Cronaca perduta - Tiziano Rossi

mercoledì 30 novembre 2011


Poesie in prosa”, così sono definiti questi scritti di Tiziano Rossi, raccolti in volume nel 2006, con il titolo Cronaca perduta, dalla Mondadori nella collana Lo specchio. Sono piccoli quadretti di vita quotidiana che il poeta milanese registra con distacco ironico, raccontando vicende minime, con il piglio di un’affabulazione quasi favolistica. La cronaca è perduta perché le storie raccontate sono davvero delle inezie: l’inaugurazione di un megastore, l’incontro fra un piccione e un essere umano, il lavoro di un restauratore, una visita oculistica, una sosta in fila in automobile, una battaglia fra volatili per la supremazia … E’quasi prodigioso che da questo materiale minimo Tiziano Rossi tiri fuori un libro interessante, vitale, pieno di spunti comici, dentro i quali però a volte s’indovina un quid di tragicità, ma è la tragicità del quotidiano, che con la sua banalità sembra farsi beffe di noi. E’ la narrazione anche di una ferita che “ ha sfregiato ciascuno sin dalla nascita”, in una vita dove sin da bambini possiamo ambire soltanto a qualche “strozzata sapienza”.

Ciò nonostante, la scrittura appare scanzonata, lieve, quasi divertita, anche quando tratta della follia domestica o metropolitana, c’è sempre un tono quasi ilare, di distanza ironica dalla materia trattata. Le persone raccontate sono definite sgangherate genti “, dall’ ”anima incidentata”. Ci sono domande esistenziali, come questa: “Ci tocca solamente di affaccendarci e subito sparire?”, messe con leggerezza nel testo come segnali di un’inquietudine che non trova sbocchi. Ma questo è un testo che ha toni di commedia più che di tragedia, e sempre un sorriso sornione sorvola le piccole gesta di questa umanità forse delusa, forse un po’ vile, sicuramente avvilita e prostrata dal peso della propria insignificanza. Perché il messaggio di Tiziano Rossi sembra proprio questo: non illudiamoci, la nostra vita è modesta, priva di attrattive e scivola con inerzia verso la fatale conclusione, non ci resta che ridere di noi stessi, della nostra pochezza. Così dentro questa ironia è presente la consapevolezza dell’Assurdo: “La vita della gente è assimilabile a quella degli insetti”. Quello che mi stupisce è che tutto questo sostrato non impedisca al libro di essere leggero; qui c’è più il senso di una fatalità accettata e accettabile, che la perentoria angoscia.

Il minimalismo del poeta milanese pare la conquista di un duro lavoro negli anni, le sue prose poetiche affascinano perché sono riflessioni argute e a volte affilate, scritte con una maestria umile e mai saccente, a comporre una sorta di romanzo a episodi.

Questo romanzo sui generis è popolato ugualmente di esseri umani e di animali, “nostri astrusi cugini”, per cui le vicende di una salamandra, per esempio, non sono molto diverse dalla madre che piange il figlio morto. Credo che sia un tentativo di liberarci dal nostro antropocentrismo, esaminando la vita degli insetti o dei volatili, come fosse la nostra, ugualmente vuota forse, amara a volte, ma quasi mai realmente drammatica. Questo perché la scrittura alleggerisce il dramma, lo demistifica attraverso l’ironia, l’understatement.

In Cronaca perduta sembra raccontarsi ciò che normalmente sfugge al racconto, storie di eventi che la Storia considera insignificanti e che sui giornali non hanno l’onore neanche di un trafiletto. Eventi perduti dunque, che in questo testo diventano centrali, sorretti da una scrittura insieme tagliente e sommessa, che, a tratti con divertita dolcezza, li mette al centro del proprio discorso.

Sole il primo – Odisseo Elitis

mercoledì 23 novembre 2011


“Il sole è il segno magico con cui Elitis esorcizza il male del mondo”.

Kimon Friar

Quello che subito colpisce in questo libretto di poesie, Sole il primo di Odisseo Elitis, tradotto da Nicola Crocetti, è la luminosità, una luminosità dolce e potente, unita a un vago sapore di onde e profumi di Grecia. Questa è una poesia che affonda nell’ebbrezza dionisiaca di un paesaggio di uliveti, vigneti, limoneti, e che si caratterizza da subito come un’interessante, potente, variazione sui temi del surrealismo.

