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In morte di Roberto Calasso

venerdì 30 luglio 2021


 


Con Roberto Calasso ci lascia un gigante della cultura europea e un editore di grande intelligenza. Su questo blog potete trovare riflessioni su alcuni suoi libri cliccando sul suo nome sotto.

Ettore Fobo

 

L'impuro folle - Roberto Calasso

sabato 20 novembre 2010


L’impuro folle è un libro stranissimo- già è complessa la sua definizione, romanzo? saggio? parodia?- Calasso ultimamente per alcuni suoi lavori ha usato il termine”narrazione”- e si configura come un’operazione di destrutturazione dei generi, con inserti poetici, che fanno da coro a quella che è un’immersione dentro uno dei deliri più discussi nel secolo scorso: quello del presidente di corte d’appello Schreber. Scrivere sull’orlo di una psicosi, per vederla attraverso la lente della letteratura e non solo quella della psichiatria, attraverso la lente della mitologia e non esclusivamente con quella della psicologia, ecco cosa fa Calasso in questo testo pubblicato originariamente nel 1974.

La mitologia dello psicotico passa per essere una questione personale, Calasso mostra invece i profondi echi universali che sono alla base di quelle che potrebbero parere solo farneticazioni, da qui le stranezze della sua prosa, ricca di riferimenti culturali quasi esoterici, per iniziati. E’ di tipo iniziatico pare la follia del presidente Schreber, che sul finire dell’Ottocento si trovò ad assistere alla “lacerazione dell’Ordine del Mondo”, vale a dire all’irruzione di un principio femminile nell’ ordito della mente. Freud ne studiò il caso e a partire da esso fondò la sua teoria sulla paranoia. E Freud è uno dei personaggi del romanzo, insieme allo psichiatra Flechsig, che si occupò del presidente, il cui delirio lo porta ad avvertire in sé la progressiva trasformazione in donna, “donna fottuta”, dentro una complessa architettura di significanti religiosi, in una insensata proliferazione di doppi, per cui anche Dio si sdoppia- come nella religione di Zoroastro - , in Ormuzd, principio positivo e Ariman principio negativo. Dio che per secoli nella mente di Schreber ha avuto contatto solo coi cadaveri e successivamente ha scontato una terribile attrazione per il vivente, Dio che viene assassinato come nella profezia nicciana, ma che non smette da morto di subire la sua fascinazione per il vivente.

La prosa di Calasso registra le pulsazioni dell’insondabile, operando una costante contaminazione fra i linguaggi, mescolando citazioni di Rimbaud e Nietzsche a considerazioni di anatomia, mitologia, esoterismo, mischiando le lingue, latino, greco antico, francese, tedesco, inglese.

La materia è oscura come la mente, colta all’apice della sua disintegrazione, se il mistero della follia è il terreno in cui germoglia la letteratura, Calasso non è una guida dentro il labirinto, ma il labirinto stesso, lo smarrimento e lo sgomento sembrano essere i suoi messaggi.

Romanzo metafisico, L’impuro folle è un’avventura dentro il segreto della mente, sembra nascondere in sé spazi di ermeneutica non soggetti ad alcuna disciplina; così lo psichiatra Flechsig, pur essendo forte della sua scienza, non può che fare un oscuro riferimento all’anima, Freud delira quanto il presidente Schreber, ma il suo delirio non si chiama follia, si chiama verità scientifica, per cui l’analista sembra essere il doppio del paziente, e la sua scienza caricatura del delirio. Assistiamo così agli “ultimi giorni dell’Io”, al dispiegarsi di forze occulte, mentre il “malato di nervi”assume la forma di Sophia Gnostica, divenendo un essere mitologico che vaga per il mondo incontrando esseri femminili stravaganti, schizofrenici riuniti in pittoreschi club, e addirittura Tiresia, condannato come lui per aver rivelato un frammento del grande segreto del femminile.

Il testo è una variazione esoterica sul tema di Dio, degli dei, dell’eterno femminino, un volontario ensemble caotico di misticismo, follia, razionalità, dove però tutto sembra precipitare in farsa, a tratti gioiosa, a tratti cupa, sempre indecifrabile, perché se tutto si sfalda, se l’ordine del Mondo si è lacerato, non rimane che una materia vischiosa e forse avvelenata: la letteratura, che smette di interpretare la follia e si confonde con essa.

