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Una poesia di Adonis

venerdì 16 agosto 2019





Non sono ancora nato
non nasci veramente
se non fuori dal luogo dove sei nato.

Il punto di incontro tra la luce e me
è un sole nero.

La tristezza
oggi inventa
i miei occhi.

O poeta, ciò che mi rende felice
è che tu sia il mio contrario:
cosa ti fa credere che tu mi assomigli?
come se l’ordine della natura non esista
che per reiventare sempre l’alfabeto del suo caos.

***
da “Prendimi, caos, nelle tue braccia” – Adonis – traduzione di Fawzi Al Delmi – Guanda - aprile 2019

I canti di Mihyar il damasceno - Adonis

sabato 10 marzo 2018





 Il dubbio, l’esilio, lo sradicamento, la mutazione perenne, l’attesa, lo smarrimento, lo smarrimento soprattutto, sono gli attributi di Mihyar, il “santo barbaro” di questo poema o prosimetro del poeta siriano naturalizzato libanese Adonis, I canti di Mihyar il damasceno , che Mondadori ha proposto  nella traduzione  di Fawzi Al  Delmi nel giugno 2017.  

È un libro originariamente pubblicato nel 1961, che diede fama al poeta in tutto il mondo arabo. Quasi ogni sezione di poesie è preceduta da una prosa, intitolata significativamente  Salmo, a rimarcare la sacralità dell’operazione. Ma è un sacro ambiguo quello che persegue Adonis, sulle orme di Nietzsche e del suo Zarathustra di cui Mihyar è evidentemente una rielaborazione.

Cogliamo sin da subito la densità oracolare e le suggestioni misteriche di questa scrittura vertiginosa. Quasi a ogni riga, in ogni passo di questo arduo cammino,  intravediamo una rivelazione e siamo in attesa e con il fiato sospeso. “Là dove passo scendono le cascate di un altro mondo”,  “E’ la realtà e il suo contrario,  la vita e ciò che non lo è”,  Sono la ferita del divenire”, così si definisce o viene definito Mihyar ma ogni definizione è solo un passaggio, perché in definitiva egli è un flusso di contraddizioni, un fiume che trascina immagini, maschere, specchi, miti, archetipi, da Sisifo ad Adamo da Noè a Satana, da poeti arabi come Abu Nuwas a Ulisse, da Diogene il cinico a Orfeo,  in quello  che si configura come un dialogo fra questa condensazione di personaggi e la “lingua dispersa/ […]/ nell’arcipelago dell’antica caduta.” Un dialogo fra culture, quella araba e quella greca, quella cristiana e quella ebraica, fra  il paganesimo e l’ateismo, con il Dio morto nietzschiano a fare da garante di questa dissoluzione. Perché tutte queste culture si dissolvono in un’unica figura, questa di Mihyar, colui che “vive nel reame del vento/ e regna sulla terra dei misteri”.  

Qui viene adombrata l’idea eliotiana del poema come sintesi suprema di filosofia, poesia, religione, mitologia, così pare titanico lo sforzo di Adonis di trovare una formula che metta in connessione ciò che in apparenza è lontano. Così la sua lingua è densa di analogie, echi, allegorie, invocazioni, evocazioni, sintesi altamente densa di contenuti culturali e psichici divergenti. Da qui la modernità sconcertante e predittiva dell’insieme. Perché questo testo,  come tutti i capolavori,  a distanza di quasi sessant’anni non ha ancora esaurito la sua forza di testimonianza dell’enorme frammentazione e disgregazione della cultura, anticipando anzi con forza visionaria la mescolanza,  l’ibridazione e la fusione in atto oggi a tutti i livelli.

Libro in cui la sacralità è presente ma che rifiuta ogni codifica di questo processo come dimostra la poesia intitolata Dialogo, dove Mihyar, messo davanti alla scelta fra Dio e Satana, non sceglie nessuno perché “ambedue sono muro/ ambedue mi sigillano gli occhi,/ dovrei cambiare un muro con un muro?” . La sua scelta è l’incertezza, perché essa illumina meglio il percorso, l’incertezza è propria del saggio che “sa  ogni cosa”. Antinomia, paradosso, che avrebbe potuto proferire Zarathustra. Così Mihyar va aldilà del bene e del male, cancella “la lingua del peccato”, oltrepassa Dio e Satana, sconfigge ogni dualità, armonizza gli opposti, fonde grazia e crimine, rende indistinguibile la trama di cui il mondo è tessuto, in questo modo arrivando alla profondità di una verità che forse uccide  o rende folli. Ancora una volta è Zarathustra di cui sembra risuonare il suo “Amici io v’insegno l’oltreuomo. L’oltreuomo è il fulmine e la demenza.”

