Nell’analizzare un
poeta come Rimbaud, il compito del critico è più che mai arduo e non si
tratta solo di una questione legata all’ermeneutica dei testi. Bonnefoy lo sa
bene, in questo libro Rimbaud. Speranza e lucidità, che
raccoglie quasi mezzo secolo di studi da lui dedicati a colui che Verlaine
ribattezzò “l’uomo dalle suole di vento”. Troppa mitologia, troppa leggenda,
come una patina opaca e diabolica, si sono,
infatti, incrostate sulla figura
di Rimbaud. La sua opera rischia così di
rimanere muta, soffocata da considerazioni che poco hanno a che fare con la
letteratura e molto con il mito, soprattutto oggi che all’autore non si
chiede di scrivere ma di diventare un
personaggio, con tutto ciò che questo comporta.
Così Bonnefoy compie un gesto di pulizia e con la sua
scrittura di incomparabile difficoltà e acutezza dissolve molti dei fantasmi
che si frappongono fra noi e l’opera di Rimbaud, di cui individua due polarità,
speranza e lucidità, che diventano il sottotitolo di questa bella e necessaria
edizione italiana, tradotta e curata per
Donzelli da Fabio Scotto nel 2010 e arricchita da una postfazione di Gabriella
Caramore.
Il titolo originale “Notre
besoin de Rimbaud” ribadisce la centralità che questo poeta ha avuto nella vita
di Bonnefoy e più in generale nella cultura mondiale. Centralità che fa di
Rimbaud per alcuni l’iniziatore, il
capostipite della poesia moderna. Chi scrive condivide questo assunto e trova
nelle parole di Bonnefoy la forza critica necessaria più che mai a ridare linfa
a un’idea della letteratura come campo di battaglia di forze contrastanti: la
guerra che Rimbaud condusse contro i millenari stereotipi culturali e
linguistici, contro le banalità che anestetizzano il pensiero, fu terribile e
senza sconti. Che per un’operazione del genere si rischi la follia è indubbio
ma la posta in gioco era per Rimbaud
altissima, “salvarsi l’anima”, non cristianamente, perché Cristo è solo un “ladro di energie “ ma nella ricerca di un’episteme tragica che
vuole diventare azione, ripensamento supremo dell’essere e della vita.
Bonnefoy riconosce che Rimbaud si è giocato tutto se stesso
nella ricerca di una parola che ci restituisse integro il senso del reale, e ci
conferma riga dopo riga di questo saggio quanto sia spossante il tirocinio che
un poeta deve compiere per diventare tale, quali tensioni debba affrontare,
quante contraddizioni respirare. Rimbaud compì un lavoro su se stesso spossante
alla ricerca di una chiave che ci
permettesse di accedere ai festini antichi, in cui l’essere fosse restituito a
se stesso e l’unità del reale
ristabilita.
“La carità è questa
chiave “ scriverà Rimbaud, salvo aggiungere ”Questa ispirazione prova che ho sognato.” E qui la speranza di una fratellanza primigenia, espressa dal
termine carità, s’infrange contro lo scoglio di una lucidità insonne, spasmodica, realmente moderna nel
riconoscere, vedremo quanto per ragioni intime e biografiche, i “deserti d’amore “. In Rimbaud,
adolescente e pagano, tutto assume i connotati di un parossismo: l’anima
sconvolta desidera il Natale perenne
sulla terra, s’apparenta agli umili, agli ultimi, ai dannati. Rimbaud stesso si definisce di “razza
inferiore dal profondo dell’eternità.” Questa voce sembra dunque sorgere
dagli abissi dell’odio di sé.
Bonnefoy riconosce
inevitabilmente l’importanza di alcuni dati biografici: alla base del
conflitto col reale e con se stesso ci
sarebbe la personalità della madre, Vitalie Cuif, fredda, arcigna, devota a un culto del “dover essere”
borghese, madre che dilagò nell’assenza di un padre, (che abbandonò Vitalie quando Arthur Rimbaud aveva 5-6 anni); donna
scostante, forse anaffettiva, attratta patologicamente dalla morte, tanto che,
racconta Bonnefoy, si fece calare nella tomba di famiglia fra i due figli
morti (fra cui Arthur), inscenando la propria sepoltura.
Bonnefoy insiste su Vitalie, perché considera la figura
materna l’artefice involontaria di una vocazione alla
poesia che può anche spaventare nella
radicalità con cui Arthur Rimbaud la espresse. La madre è quella
creatura arida, sottomessa alla legge
dell’apparire, che privò Rimbaud dell’amore necessario a esistere e lo
condannò a una vana e disperata ricerca
di quello stesso amore. Di questa privazione
originaria e insanabile l’opera di Rimbaud è
drammatica testimonianza. Ma per Bonnefoy le cose non stanno solo così,
sono più sottili ancora: la madre è colei che custodisce l’essere stesso della
sua vocazione poetica, della vocazione poetica di chiunque. Centralità della
madre nel generare la parola. Indubbiamente però Vitalie Cuif fu la “parente abusiva che compare nelle biografie
di tutti i pensatori maledetti” come scrisse Deleuze nel suo saggio su
Nietzsche, cito a memoria, ma quanto più incisiva per questo motivo fu allora sulla psiche del figlio.