La Folie Baudelaire- Roberto Calasso

mercoledì 28 gennaio 2009

L’oscurità naturale delle cose

La Folie Baudelaire non è solo un'indagine accurata della vita del poeta , ma l’acuta analisi di un ottocento francese visto attraverso altri suoi artisti da Delacroix a Ingres, da Rimbaud a Manet, da Flaubert a Degas, cui sono dedicati dei capitoli o delle digressioni . Io mi occuperò soprattutto del tentativo di sviscerare i il tema principe: Baudelaire.

Solo la prosa raffinata e nitida di Calasso poteva restituirci il fascino e il mistero dell’artista de I fiori del male e mostrare oltre ogni ragionevole dubbio la centralità della sua esperienza, analizzando minuziosamente la natura magmatica dei suoi scritti, soprattutto le lettere; per far vedere come ai nervi stessi del poeta, alla sua sensibilità esacerbata, spettasse il compito di registrare tutto ciò che dalla vita e dalla poesia, fino alla sua comparsa, sembrava essere stato estromesso, per pudore, per ignoranza o piuttosto, come suggerisce Calasso, per un'impossibilità fisiologica di mettere a nudo, di esercitare quello sguardo lucido e disincantato che fu la prerogativa formidabile del poeta francese.

Così Cioran ha potuto intitolare un capitolo di un suo libro, Da Adamo fino a Baudelaire, a significare lo scarto rispetto al passato che l’autore dei I Fiori del male rappresenta, la sua unicità davvero inesplicabile. Questo scarto è rappresentato, tra le altre cose, da quella che Calasso chiama antenna metafisica, che Baudelaire possedeva in sommo grado, la capacità cioè di ritrovare l’unità, la corrispondenza, l’analogia fra fenomeni diversi. In questa ricerca di assoluto non sporcato dall’invadenza di una natura che Baudelaire ha visto sempre con sospetto, il poeta incappò così in una vita fatta di umiliazioni anche gravi, tra tutte l’interdizione a opera del patrigno e della madre e la custodia coatta affidata al risibile notaio Ancelle, da cui dipendeva anche per pochi franchi, o ancora il processo per oscenità subito da I fiori del male. Questa congenita mancanza di denaro di un Baudelaire, subissato dai debiti e sempre alla ricerca di quattrini, rappresentò lo scacco più grave di un’esistenza che fu avvolta anche nelle spire velenose di uno spleen, che solo il consumo di oppio e di hashish sembravano poter alleviare.

Così Calasso passa dall’analisi delle’epistolario con l’equivoca Madame Sabatier alla descrizione di alcuni aneddoti della vita privata dell’artista, all’analisi stilistica delle poesie, conservando in tutto questo una straniante unità, quando il rischio di smarrire il filo era sicuramente incombente, visto che Calasso giustappone gli episodi in maniera a volte caotica, per far risaltare come dice il titolo del primo capitolo, che è una citazione da Baudelaire stesso, l’oscurità naturale delle cose. Con una grande capacità di ricostruzione Calasso fa così rivivere i personaggi che ruotarono intorno all’artista francese, presentandoli sempre attraverso le parole del poeta. Fra tutti i personaggi il già citato Ancelle, con la sua ridicola pomposità, la sua lentezza espositiva capace di strappare la pelle dalle ossa al povero Baudelaire, risultando così del tutto adatto al suo ruolo di carnefice, l’oscura figura che con le sue indelicatezze gravava sui nervi troppo sensibili del poeta.

Anche il rapporto con Madame Sabatier amore epistolare di Baudelaire getta una luce sinistra sulle vicende psichiche dell’artista, incapace per anni di rivelarsi per nome e cognome all’amata, di cui temeva soprattutto la disinvoltura con cui si circondava di amanti, per i quali ella, scrive Calasso, aveva sempre una parola buona, nonostante loro la trattassero spesso con modi scurrili e licenziosi. Baudelaire si nega a tutto ciò, diffidando della passione che, in una lettera, definisce ignominiosa(e in molti brani del Il mio cuore messo a nudo e qua e là in tutta l’opera). Centrale è il rapporto con la madre costellato di continue richieste di denaro e proclami di una fedele adorazione più da amante, che non da figlio, in un percorso che in epoca post freudiana è facilmente riconducibile alle solite, e un po’ fruste, problematiche di natura edipica. Non è infatti la devozione filiale a guidarlo, ma la passione, le scrive in una lettera in cui , dopo la morte del patrigno, si propone di prendersi definitivamente cura di lei, con un commovente slancio affettivo, poi definito, in maniera ancora più commovente, una stoltezza da vecchio.

