tutti i suoi novant’anni“ nella traduzione di Antonio Porta, “Who played
with life all his ninety years” nell’originale inglese. La felicità qui però
non è nel conformismo, o nell’adesione ai valori della nostra civiltà,
considerata in fondo fonte di disperata alienazione, ma nella ribellione,
nell’irriverenza, nel rifiuto di sottomettersi al perbenismo o al puritanesimo
ipocrita della società americana. Quindi il violinista Jones, artista e
ubriacone, ha continuato tutta la vita a raccontare le sue storie, a riempirsi
di vino e a suonare, fregandosene altamente della buona società e delle sue regole,
incurante del cielo, del denaro, e dell’amore, come nel celebre verso” Nor gold,
nor love, nor heaven” che tradotto in “ Non al denaro non all’amore né al
cielo” divenne il titolo dell’album di Fabrizio De André liberamente ispirato
alle vicende raccontate in questo libro leggendario.
Distillato di vita perlopiù amara,
romanzo della provincia, racconto di gesta non eroiche, l’Antologia di Spoon
River è un testo ricco, variegato, con tutti quei personaggi che, come un coro
tragico, sintetizzano un’epoca e forse la condannano, sicuramente mostrano la
vita in tutta la sua durezza e la gente comune in tutta la sua meschinità e cattiveria.
Non sorvoliamo sul personaggio della poetessa Minerva Jones:
“ Io sono Minerva, la poetessa del paese,
fischiata, sbeffeggiata dagli zoticoni da strada,
per il corpo pesante, l’occhio strabico, il passo ondeggiante,
e rincararono le dosi quando Weldy ” il duro”
di me prese possesso dopo una caccia brutale.
Mi lasciò al mio destino dal dottor Meyers;
e io sprofondai nella morte, la paralisi che saliva dai piedi
come chi entri sempre più nel profondo
in un flusso di ghiaccio.
Andrà qualcuno al giornale del paese
per raccogliere in un libro tutte le mie poesie?
Ero tanto assetata d’amore!
Ero tanto affamata di vita!”