Questa ferita originaria del disamore si riprodusse in tutta
l’opera di Rimbaud, stigmate di un’impossibilita di accedere alla “vera vita”, che per lui diverrà un alchimistico
costrutto di versi fra i più mirabili della sua epoca. Dopo la parentesi londinese con Verlaine,
feconda ma anche deludente, seguirà il duro servaggio del lavoro di mercante nei
suoi anni in Africa a sancire
un’ulteriore rottura, quella con la
scrittura, l’abbandono della poesia alla spazzatura delle cose dimenticate. Questa,
però, è una resa, resa a quella chiaroveggenza
arida, forse mutuata dalla madre chissà, che gli farà rompere con i lucidi incantesimi
di cui aveva costellato la sua adolescenza geniale.
Fra speranza e lucidità, cioè
fra il desiderio di essere amato e la vanità di questo sforzo, oscilla la psiche di questo poeta così
definitivo e radicale, più che mai vivo
e operante, in questo magnifico saggio di Yves Bonnefoy.
Si tratta di rovesciare forme codificate, valori consumati ma
spesso vissuti come onnipotenti, distillando un linguaggio che dica la
vertigine di una lucidità che, se accede alla visione, lo fa per ampliare lo
spettro delle nostre possibilità razionali. Nella poesia Rimbaud si getta a riconsiderare
Il senso del reale, sogna di modificare
la vita, l’amore, la percezione, la propria soggettività già vicina a
dissolversi nell’anonimato della città moderna, di cui proprio Rimbaud fu uno degli interpreti più lucidi e spietati.
Ancora oggi noi non possiamo pensare alla città moderna e industriale, senza la sua mediazione. Ma Bonnefoy non dimentica che Rimbaud è
vissuto a Charleville, cittadina di una provincia anonima, grigia e scialba, dove una certa ottusità borghese soffocava gli
aneliti della sua anima di giovane
ribelle, insofferente anche verso le chiusure materne. Provincia
avvelenata in cui il suo oceanico desiderio di una
palingenesi rivoluzionaria della società era sprecato, vanificato. Serrato così
fra la rigidità materna e il
provincialismo piccolo borghese, l’anima di Rimbaud era ulcerata da
contraddizioni insanabili, che nell’opera acquistano risonanze imprevedibili.
L’odio di sé, come già accennato, è uno dei frutti di questo percorso fra i
frantumi del reale, un dato certamente decisivo, e affiora in più
punti trasformandosi facilmente in aggressione verbale verso un mondo
disistimato, freddo e incomprensibile: inferno cittadino attraversato dai fremiti
di un’anima che, se stringe la “rugosa
realtà”, si trova fra le mani proprio il proverbiale pugno di mosche,
covando perciò la rabbia di chi si considera escluso. Rimbaud si sente un
pagano, un barbaro, un bruto, cui le dolcezze d’amore sono negate. Egli cerca
comunione con gli altri ma non la trova. Questa esclusione, questo sradicamento
ci rende ancora oggi vicino un poeta
dell’Ottocento, la cui opera è una ferita ancora viva e pulsante nel tessuto della letteratura.
È la provocatoria modernità di Rimbaud che già Henry Miller
aveva individuato come ragione della sua forza e della sua attualità di icona
dello smarrimento. Camus vide in lui la perfetta immagine dell’uomo in rivolta,
colui che ha fornito a essa il linguaggio più esatto. Bonnefoy dal canto suo,
come già visto, insiste molto sulla lotta
che si radicalizzò nel suo spirito, fra speranza, di riconquistare l’Eden, di
ricomporre la frattura con il reale da cui è escluso, e la lucidità di chi sa
vano ogni sforzo, e impreca. La speranza è un fuoco che però non si spegne,
speranza di riconquistare l’amore, di reinventarlo, di rientrare nell’esistenza
che lo espelle. Baudelaire è la sua guida ideale, “un vero dio” e se egli non loda la forma delle poesie del maestro,
è perché è condannato a un gesto di reinvenzione costante e profonda di quelle stesse forme. Fine della poesia
soggettiva, per una nuova vertiginosa oggettività .
Rimbaud e la sua opera si fondono. Strana fatalità: “ Da questo libro dipende il mio destino”
dirà di Una stagione in inferno. Anche
per questo egli rimane un faro di consapevolezza nel buio della nostra epoca, avara
di destino, e pressoché priva di
questa passione per la parola che, se rasenta
la follia, è scintilla del genio che dona al mondo tutto se stesso, sapendo di
porre al mondo inquietanti interrogativi.
Rimbaud ha sperimentato, nella carne e nello spirito, l’esattezza di
questa frase di Bonnefoy, perfetta per suggellarne l’avventura:” La contraddizione è la fatalità del reale.”
L’inevitabile scacco di Rimbaud, il suo fallimento, il suo
infrangersi contro lo scoglio di una impossibilità, sono anche i nostri. Egli
nelle parole di Bonnefoy ci impone un “confronto
tragico con l’assoluto” per vincere la
condizione di esiliati dall’Eden, per tornare alla condizione primitiva di
figli del sole. E lo fa in nome della libertà, le cui ali sono però “ speranze bruciate” poiché “La vera vita è assente”. Così il
messaggio di Rimbaud continua a interrogarci. Quanto a Bonnefoy, provvidenziale
questo incontro, ammiriamo la stupenda -
e stupendamente vera -
conclusione di uno dei saggi che compongono il libro:
“Decidiamo semmai che Una stagione in inferno è una di quelle bottiglie in mare che finiscono
per trovare un lido. Facciamo in modo di pensare così l’atto di fede che
dobbiamo a chi ha saputo, egli in primo luogo, compierne uno, rivelando che
la poesia è innanzitutto questo, o meglio non è nient’altro. “