Il poeta visse dunque una vita amara, da cui però seppe estrarre l’oro di numerose folgoranti intuizioni che, scrive Calasso, si trovano ovunque, dalle lettere agli scritti critici, frasi che nate da un impulso dei nervi si isolano dal contesto per conservare tutta la loro potenza di rivelazione; tracce di una sensibilità nuova che oggi, a distanza di centocinquant ’anni, conservano la loro fredda luce sinistra, per coloro che su questo itinerario si incamminano, per sapere com’è può essere duro sentirsi vivi, al di là di tutte le posticce retoriche consolatorie. Emblematica una frase di Baudelaire che in una lettera si augura che alla dichiarazione dei diritti dell’uomo siano aggiunte due opzioni, Il diritto a contraddirsi e il diritto ad andarsene, segno di quella insofferenza verso la propria epoca e in generale verso l’umanità che è ciò che tra le altre cose fa ancora di Baudelaire, per usare i suoi stessi versi, un nostro simile, un fratello. Perché non sono gli adoratori della specie umana o della natura coloro che fanno ad esse un vero servigio ma coloro che, come il poeta francese e aldilà di tutti gli infingimenti, strappano loro la maschera e ne mostrano l’orrore, senza edulcorarlo, lasciando respirare questa angosciante rivelazione in versi musicali, e in invettive crudeli e profonde di amare disillusioni. Ci restituiscono così la sostanza stessa di quell’inquietudine, che noi chiamiamo vita.

Il capitolo si conclude con la ribadita centralità della figura di Baudelaire, precursore di tanta sensibilità moderna. Evento di nervi e intelletto indissolubilmente legati, colui che scriveva “con furore e pazienza”poesie in cui si esaltava il culto della forma e soprattutto dell’immagine.

Baudelaire e due pittori del suo tempo
Nei capitoli seguenti il discorso si sposta verso la pittura in particolare Ingres , e Baudelaire viene citato per i suoi scritti critici. Viene dunque analizzata la rivalità dell’epoca fra Delacroix e, appunto, Ingres ,nella quale il poeta si schiera decisamente dalla parte del primo, sorta di alfiere di una nuova sensibilità pittorica, anche se Calasso nota che le pagine più interessanti Baudelaire le scrive criticando anche aspramente il lavoro di Ingres. L’acutezza delle sue affermazioni di critico gettano una luce definitiva su entrambi i pittori. Calasso quindi mischia le carte sovrapponendo le vite di questi tre artisti, in caleidoscopio di aneddoti e riflessioni che mirano a dare il senso di un’epoca. Ne vien fuori tutto il mistero che circonda la pittura, atto veramente magico, che crea qualcosa che assomiglia all’impossibile altrove così spesso ricercato dai poeti, trasfigurando i corpi, i vestiti e conferendo loro un aspetto di rivelazioni incongrue, di bagliori di metafisiche fiammelle, sospese a illuminare una scena anche banale, come nel caso del letto disfatto di Delacroix, ma che in virtù del procedimento formale, unito a una passione, si trasformano in epifanie misteriose. Il Baudelaire critico d’arte ha soprattutto il credo dell’immaginazione: “regina delle facoltà” e idiosincrasie verso una pittura scevra, come quella di Ingres secondo lui, di questo soffio vivificatore.

Il sogno del bordello-museo e Kamcatka

Nel terzo capitolo Calasso comincia a descrivere un sogno di Baudelaire, l’unico di cui esista una dettagliata descrizione per opera del poeta ed è ancora un sogno in cui l’umiliazione gioca un ruolo predominante. Lo descriverò sommariamente. Baudelaire si ritrova in un bordello, con il duplice scopo di regalare il libro di una sua non specificata opera alla maitresse e di abbordare una ragazza della casa. Inizialmente scopre di avere il pene fuori dai pantaloni e si sente indecente poi ci accorge anche di essere senza scarpe e oltre tutto si bagna i piedi in una pozza d’acqua e questo lo induce a vergognarsi profondamente, succesivamente le scarpe gli ritornano e in seguito passeggia intimidito per delle gallerie che sembrano infinite; si imbatte in uno strano museo dove a immagini oscene si alternano disegni e fotografie di uccelli variopinti, figure egizie, immagini di feti partoriti dalle ragazze della casa, finché incontra un essere mostruoso, specie di statua vivente del museo, con una sorta di appendice che gli avvolge tutto il corpo, una specie di coda lunghissima, forse di caucciù, che nasce dalla testa. Questi parla con il poeta della sua triste situazione e al risveglio Baudelaire sente di aver dormito in un contorcimento simile a quello del mostro, si identifica con esso. Viene in mente Gregor Samsa che si ritrova ,sempre dopo il sonno, trasformato in uno scarafaggio. Per Calasso è la condizione per delle riflessioni che servono a tratteggiare ancora una volta la figura del poeta intorno al tema dell’oscenità , e come questa sia inerente alla vita stessa e si profilasse in Baudelaire come una vera e propria vergogna d’esistere.

