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qui la prima parte.
La mia idea di letteratura è un po’ quella di Manganelli, con meno ironia,
forse, perché la penso come Pasolini, l’ironia, una certa ironia- l’attitudine cioè a scherzare, a minimizzare - è
spesso un atteggiamento un po’ borghese.
Manganelli, però, ha tutte le ragioni del mondo quando sostiene
che la letteratura è mistificazione,
menzogna. Nessuna verità da dire, costruzione intellettuale in bilico fra la
burla e la profezia, gioco pericoloso in cui ci si danna l’anima per
assecondare le ombre. Finzione anche la Storia, i cui personaggi sono dei flatus vocis senza significato.
Glossolalica, puttanesca
infine la poesia, imbroglio calcolato al millesimo che ci
rivela cos’ è il linguaggio umano, sospeso fra farneticazione e musica.
Proprio la musica
ha un ruolo centrale in
Diario di Casoli. In quel periodo ero ipnotizzato da “Music
for Airports” l’ album
di Brian Eno,
lo ascoltavo continuamente. Penso -
e in realtà
spero -
che quelle melodie
avvolgenti, circolari, quelle spirali melodiche,
mi abbiano influenzato. Poi rompevo
l’incantesimo di quella musica, con il ruvido suono dei CCCP, con la cantillazione
ipnotica alternata al grido di Giovanni
Lindo Ferretti,
vi
aggiungevo
la dolce, cinica per
gioco,
fintamente ubriaca, di sicuro
ironicamente dannata, musica di Guccini, maestro di poesia nei suo meravigliosi
testi, secondo me, i
migliori della
musica italiana
e penso, per
esempio,
a una delle canzoni degli anni
‘90, neanche fra le più note,
“Lettera”.
Citerei i Grateful Dead, rivelazione di
quell’estate, gruppo che conoscevo superficialmente. Sono entrato dentro quel
mondo musicale fra psichedelia e folk e mi sono molto divertito. Ascoltavo
Crosby Stills e Nash, per esempio. C’erano i Doors, naturalmente ma quelli li
ascolto sempre. E i Velvet Underground, sì, quasi sempre. Che altro? Non so,
Battiato, ma soprattutto come autore per Giuni Russo, Alice. Ascoltavo
quell’eccezionale album che è “Energie”, dove
la voce di Giuni Russo ritma la follia metropolitana, l’alienazione, l’
allucinazione urbana. Penso che tutto questo mi abbia influenzato durante la
scrittura di “Diario di Casoli”, io scrivo spesso ascoltando musica e i miei
percorsi musicali sono strani, come si è visto da quello che ho appena detto.
Sento di aver ingannato il
lettore, in quanto poeta è mio compito, naturalmente, il bucolico è solo il
travestimento di un poema che realizza altro: la fuga di colui che è “passato
al bosco” come recita più o meno Jünger. Ecco Diario di Casoli è traccia di questa illuminazione, che
naturalmente trattandosi di poesia è finta, anche nel senso etimologico di
modellata, costruita, artefatta.
Cosa posso dire
infine di questo flusso di parole che ho
intitolato
Diario di Casoli?
Che esso
racconta il mio passaggio al bosco, l’ingresso deliberato in quel
tempio, quella “
foresta di simboli”,
che è la natura. Un’indagine alla fine
inquietante, una
straniante ricerca
dell’altrove, nel sogno,
nel mito, nel
mito di stessi,
di Casoli, del
divino,
del nulla. Ecco così, ipotesi di
lettura. Ma la domanda io la rivolgo al lettore. Solo lui possiede la
chiave
di questo testo che io ho
smarrita scrivendolo. La lettura che ha dato Tonelli, per esempio, per me è
stata illuminante. Ha definito il poema un “
vagare
immobile verso l’impossibilità della parola”. Fantastico, non ci avevo
pensato. Mi ha aperto alla comprensione del mio stesso testo come deve fare un
vero
critico. E ciò mi lusinga
oltretutto,
perché infine
ho imparato che capire e amare sono la stessa
cosa.
Tre aggettivi per definire
Diario di Casoli: orfico,
onirico, bucolico, sul solco di una mistificazione, lunare che finge la luce,
lucente che sogna la tenebra.
Spero che si possa dire della mia
poesia che essa sia ribellione al senso comune, alla dittatura della Verità. È
semplice ma complesso da dire. Con la
narrazione mistificatoria della poesia rispondo alla Narrazione mistificata dell’attualità
e del mondo.
Il bucolico è l’ abbellimento,
l’ornamento di qualcosa che in essenza potrei chiamare la rivolta, non quella
chiassosa delle piazze, ma quella silenziosa del bosco. E si ritorna a Jünger
al suo Trattato del ribelle, che
parla del ribelle come di “colui che è
passato al bosco”, si è dato alla macchia, congiura con le forze astrali della
sua unicità selvaggia e aristocratica.
Perché scrivo? Mah.