Pubblicati nel 1943, quando il poeta greco aveva trentatré anni, questi versi affondano nel “pulsare della terra” dove però questa pulsazione avviene nel sangue stesso dell’uomo, che si fonde con la natura in un’estasi di completamento, in un’ebbrezza di fusione che lo redime dalla sua condizione di escluso, riconnettendolo potentemente con la sua origine.

E’ una “sete del mondo” che anima il poeta e con lui tutte le creature, una straordinaria passione per la totalità, dove “uccelli adolescenti “ hanno “sete della felicità del mondo” e le api ballano sulla margherita “un ballo sfrenato”e più lontano, lo “sciabordio del mare eterno”. Questa è una poesia che nutre, poesia luminosa che si fa danza di colori ed emozioni dove “ ragazze acerbe” sciolgono i loro capelli “profondi nel futuro” e “nessuna voce si perde in grembo al cielo”.

E’ contemplazione estatica della natura, restituita luogo di purificazione e libertà, luogo di luce in cui ci si può perdere pesantezza e ritrovare unità, sogno, respiro profondo dell’immensità.

Sole il primo è un libretto leggero in cui si respira felicità, gioia creativa, esaltazione panica, e sempre luce ovunque, a dettare il ritmo stesso della vita, purificata dalle sue scorie, restituita nuda come un’esperienza primigenia, esaltante, per cancellare il dolore e giungere al “ricordo della libertà”.

E’ tutta nel ritmo questa vita che splende, come nell’emozionante crescendo della poesia Bambino dal ginocchio graffiato, “fratello minore della nuvola”. Elitis ci conduce dove brucia un “cielo senza fine” dove il paesaggio non è separato dalla mente che lo pensa, ma ne rappresenta la sostanza perenne e immortale. Grande atto d’amore verso il suo paese, le sue isole, i suoi mari, Sole il primo è una testimonianza preziosa di un innamoramento e di una fusione, di un viaggio dentro la Grecia, “terra dell’ulivo e del fico e del cipresso” per restituircene il calore, la luce e la smisurata pace, situata aldilà della città umana, pressoché assente in questi versi, che brulicano di elementi naturali, con cui la presenza umana intesse un dialogo estatico e bruciante. Ed è proprio al fuoco di un bivacco cui il poeta chiede”raccontaci la vita”, perché in queste poesie è proprio l’elemento naturale a conservare il segreto dell’esistenza, l’uomo può solo consultare le nubi, i ruscelli, i monti come fossero oracoli.

Quella che emerge da questa silloge è una poesia oggettiva, che dà voce a tutte le creature, in cui il poeta è solo un veicolo delle forze naturali, un passepartout che apre alla visione di realtà extraumane.

Antirazionalistica la poesia di Elitis è una profonda immersione nella natura, raccontata con toni estatici e leggeri, e laddove la terraferma stanca con la sua pesantezza, abbiamo il sogno del viaggio in mare, vegliato da una “Vergine annunciata” e dove possiamo dire, ebbri del vento che”ozieggia tra i cotogni”, “il destino del sole”. Perché, se anche la lingua s’impiglia a una rosa rossa, il poeta non può tacere e la bellezza della luce lo innalza al canto, alla lode.

“La Bocca ch’è demone, parola, cratere
Cibo del papavero, sangue del dolore
Ch’è cumino alto della primavera
Parla con quattrocento rose la tua bocca
Sferza gli alberi e tutta la terra langue
Riversa i primi brividi nel corpo.”

Elitis racconta un mondo ubriaco di luce e pieno di una vita magica, oltreumana, in cui una ragazza può trasformarsi in arancio, come Dafne in lauro, e in cui incontriamo presenze fatate: le “spose degli abissi,” le chiare Erinni del maestrale”, “le tessitrici del sole”.

Tutto questo per tentare “una liberazione da ogni costrizione” perseguendo la poesia come fosse “una fonte d’innocenza colma di risorse rivoluzionarie”.