Questa è una scrittura di vibrazioni,  di oscillazioni fra il sacro e il profano,  di veloci immersioni e subitanee riemersioni in cui la parola è scavata e fatta esplodere, sospesa su una fune sopra il silenzio, immaginifica fino a disegnare arcobaleni, abbagliante e insieme incline alla penombra,   la pagina di Adonis  pare la tavolozza di un pittore che sa usare i colori in tutte le loro sfumature. La parola che più designa questo straordinario poema è:  arabesco, laddove però alla cultura araba Adonis fonde un’idea occidentale di letteratura, raggiungendo a forza di fusioni l’universalità propria della poesia più profonda.

Il poeta,  incantatore della polvere”, vive  nelle parole che dona a un “mondo cieco” di cui non può o non vuole più essere la guida. A Mihyar non resta che essere presagio di un “dio che verrà”, abitare da poeta il nomadismo di “parole vagabonde”, abitare la sua patria che è il lontano, il fuggevole, “riconciliare gli dei ciechi/ e gli dei veggenti/per un’ultima volta”, sprofondando nello smarrimento, nello smarrimento che è “splendore” mentre “il resto è maschera”.

Una poesia di Adonis

mercoledì 7 marzo 2018





Dialogo

-Chi sei, chi scegli o Mihyar?
Ovunque ti dirigi c’è Dio o l’abisso satanico
un abisso va, un abisso viene
il mondo è una scelta.

-Non scelgo né Dio né Satana
ambedue sono muro
ambedue mi sigillano gli occhi
dovrei cambiare un muro con un muro?
La mia incertezza è quella di chi illumina
è l’incertezza di chi sa ogni cosa…

***
da “I canti di Mihyar il damasceno” - Adonis- traduzione Fawzi Al Delmi – Mondadori - giugno 2017

Una poesia di Adonis

sabato 25 marzo 2017





Origine del discorso

Quel bambino che ero, è venuto a me
una volta,
volto sconosciuto.

Non ha detto nulla. Abbiamo camminato
ciascuno di noi fissava l’altro in silenzio. I nostri
passi
erano un fiume che scorreva sconosciuto.

La radici ci hanno riuniti in nome di queste foglie
che vagano nel vento,
poi ci siamo separati
come un bosco scritto dalla terra  e narrato dalle
stagioni.

Tu bambino che ero, avvicinati:
che cosa ci unisce, adesso, che cosa diremo?
***
da “Memoria del vento”- Adonis- traduzione di Valentina Colombo- Guanda- 2005

Memoria del vento - Adonis

sabato 4 marzo 2017






Adonis perfeziona una lingua sospesa fra surrealismo e una molto contemporanea scarnificazione della parola. Arriva a condensare una miriade di concetti, impressioni, sensazioni,  in pochi versi.
 Prendiamo qualche riga presa dal poemetto in prosa  Tomba per New York, contenuto in questo Memoria del vento, nell’edizione Guanda del 2005, tradotta da Valentina Colombo e introdotta da Giuseppe Conte:

“Tra Harlem e Lincoln Center,
avanzo come un numero smarrito in un deserto ricoperto dai denti di un’alba nera. “

Sono immagini potenti che costituiscono da sole una descrizione esatta di quello che proviamo in quanto uomini contemporanei nel contatto con la metropoli,  New York in questo caso,  dove il poeta passò un periodo della sua vita.

Alla città americana, simbolo di un occidente consumistico, alienato e nichilista, Adonis, siriano naturalizzato libanese,  contrappone Beirut, città amica della sua giovinezza, luogo per cui il poeta  nella parte finale di questo poemetto, pubblicato nel 1971,  invoca la pace. Invocazione che non fu ascoltata dal destino, che inflisse negli anni fra il 1975 e il 1990 alla città libanese  un periodo di  sanguinosa guerra civile.