Forse Per resistere allo sfacelo, per oppormi alla pernacchia dei luoghi
comuni e del qualunquismo linguistico, per indossare una maschera ed essere la
finzione di una voce, un medium che porta un po’ di inferno in paradiso e
viceversa… No, no. Tutto falso,
ovviamente. Scrivo perché non lo so, se lo sapessi non lo farei, sarei troppo
cosciente e ciò mi paralizza, l’eccessiva coscienza ti blocca, in poesia ci vuole abbandono, incoscienza,
oblio. E torna il discorso del femminile. Torna la luna con il suo silenzio oceanico. Ancora una volta
l’acqua. A Casoli c’è un laghetto, ma è lo stesso. Bagni di Lucca è famosa per
le terme.
Ho scelto o meglio mi si è dato
un luogo piccolo, minimo, una frazione, quasi un villaggio, Casoli, dove nel
silenzio della valle ho potuto sentire
il richiamo della vastità, del bosco,
della natura sacra perché altra e altra perché sacra. Questa scoperta
dell’alterità non cessa di inquietarmi.
Fra le
influenze aggiungo il Pasolini de Le
ceneri di Gramsci, in cui c’è un
poema che parla molto dell’Appennino toscano,
di Ilaria del Carretto, questo straordinario monumento funebre di Jacopo della Quercia che ho avuto la fortuna
di ammirare due volte, nei versi di Pasolini e dal vivo, alla cattedrale di San
Martino. Ho girato intorno al monumento avidamente, come per assorbire la sua
bellezza. È stato un evento. Un biancore
scintillante, la grazia, l’abbandono.
Il passare
del tempo nel poema è un battibecco fra luce e tenebra, che in quella
dimensione sono entrambe assolute. Per questo parlo spesso di penombra che con
la sua incertezza ci salva dalla luce troppo accecante e dal buio troppo terrestre, ambiguo, spaventoso.
Qualcuno può
pensare che potessi scegliere un titolo più evocativo, più suggestivo, ne avevo
anche uno ma mi avrebbe dirottato l’opera che vuole essere anche realistica,
di un “realismo magico” però, una mappa del mio vagare mentale sì ma
profondamente radicato nel luogo, territorializzato, direbbe Deleuze ma in
questo caso si tratta di una
dislocazione, l’altrove. Beninteso: solo l’occhio visionario lancia uno sguardo
realistico. Solo il sogno racconta la realtà e non la fredda astrazione della
Ragione contemporanea, calcolante, utilitaristica.
In poesia
c’è sempre il potlach, l’eccesso che
deve essere distrutto altrimenti ti distrugge. Il Minotauro si traveste
dunque da fatina. L’inquietudine del
buio diventa ardente desiderio di luce.
La mia è una sorta di Lonely Planet mentale,
una mappa della terra che non c’è, Casoli
, “puntino sperduto nell’universo” lo chiamo in un verso, che per effetto
dell’immaginazione diventa mitico, a tratti incantato(parlo di casa delle
favole) a tratti spettrale( “il cimitero proietta una luce diabolica,
sinistra”). Una collina tutto sommato
dolce, diventa aspra come la montagna, luogo archetipico,
come archetipica è la valle. Si tratta anche
giocare a creare un mito di se
stessi. Così il poeta incontra Casoli, luogo sospeso fra il nulla e l’infinito,
fra la luce amica e il buio diabolico, fra realtà e sogno. Visione ipnagogica della penombra, che come
dice anche l’etimologia non è ombra ma
quasi ombra. E così via.
A Casoli noi ci muoviamo così in
un mito, il mito dell’altrove, il mito del bosco; sono stati mentali, sono la
soglia. Il primo libro di Ferlinghetti s’intitola A Coney Island of the mind. Qui non siamo a New York o a San
Francisco, siamo a Casoli ma è lo
stesso. “Casoli is a state of mind,”
potrei dire giocando ma non troppo. In Toscana si respira sempre un’atmosfera
internazionale.
Ci sta che un minuscolo paesino
collinare divenga montano, per effetto anche dell’immaginazione. Tecnicamente
Casoli non è montagna, ma è come se lo fosse. Io ero immerso in una valle circondata dai monti,
nel silenzio rotto solo dal canto delle cicale. La mia mente ha iniziato a
mormorare un canto di ringraziamento. Ho assecondato questo desiderio ed ecco Diario di Casoli.
Lo pseudonimo risponde
all’esigenza della maschera. È la consapevolezza che scrivere poesie significa
sempre indossare una maschera. Ettore Fobo non sono io, è un io fittizio
generato dalla mia scrittura,
l’autore. C’è una frase di Oscar
Wilde a tal proposito, illuminante :
“Gli uomini mentono. Date loro una
maschera e vi diranno la verità.”
Ma qui la maschera mi serve per
rilanciare un’idea di mistificazione assoluta, di menzogna come grimaldello che
permetta di scardinare la porta sul giardino incantato della pura invenzione. Nulla
di vero in tutto ciò, sogno che si sfalda come un dente di leone… Eppure in
questo sfaldarsi troviamo l’unica realtà, l’unica verità, cui la nostra condizione umana ha possibilità
di accesso.
Fine