La parola della poesia è sempre
una parola misteriosa, perché è indubbio che essa affondi in quel sostrato di
noi, dove siamo colti dalla vertigine dello spaesamento e ci scopriamo soli, esuli, sradicati, estranei perfino a noi
stessi. Allora sorge, come testimonianza e mai come mera comunicazione, come
generalmente si crede, questa voce altra, questa voce ombra che noi chiamiamo
poesia. Testimonianza che più di un poeta, fra tutti ricordo Bonnefoy, ha voluto immaginare affidata a una bottiglia
fra le onde del mare, messaggio per nessuno che solo per caso arriva ad essere
ascoltato talvolta da qualche naufrago. Quelle che sonda la poesia è una zona pericolosa
in cui sorge enigmatica la figura di uno straniero, che Edmond Jabès ha così
bene approfondito in tutta la sua opera.
Anche in questo Libro del dialogo, tradotto e curato,
per la casa editrice Manni, da Antonio Prete, e uscito nell’ottobre del 2016, la
scrittura approfondisce il tema dell’estraneità, meravigliandoci con una
girandola di paradossi che hanno la naturalezza meravigliata di rivelazioni.
Libro più che meditato,
dolorosamente scolpito in frasi brevi, aforismi o brani più lunghi ma sempre
attraversati da quella passione per la sintesi estrema, la densità concettuale
che fa di Jabès un grande interprete della poesia in prosa del Novecento. Egli esplora il deserto della scrittura
consapevole che noi, come esseri umani ”abitiamo
solo la nostra perdita” e che ogni libro scritto naufraga nella sua stessa
tragica ineffabilità di frammento di un più vasto Libro, che forse è solo il
silenzio in cui tutto si cancella. Difficile scrivere di un libro così
fortemente ellittico che fa del silenzio più che del dialogo il suo cuore
pulsante, libro archetipico in sommo grado.
Sue figure oltre il dialogo e il
silenzio, il libro, il deserto, l’oblio, la parola, l’interrogazione, l’assenza e Dio, questa assenza al cubo, i
quali con leggerezza vagamente ipnotica fluttuano in questo testo per costituire l’ennesimo frammento di
un’opera, quella di Jabès, che continua a interrogarci sui grandi temi
dell’esistenza.
Ammiriamo così’, in questo libro
originariamente uscito in Francia nel 1984, nitida e sorniona, la voce di un
classico. Se il libro dura soprattutto nel momento in cui qualcuno tenta la via
della sua decifrazione, esso è un
dialogo fra estranei che si richiude subito nella solitudine originaria, perché
noi “siamo gli eredi di una parola
orfana, errante, esiliata, una parola che invano abbiamo cercato di dominare[…]”
Lo stratagemma retorico è immaginare
una terza persona che parla al posto dell’io, per preservare l’oggettività del
dettato ed evitare le trappole del monologo, dunque voci anonime di saggi, di
persone non identificate si affollano: “ Diceva anche<Forse si scrive
soltanto per poter salvare qualche parola dall’incendio che cova in noi. >”
Così Jabès diventa colui che, forse
più di chiunque altro nel Novecento, indaga il mistero stesso della scrittura:”
Abbiamo scritto, diremo un giorno,
sull’ondeggiante superficie di un soffio”.
Si parla e si scrive sempre attraverso
una ferita la cui causa ci rimane ignota ma che sappiamo essere all’origine
stessa della nostra vita. Il paradosso è che più la scrittura si silenzia,
diventa incomprensibile mormorio, più
riesce a esprimere al meglio il pensiero nascosto dell’autore, che forse
coincide con un dichiarazione di vuoto fatta in faccia a un universo
indifferente.
Storielle quasi zen, un ricorso alla mistica della cabala, la
persistente presenza di maestri il cui insegnamento è disimparare e la cui
ambiguità è assoluta, fanno di questo libro una ricognizione nei territori di
una poesia tanto più misteriosa tanto più pare
lapidaria. La scrittura buca il silenzio e proclama che la mancanza è
origine.
Ecco dunque una poesia del vuoto come
evento cosmico più che quotidiano, una poesia della ferita che parla e del
deserto che chiude tutto in un inesplicabile silenzio, perché se la parola è
un’onda che si frange sulla spiaggia,
noi ne decifriamo soltanto una piccola parte di schiuma. Così Il
Libro del dialogo è un libro del silenzio e dell’impossibilità di
decifrare noi stessi e l’altro che siamo per noi stessi.