“Penso che l’intervista
sia una forma d’arte. E che l’autointervista sia l’essenza della creatività.”
Jim Morrison
Penso che
Diario di Casoli, aldilà del dato biografico di cronaca o
finta cronaca di una mia vacanza in Toscana,
sia
soprattutto un’avventura dentro il mistero di scrivere e quindi della
parola
e poi dentro
il mistero dell’altrove.
Un poemetto apparentemente incentrato tutto
su un luogo, Casoli, che si trova in provincia di Lucca, che per effetto
dell’immaginazione diventa un luogo mitico. Poiché tutto è già immediatamente ricordo
nel momento stesso in cui si compie, tutto, come ha notato Tonelli, eternamente
accade in un unico istante; tutto è già mito, racconto, e a dominarci è il
desiderio dell’altrove, luogo altro rispetto alla quotidianità cittadina. Anche
la memoria è un altrove, rispetto all’azione perennemente volta al presente,
all’attuale, banalmente alle cose da fare.
Anche il sogno che ci fa da sfondo è un altrove.
Ciascun luogo è il sogno e il segno di un
luogo mitico, mentale.
Ecco, io mi sento sempre un poeta
onirico, notturno, che, però, arde dal desiderio di cantare la luce.
L’ambientazione montana (si tratta di una mistificazione in realtà, si dovrebbe
dire che Casoli è in collina ma io l’ho trasformato in luogo montano) l’ho
sentita e l’ho vissuta così, come prodigio di luce e ombra, che si disputano la
scena nel loro quotidiano alternarsi. Nel mio poema spero che questo prodigioso
alternarsi si veda anzi, si senta.
Mia ambizione era far apparire
queste zone della Toscana, la valle di Lima, soprattutto ma anche la
Garfagnana, come luoghi esotici, realmente altri. Il mio vuol essere un poema
luminoso che non dimentica che la poesia è fondamentalmente tenebra o meglio
penombra, la penombra boschiva, in
questo caso. Ecco il vero cuore dell’altrove, l’ animalesca alterità del bosco,
della civetta, della volpe, del cervo,
del cinghiale etc.
“La vera vita è altrove.” Così Rimbaud potrebbe sigillare il poema
con questo suo verso. Casoli diventa altrove dove la vera vita si può
manifestare ma ecco… la vera vita non può essere raccontata, così Tonelli parla
giustamente per il mio poema di viaggio verso “l’impossibilità della parola”. Infatti, la parola è insufficiente
a svelare il mistero dell’altrove al tempo stesso essa è la soglia che ci
permette di accedere a un’epifania del sacro.
La poesia si toglie la maschera di costrutto intellettuale e si rivela
religiosa, ma in maniera primitiva e forse caotica. Poesia come religione del
silenzio. Musica che onora il silenzio.
Si può parlare come fa Goethe, e ci
ricorda Tonelli, di “regno delle madri”,
con tutta l’ambiguità e l’ambivalenza della madre, compresa madre Terra,
espressione ormai logora per via di certa New
Age, espressione ormai caduta nel discredito della massificazione, per via
del fatto che anche il “senso della terra”
di Nietzsche diventa banale come una musichetta troppo ascoltata, se diventa
slogan.
Nel mio poema c’è il sogno che la
poesia si riveli creatrice di miti in grado di riconciliarci con la Natura,
mito archetipico fondante, celebrato in questi versi, ma che si ha la sensazione,
penso, di una natura lunare, sfuggente, ambigua, acquatica. Non
ti ama, ti assorbe, duplicità della madre. E infine tutto questo è un sogno:
madre natura, la valle, lo stesso paese si rivela essere Hotel Artaud, cioè un
luogo magico, sì ma in fondo folle e assurdo, come la vita e i suoi simboli.
Splendidamente assurdo, potrei osare di dire, se penso a Camus. La vita come
ridda di esperienze assurde, da vivere fino in fondo. Penso anche all’amor fati nietzschiano, che, però, diventa più o meno “La
tua vita è una gabbia; ama le tue sbarre”, nell’interpretazione critica di Adorno. Mi ha
fatto molto piacere che Tonelli abbia citato quest’ultimo nella sua
introduzione. Ma sto divagando.
Diario di Casoli è un titolo che si è imposto da sé.
Scrivevo su un quaderno queste poesie e dopo una manciata di esse, avevo già in
mente dove volevo andare a parare, cioè
verso il regno del grande Boh, naturalmente. Sì perché io scrivo anche per
essere stupito e in qualche caso lo sono stato. Mi capita a volte di sognare
dei versi, più raramente un’intera poesia.
Hotel Artaud all’alba, per
esempio, è proprio il residuato di un sogno. È stata quasi interamente
recuperata al risveglio e ricostruita.
Hotel Artaud è il titolo di una poesia
di Milo De Angelis, poeta che leggevo in quel periodo.
Leggevo anche Yeats, che viene citato in
esergo a una poesia. È Yeats a chiamare il suo secolo, il Novecento, “
secolo consunto”. Ho avvertito anche
piuttosto intensamente la presenza di Pascoli che è vissuto lì vicino, per la
precisione a Castelvecchio che ora porta il suo nome, Castelvecchio – Pascoli, e
dove la sua casa è stata trasformata in museo. La visita a questo museo è un
altro degli eventi
clou di quella vacanza
in Garfagnana e nella provincia lucchese.
