Yves Bonnefoy ne Le assi
curve esplora minuziosamente una serie di paesaggi naturali, che contempla
e di cui coglie la natura simbolica. La
speranza è che bellezza e verità si fondano in un unico corpo e che il
risultato di questo procedimento sia una quiete magica, profondamente terrestre
e non ultraterrena o metafisica. La versificazione del poeta francese, tradotto
per Mondadori da Fabio Scotto, è agita all’interno da una profonda calma e da
una saggia pazienza, che a un primo ingannevole sguardo possono anche essere
scambiate per sterilità creativa.
La poesia di Bonnefoy funziona
maggiormente nella rilettura, perché è necessario familiarizzare con la ricerca
di leggerezza del poeta francese, aldilà dell’invadenza della parola, infatti,
il suo occhio registra oggettivamente il dato naturale che acquista dimensioni
epiche ma è un’epica in minore, appena accennata, sussurrata. La sua è proprio
quella “voce che porta dell’essere
nell’apparenza.”
Le assi curve è il titolo di
una sezione, e viene utilizzato, credo, con lo stesso intento di smorzare i
toni e ricondurre la poesia alla sua semplicità. Allora Bonnefoy procede con “la maestà delle cose semplici” non
scrivendo in questo caso una poesia immaginifica e vorticosa ma creandone una
quieta, umile e insieme solenne, che pare un’investigazione dentro e oltre i
limiti e gli inganni della parola. Il cuore del libro è lo straordinario poemetto Nell’inganno
delle parole, dove Bonnefoy esplora con piglio filosofico proprio le menzogne
del linguaggio che fanno tutt’uno con le illusioni fallaci del desiderio.
Emozionante l’invocazione che il poeta rivolge alla poesia stessa:
“O poesia,
Io so che ti disprezzano e ti negano,
Che ti considerano un teatro, perfino
una menzogna,
Che ti gravano degli errori del
linguaggio,
Che dicono infetta l’acqua che tu porti
A quelli che tuttavia desiderano bere
E delusi si allontanano, verso la
morte.”
La voce di Bonnefoy non vuole
essere dissimile dalla natura che racconta, vuole assomigliare al fluire del
fiume, allo sbocciare di un fiore, evento in sé naturale ma per far questo è
necessario vedere in faccia tutte le mistificazioni della parola. E’ così sul
confine fra verità e inganno, la natura raccontata da Bonnefoy è una natura
salvifica, che non inquieta, e che sembra amica dell’uomo e della sua ricerca
di bellezza. Poesia dipinta pare questa, poesia in cui ammiriamo un’alba,
capace di accoglierci ogni giorno e di benedirci.
In questo libro, uscito in
Francia nel 2001, Bonnefoy non scruta dentro le ferite e dentro le inquietudini
dell’essere umano, piuttosto raffigura per noi un affresco di pace cosmica, che
sembra frutto di una riflessione che ha raggiunto la piena maturità.
Quest’operazione presenta naturalmente alcune lacune: talvolta si percepisce una
certa frigidità del dettato poetico, bello ma asettico, si nota la quasi totale
mancanza del grido, che in poesia ha una centralità mitica (vedi Rimbaud cui
Bonnefoy ha dedicato qualche anno fa un saggio), poi vi è la tendenza a far
tacere le contraddizioni della Natura stessa che non è mai, mi pare, percepita
come matrigna ma di cui si esprime la ieratica benevolenza.
Certo una sottile inquietudine
affiora talvolta a scalfire quello che potrebbe essere un idillio, ma non è
un’inquietudine viscerale, dionisiaca, tutto è filtrato da una razionalità che
smorza i toni e riconduce tutto alla misura. Ecco, se si ammira la saggezza di
Bonnefoy, la sua filosofica accettazione dell’oblio e della caducità, che non
viene quasi mai meno, si rimane dubbiosi circa la sua ritrosia a raccontare lo
smisurato del dolore umano, alla maniera di Baudelaire o di Leopardi. Più
vicino per indole alla poesia misurata di un Mario Luzi, Bonnefoy è consapevole
che la sua è un’operazione letteraria e come tale ingannevole. La pioggia
estiva, gli alberi, il fiume, il sottobosco, il pietrisco, sono figure viventi
di un linguaggio di segni che raccontano sostanzialmente la bontà della natura.
Tutto questo ha per me accenni di consolatoria illusione.
La natura di Bonnefoy pare,
perciò, un po’ troppo idilliaca per essere reale. Più che la realtà con le sue
lacerazioni, mi sembra che Bonnefoy racconti un’idea iperuranica, anche se il
poeta è molto concreto nelle sue immagini e sembra non indulgere alla
metafisica. Ciò non toglie che Le assi curve
sia una bella lettura, a tratti splendida, e che ci disseti alla fonte di una
sapienza oracolare; diversi sono, infatti, gli apoftegmi che sintetizzano
labirinti di pensiero. Bonnefoy è un poeta che pensa, questa è la sua bellezza,
un poeta che contempla e preferisce la contemplazione alla frenesia. Egli sosta
in un territorio fra veglia e sogno e la sua scrittura ipnagogica sa sedurci
con la tranquillità olimpica di un classico, che alle contraddizioni della
temporalità preferisce la quiete dell’atemporale. Forse solo un grido si alza
in tutto questo libro leggero, un grido contro la provvisorietà dell’esperienza
umana, un grido contro la morte, nella poesia intitolata Che questo mondo rimanga! dove sorge un’implorazione: che il mondo
intero duri, pur nella sua disarmonia.
“O terra,
Segni disarmonici, sentieri
sparsi,
Ma bellezza, assoluta bellezza,
Bellezza di fiume,
Che questo mondo rimanga,
Malgrado la morte!”