Fuori di casa raccoglie scritture di viaggio che Montale produsse
per Il Corriere della Sera fra il 1946 e 1964. Qui si può assaporare la sua
ironia spesso amara, altre volte invece puramente divertita, il suo sguardo da
antropologo sui generis, le sue
raffinate, da erudito autodidatta qual era, riflessioni sulla pittura, le sue
investigazioni sulla poesia del suo e di altri tempi. Scritti di viaggio non
organizzati cronologicamente ma inseguendo un’ideale mappatura geografica. Si
parte dalla Cinque Terre per poi approdare in successione in Scozia,
Inghilterra, Siria, Libano, Svizzera, New York, Francia, Spagna, Portogallo,
Grecia, Israele e Giordania. Con un linguaggio a tratti morbido, a tratti
ruvido, stilisticamente sobrio, Montale percorre queste terre da viaggiatore
svagato quasi blasè. Si avverte che
il ruolo del viaggiatore non gli si confà pienamente, la sua curiosità è per
paesaggi descritti con chirurgica attenzione e improvvisi, ma sempre misurati,
slanci lirici.
Montale non si entusiasma mai più di
tanto, pigramente condotto dagli eventi a osservare un mondo che lo interessa
solo a tratti e su cui già vede profilarsi come un’ombra la melassa degli
spettacoli televisivi che l’avrebbe presto deformato. Ne parla diffusamente
come un pericolo.
S’illumina soprattutto quando
scrive di poesia: Mistral, Kavafis, Char, Auden o di pittura, spaziando dagli
Impressionisti a Picasso, da Braque (che incontra nel suo buen retiro spagnolo) ai meno noti Bonnard e Nonnel.
Il suo procedere linguistico
sopra le cose senza intaccarle, rimanendo da loro distante, può apparire
perfino stucchevole, e Fuori di casa risente della tendenza
montaliana a rimanere fuori dai subbugli epici o miseri della Storia.
Osservatore neutrale, distante,
con uno sguardo sì penetrante ma sostanzialmente perso nelle sue lontananze di
poeta.
Fuori di casa, edito da Mondadori in una nuova edizione nel 2017, è
un libro di viaggi di un non viaggiatore, capace più di esplorare dentro se
stesso che restituirci il fascino del lontano e dell’esotico. La sensazione è
che non si fosse trattato del suo lavoro per il Corriere della Sera, se ne
sarebbe rimasto volentieri a casa, fra le ungarettiane “quattro capriole di
fumo del focolare”, piuttosto che incontrare la gelata e ostile indifferenza di
Brancusi o la freddezza da monumento vivente di Braque.
Di conseguenza di questo testo
non rimane molto nella memoria. Impressioni fugaci, ritratti di scrittori come
Malraux, Mauriac, e certe affinità elettive (con Char e con Auden). Sopravvive la
bellezza della scrittura, nitida, esatta, un po’ esangue però, priva di
quell’impeto che fa spesso la sostanza di un libro di viaggio.