A questa aggiungerei la visita al castello archeo park di Verrucole.
Straordinario e divertente viaggio storico nel medioevo,
non privo di ironia oltretutto,
nella ricostruzione narrativa di quel
periodo storico. Un vero spasso per un bambino,
la gita ideale per una scolaresca.
Fra i modelli non posso non
citare Machado che canta i monti, i fiumi, i limoneti, gli ulivi della
Castiglia oppure Odisseo Elitis, poeta luminosissimo che canta i mari della
Grecia. Poeti della luce, mi viene da pensare. La mia speranza, infatti, era
graffiare il lettore con uno spettacolo di luce.
Ma in Diario di Casoli c’è molto buio. Rimango un poeta notturno, lo yin
prevale sullo yang, il femminile sul
maschile, la fragilità della parola poetica sullo strapotere onnipotente della Verità. La
poesia è un pensiero debole, fragile. Con Ceronetti, però, bisogna dire: ”Nulla,
nessuna forza, può rompere una fragilità infinita.”
Nel lucchese ho letto una
frattura fra la Garfagnana e il resto della provincia che mi è stato spiegato essere
nel Medioevo il cosiddetto “contado lucchese”, cui appartiene Casoli che è una
piccola frazione di Bagni di Lucca, un po’ abbarbicata in collina ma in maniera
timida, riservata, un po’ chiusa, come mi è parsa quella terra e quella gente.
Un po’ diversa m’è parsa la Garfagnana sia come paesaggio sia come persone,
forse più gioviali, con la loro divertita ironia che non arriva al sarcasmo per
una specie di educazione. Ma aldilà di queste differenze, magari
immaginarie, sebbene divisa, tutta d’un
pezzo m’è parsa l’anima lucchese, in definitiva, appunto, colorata d’ ironia, con una sua saggezza come
di chi guarda nella vita la buffoneria
universale, il vano e non ne soffre perché sa riderne, o forse la sua
sofferenza è affilata come una risata.
“
Secolo consunto” è anche il nostro ma
Diario di Casoli è il tentativo di far uscire il lettore
dall’oppressione della contemporaneità, di farlo viaggiare verso un’alterità
che è anche il recupero di una dimensione primitiva, ancestrale, naturale,
fondante. È il discorso sotterraneo della nostra epoca tutta, se ci pensate. In
questo caso io, come spesso i poeti, mi faccio interprete e cantore di questo
desiderio collettivo di palingenesi naturale. Nonostante l’ambiguità di fondo
la mia è, in questo caso, poesia che celebra la terra. È stato Zanzotto,
infatti, a dirci che il poeta sogna soprattutto di elogiare, celebrare. Spero
di essere riuscito nell’intento.
Con
Diario di Casoli volevo realizzare qualcosa che fosse luminoso per
rompere con la tenebra dei miei libri precedenti, con il velato
cupio dissolvi dionisiaco che forse li
caratterizzava per cui un lettore un po’ disattento poteva rimproverarmi,
ingiustamente, io credo,
perché nelle
mie poesie anche la “
notte nera
dell’anima” erompe come una rivelazione carica di mistero.
O almeno così penso. Sicuramente volevo fare
un libro luminoso, e come tale l’ho vissuto. Rileggendolo più e più volte in
realtà benché la luce abbia un peso specifico notevole, quella della luminosità
è una falsa pista che io inconsciamente ho percorso. È una specie di auto
inganno che inganna anche il lettore. Un’auto rappresentazione che dice
qualcosa della verità ma ne nasconde l’essenziale.
Diario di Casoli è ancora un libro in cui il buio, il
silenzio, o addirittura appunto “
l’impossibilità
della parola”, l’impossibilità per la poesia di dire la verità sul mondo,
sono protagonisti della scena. Sono, però, devoto a quel frammento di luce di
cui il “Diario” si fa portavoce.
Bisogna rompere con le opere
precedenti tanto più la rottura è evidente tanto più vuol dire che si è
lavorato bene su se stessi.
Ho voluto dare una veste bucolica
al mio pensiero, per renderlo meno inquietante, convinto che uno dei compiti
della poesia sia quello di esaltare, celebrare, elogiare, anche la tristezza,
persino la sofferenza, addirittura la
morte, in una logica davvero aldilà del bene e del male. Insomma, la poesia deve togliere senso alla
vita, il senso codificato, fossilizzato,
sterile per crearseli lei infiniti, sensi vaganti, immagini, visioni,
prospettive. La poesia è sempre duplice, come minimo, ambigua, è sia la ferita sia il coltello che l’ha inferta, il bacio che
forse è anche un morso, la carezza e la
percossa, l’infinito e il vuoto, ma soprattutto, mi piace dire adesso, il vuoto infinito. Ciò che sconcertava
Pascal, voglio dire, il silenzio
stellare. La poesia è terribile, ci rivela la vanità delle nostre azioni, il
nulla di cui siamo fatti, ci mette alle spalle al muro e pretende la nostra
anima, tutta. Preferisce il nulla del disinteresse a un’attenzione parziale,
pericolante, svogliata.
Fine prima parte
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qui la seconda parte.