Giacché tutto, come Baudelaire scrive ne Il mio cuore messo a nudo, tutto è prostituzione, affermazione perentoria e provocatoria, e neanche la scrittura si salva perché a un certo punto il libro che deve regalare, gli pare osceno, quasi in una prefigurazione della sorte riservata a I fiori del male. Ma è bizzarro che in luogo dedito all’oscenità Baudelaire si senta imprigionato in una situazione umiliante e sia lui a recare l’indecenza nel bordello prima con l’esibizione del pene poi con la nudità dei piedi, e infine la tensione del sogno lo porta addirittura a identificarsi con un mostro.In esso Baudelaire rispecchia la sua noia e probabilmente la sua condizione di esiliato, esposto come il mostro alla curiosità e forse agli strali della folla. Calasso sembra suggerire che questa sia in realtà la sua vera condizione, forse addirittura desiderata, quella di umiliato, spossessato o se non altro come Baudelaire percepiva se stesso. Vengono in mente i versi de Lo spleen di Parigi, in cui il poeta perde l’aureola nel fango e dopo un po’ di riflessioni, decide di non raccoglierla. Ed è dunque di fango la condizione umana? Sembrano dire queste parole e questo sogno mi pare sia annidato nella stessa lacerazione. La salvezza però è affidata alle immagini e si percepisce come nel sogno Baudelaire si abbandoni ad esse, gironzolando per questo museo, recuperando la sua parte preferita, scrive Calasso, quella dello spettatore estetico che però, per sua stessa ammissione, non possiede una chiave interpretativa adatta. Così la narrazione del sogno si configura come letteratura pura, rendendo un disagio perfettamente umano, con uno stile sobrio e scarnificato.

Dopo aver scritto di Manet, Degas, Rimbaud e altri l’ultimo capitolo viene riservato ancora a Baudelaire. Ancora una volta viene raccontato uno degli smacchi principali subiti dal poeta: il mancato ingresso nella Accademia delle lettere, L’Acadèmie. Con un tono celatamente sprezzante Saint- Beuve, autorevole scrittore ed eminenza grigia della letteratura di allora, liquida la sua candidatura come una beffa. Ma perché in mezzo ad altri candidati, oggi completamente dimenticati ,il nome di Baudelaire suscitava quasi un’eco di scandalo? A parte le invidie del vecchio scrittore per il più giovane di talento, ci sono nello scritto di Saint- Beuve affermazioni che chiariscono quale fosse la posizione di Baudelaire in seno alla società delle lettere. Emanava da lui una strana aria esotica,da steppa asiatica, un pericoloso miscuglio di boheme, dandysmo e voluttà, tanto che Sant-Beuve ironizza sui costumi del poeta inventandosi il termine di Folie Baudelaire che dà il titolo al libro e che sarebbe un luogo di ozio e piacere equivoco e parla di lui come una zona di steppa ai limiti dell’Asia, come un’ intelligenza bizzarra, a cui non manca aggiunge per riabilitarlo ironicamente, la buona educazione, dato che in Baudelaire forse ci si aspettava una specie di selvaggio. Non essere preso sul serio come candidato deve essere stata per Baudelaire una delusione feroce e gli avrà confermato l’idea della sua impresentabilità in mezzo al consiglio degli eletti, e come testimoniano i famosi versi de L’albatro, la sua impossibilità a stare nel mondo con le sue ali da gigante, e di dover convivere unicamente con il proprio sguardo di lucidità,ferocemente intriso di melanconia e chiaroveggenza.

Calasso
così compie il suo avventuroso periplo intorno alla figura di Baudelaire, in una ridda di nomi altrettanto grandi, fra divagazioni intorno all’enigma della letteratura e dell’arte e si esce dal libro, che è un indubitabile atto d’amore, con la consapevolezza che pochi hanno saputo far parlare la vita, anche nella sua doratura più oscena e scabrosa, come il poeta francese de I fiori del male e de Lo spleen di Parigi. Ha voluto essere decadente, cioè” una singolarità che recide i legami con tutto il sociale, rifiutando di essergli funzionale.” E questo è stato forse il suo atto più osceno.