Adonis  è definitivo nel descrivere una città come New York  e vedere in essa il simbolo di quell’Occidente che con una mano solleva ”la pezza che chiamano Libertà” oppure agita i “fogli che noi chiamiamo Storia” mentre con l’altra “strozza una bambina che si chiama Terra”.

Così con una sorta di dizione biblica, Adonis già al principio degli anni Settanta partecipa della contemporanea disfatta di ogni discorso ecologico, in nome di un’entropia causata dall’inesausto macinare e rullare di quel grande macchinario che è la Storia. Macchinario al servizio della Tenebra, probabilmente.

New York è il simbolo di un mondo alienato,  come già in Ginsberg che scriveva di un Moloch fatto di carne e metallo, Adonis conferma che si sacrificano uomini al “grande idolo” cui sono devoti coloro che detengono il potere,  come Richard Nixon, presidente degli Stati Uniti al tempo in cui il poemetto fu scritto,   esecrato  ripetutamente dal poeta.

Colpisce la modernità di questo poemetto, modernità di contro-inno, dedicato a una città enorme e orribile per Adonis,  che in essa vede “ uno specchio che riflette due volti: Nixon e il pianto del mondo “,  in un’ America che ha tradito la sua iniziale propensione alla libertà e  in cui il poeta invoca prima Lincoln, poi Whitman, come per trovare una comunanza ideale, con spiriti a lui affini.

Così la città  è raccontata come un incubo in cui si materializza un’equazione inquietante :

“New York + New York= la tomba oppure qualsiasi cosa provenga dalla tomba.
New York – New York= il sole”

Così Adonis configura uno straordinario atto d’accusa contro una città  che è simbolo di un mondo oltre ogni limite,  capitalismo in delirio, tumulto di folle e perdizione del numero…

La nostra è un’epoca di distruzione, in cui gli Stati Uniti hanno un ruolo fondamentale nel perpetuare l’orrore e la guerra. New York è qui  tratteggiata come un incubo, c’è un certo surreale espressionismo all’opera  ma anche riflessioni politiche, letterarie, filosofiche.
Ecco un tema potente:

La battaglia si svolgerà fra l’erba e i cervelli elettronici.”

Qui dove la città è un “esercito di lacrime” e si perpetuano delitti, New York è colpita al cuore da un profondo sgomento. La dimensione allegorica aumenta sempre più in questo poemetto, che appare in definitiva  un importante memento per la nostra collassante civiltà.  Si annega nel melmoso anonimato della folla, si vaga spettrali in un panorama di palazzoni ancora più spettrali, una violenza spaventosa aleggia  sull’orlo di un perenne Delitto assurto al rango di Divinità nera. Tutto questo trova a New York il suo vertice, esplode. Ma lo scenario può cambiare improvvisamente ed ecco spuntare una considerazione illuminante sulla parola, sulla sua natura profonda:
  
“La parola è più leggera di un oggetto  e trasporta ogni cosa. L’azione è una direzione e un istante, la parola  è tutte le direzioni  e tutto il tempo, la mano,  la mano, il sogno”.

Le altre poesie di questa raccolta testimoniano di una ricerca fra le più vibranti della nostra epoca, in cui la metafora diventa spazio di una reinvenzione del mondo, come nota Giuseppe Conte nell’introduzione. Ma queste pur belle poesie, però,  non hanno sempre  la forza di  Tomba per New York,  sono poesie interessanti ma che a volte smarriscono il filo d’Arianna e ci spostiamo allora in un labirinto di miraggi a volte troppo surrealisticamente deformati e deformanti.  Molti di questi sono comunque versi giovanili di un poeta ancora in cerca della propria voce profonda.

Altrove il poeta è insieme” profeta e insinuatore di dubbi” o ancora ” incantatore di polvere, vittima di una sorta di “febbre profetica” i cui canti sono ”scintille”.

Adonis fonde la poesia araba con quella occidentale, muovendosi fra Rilke, Holderlin, Baudelaire e altri,  creando questa lingua di grande precisione visionaria.

 Tomba per New York mi sembra la manifestazione più potente e compiuta,  fra le opere qui antologizzate - insieme alla poesia Origine della distruzione  e la sublime Origine del discorso, entrambe  del 1980 - e rivela in  Adonis una voce fondamentale, una voce autorevole  per capire il nostro tempo, in cui le voci si moltiplicano a dismisura e allora si salvi chi può. “Abracadabra vociferante” lo chiamava Montale.