Morti, amanti e funerali - Matteo Gennari

domenica 20 novembre 2011


Quello di Matteo Gennari in questo romanzo Morti, amanti e funerali è un piccolo affresco di normalità e anormalità borghese, dove viene creata una dimensione sospesa fra il fantastico e il quotidiano, fra la follia e le convenzioni borghesi. Il destino della protagonista Costanza Giardini è segnato: da buona borghese dovrà ereditare l’agenzia di pompe funebri gestita dalla sua famiglia, rinunciando ai suoi sogni ed entrando in una sorta di routine estraniante, che la priva via via della sua essenza, impoverendola. C’è della comicità in tutto questo, già nella scelta delle pompe funebri, a rimarcare con ilarità e leggerezza il grossolano e gucciniano “tedio- morte” della provincia italiana: il romanzo è ambientato fra Pesaro e l’’hinterland milanese.

Quello di Gennari è un mondo di piccole aridità, di piccole menzogne, di modesta quotidianità, i suoi personaggi si muovono come fantasmi in un mondo opaco, dove la gioia è assente e dove ciascuno è condannato alla solitudine. Le relazioni che Costanza imbastisce sono solo rimedi contro la noia, unicamente la relazione con il padre ha una certa autenticità e fuoriesce dal grigiore della sua vita. Solo che il padre in seguito a un incidente incontra o crede di incontrare lo spirito di un suo amico morto, da allora la sua vita prende una brutta piega. Nel romanzo non è mai chiaro se l’incontro con questo spirito sia frutto della follia o se sia un reale incontro con il sovrannaturale, l’abilità di Gennari consiste nel creare quest’ambiguità. In ogni caso, per la figlia diventa indecifrabile la mente stessa del padre, comunque viene soggiogata dalla fantasie paterne, e spunta anche per lei l’ombra della follia.

Fra spunti tragicomici e gag funebri, fra famiglie che si sfasciano e routine imprenditoriale, Morti amanti e funerali è un romanzo che indaga le vicende di una famiglia borghese, in salsa marchigiana e padana, un romanzo in cui la scrittura è nitida a dispetto dell’opacità che racconta, e che si segnala soprattutto come indagine, in fondo fra il serio e il faceto, di un mondo arido e povero: quello in cui, come i protagonisti di questo romanzo, noi trasciniamo la nostra esistenza, fra sonnambulismo e inconsapevolezza. Ma non è una tragedia: questa è una piccola storia di mediocrità e finzioni, di rinunce e ipocrisie, in cui i personaggi stessi sono come succhiati dal di dentro da un senso di inutilità che però non assurge mai alla dimensione tragica, essi non ne hanno la forza. C’è dunque questa sottile vena ilare nella scrittura, che pare prenderli in giro simpaticamente, mostrando la loro inconsistenza di creature votate a una vita media senza grandi dolori e senza grandi gioie, in cui solo la follia del padre ha risonanze epiche ma anche queste risonanze hanno qualcosa di grottesco. Ma rimane l’ambiguità: Costanza sembra credere al padre più per preservare se stessa che le illusioni del suo idolo infantile.

Fra scrittori pittoreschi malati di sesso e vecchi imprenditori malati di immaginazione, Gennari compie così il suo viaggio nella provincia, restituita luogo di estraniamento e solitudine, in cui, però, bene o male, i fantasmi del quotidiano riescono a mantenere una certa solidità, non si sfaldano totalmente, lasciandoci nel vuoto, ci accompagnano, partecipando del nostro delirio. E’ forse una mancanza di cattiveria, di crudeltà stilistica, o più semplicemente una scelta di speranza, pur nella consapevolezza del grigiore.

Morti, amanti e funerali - Matteo Gennari - Abel Books

Le amanti – Elfriede Jelinek

sabato 5 novembre 2011


La protagonista di questo romanzo Le amanti, scritto dal premio Nobel Elfriede Jelinek, potrebbe essere la provincia, quel luogo in cui le cose si decantano, come scrive Brodskij, che sia la provincia austriaca è quasi un dettaglio. Oppure potrebbe essere Eros, con le sue angosce, le sue spesso fallaci promesse. La scrittrice austriaca prende due vite, quella di Brigitte, operaia in una fabbrica di reggiseni, e quella di Paula, quindicenne che per sfuggire a una vita senza prospettive lotta contro i genitori per studiare da sarta.

