Confesso, ed è per chi mi conosce un’amara confessione, che mi sono deciso, dopo molta riluttanza, ad aprire un account
Facebook. Sono anni che ne parlo male, ed eccomi qui, agganciato anch’io a
questo vortice, la mia faccia impressa in questo continuum di infernali futilità. So bene che se il “mezzo è il
messaggio” qui tutto è fagocitato dall’impersonalità di un blob, il messaggio
annientato, il pensiero distorto e omologato, è il Mercato di cui scrive Nietzsche,
in cui ogni parola realmente autentica è
bandita. Non da una subdola censura ma perché sommersa dalla massa di
informazioni che si presentano ogni volta come verità definitive ma sono irrilevanti.
Per non parlare delle privacy. Si finisce per sapere cose
anche importanti su persone che nella vita quotidiana sono delle sconosciute, con
le quali magari ci si saluta a stento, solo
perché si è “amici” su Facebook. E potrei continuare. Credo che sia impossibile
usare Facebook e sia molto facile esserne
usati manipolati, marchiati nel profondo. Allora perché sei entrato a farne
parte? È la domanda dei più scaltri fra i miei lettori.
Semplice: un pensiero si è intrufolato
nel mio dormiveglia
e ho concluso che da
poeta ho il dovere di conoscere Facebook. Per me è come la discesa nell’Inferno
dantesco o nell’Ade orfica. Esagero forse ma ahimè, son fatto così. Vi ricordo
il libro di Luigi Siviero, di cui ho scritto tempo fa su
Lankenauta.
Se Facebook è il regno della visibilità
imposta come bene sommo, cosa c’entrano i poeti, da sempre devoti all’invisibile?
“Mi sono sempre rifiutato di diventare la fogna del pensiero di tutti” chiosa
ormai utopisticamente Artaud, che ha pagato questa purezza di intenti con l’alienazione
mentale. E potrei scriverne ancora ma in questo periodo di pensiero la scrittura mi
pesa un po’. E Io? E Facebook? Irrilevante che io parli di Dio o delle mie deiezioni
per la stessa natura del mezzo. Dunque? Sperimentazione.
Mi tocca, sebbene obtorto collo.
Vedremo.
Ettore Fobo