Ma il vero protagonista, come sempre capita nella grande letteratura, è il linguaggio, Jelinek ne elabora uno di grande impatto, irruente e sofisticato, giocato sul filo del calembour e del paradosso, indagando la crudeltà dei rapporti, l’insensatezza della vita lavorativa, le ossessioni di queste donne che si aspettano che dall’amore venga fuori il riscatto di un’esistenza altrimenti insignificante. Brigitte ha le idee chiare: accaparrarsi con le unghie e con i denti l’amore di Heinz, futuro imprenditore, per compiere quella scalata sociale che le permetterebbe di sentirsi finalmente un essere umano. Paula, data la giovane età, è più confusa, ma anche lei s’innamora, perché solo l’amore sembra poter dare senso alla sua esistenza di oggetto nella mani di genitori crudeli, per i quali essa è solamente una schiava.

Jelinek indaga la psicologia dei suoi personaggi, mettendo in risalto la meschinità della famiglia, unicamente interessata a sfruttare la forza lavoro dei figli, che siano maschi o femmine non importa, in un contesto in cui i primi sono condannati un lavoro pesante e all’ubriachezza, le seconde alla monotonia della vita familiare e all’incubo della solitudine, giacché questi maschi sono unicamente interessati a soddisfare la propria libidine, sentimentalmente handicappati, poveri di idee e ubriaconi.

E’ una provincia terribile nella sua banalità claustrofobica, i personaggi anche quando dicono di amare sono in realtà animati da un odio profondo, insaziabile, da una noia che li mina nel profondo. Jelinek mima in maniera parodistica il linguaggio della favola, con un tono quasi infantile, soprattutto nella prefazione e nell’epilogo, per far meglio risaltare il profondo divario fra i sogni delle protagoniste e la realtà con cui si trovano a fare i conti, regalandoci un romanzo crudo, cattivo, in cui non ci sono personaggi o sentimenti positivi, e tutta la vita scivola in una terrificante inerzia verso l’infelicità e il fallimento. Tra Eros e brutalità vince sempre la seconda, l’essere umano per Jelinek non ha scampo, e anche quando i sogni si realizzano, si rivelano in tutta la loro miseria come cascami del male di vivere, propaggini di quel tedio e di quell’insignificanza da cui si voleva con tutte le proprie forze fuggire.

Il linguaggio, dicevamo, è la grande forza di questo romanzo, in cui viene descritta quasi con leggerezza sarcastica la misera condizione delle due donne, dominate da maschi violenti e brutali, o semplicemente stupidi ed egoisti, vittime di famiglie in cui la povertà dei sentimenti causa una sorta di letargo idiota, di paralisi imbecille e simile alla morte.

E’ un affresco quello di Jelinek che non lascia spazio a nessuna consolazione e speranza, l’umanità sembra composta d’idioti cui solo la crudeltà conferisce un miserabile alito di vita, ma è una crudeltà animalesca, priva d’intelligenza. Le Amanti, pubblicato nel 1975, è una sorta di romanzo satirico, in cui la satira prende come oggetto la retorica su Eros, che si rivela l’ennesima mistificazione dell’essere umano per non vedere la povertà dei suoi orizzonti. Così Brigitte otterrà ciò che desidera, ma il sogno piccolo borghese della casetta e del negozio è una prigione inquietante, lei, però, non avrà l’intelligenza per capirlo, Paula farà una scelta sbagliata che distruggerà la sua esistenza, intorno a loro la provincia, con la sua stupidità, il suo tedio, la sua folle meschinità.

La crudeltà della scrittrice austriaca sta nel mostrarci gli esseri umani nella loro primordiale e selvatica solitudine, nella loro opaca insignificanza, la loro vita scorre fra piccole e grandi cattiverie, la coatta vicinanza della famiglia è solo una delle tante prigioni e lo spettro di Eros non fa altro che inasprirli e indurirli ulteriormente, facendo baluginare davanti a loro la carota di una felicità impossibile, o così mediocre da rivelarsi anch’essa un incubo.

“ se qualcuno vive un destino, allora non qui. se qualcuno ha un destino, è un uomo. se qualcuno riceve un destino, è una donna. disgraziatamente qui la vita passa, solo il lavoro resta. qualche volta una delle donne cerca di unirsi alla vita che passa e di chiacchierare un po’ con lei. ma spesso la vita va via in macchina, troppo veloce per la bicicletta, arrivederci!”