Pape Satàn Aleppe - Umberto Eco

lunedì 28 marzo 2016







Nonostante sia una lettura piacevole e anche istruttiva ho il sospetto che quest’ultimo saggio di Umberto Eco, Pape Satàn Aleppe, edito dalla nuova casa editrice La nave di Teseo, all’indomani della sua morte, non verrà annoverato fra le opere più importanti del grande intellettuale. Ho detto saggio ma si tratta di una raccolta di scritti giornalistici, pubblicati sull’Espresso nella sua famosa rubrica “La Bustina di Minerva”.  Gli scritti non sono ordinati cronologicamente ma per tematiche.

Raccolta ponderosa, forse persino troppo, di divagazioni, divertissement, riflessioni, intorno  a quella che Eco, sulla scorta di Zygmunt  Bauman, chiama società liquida, la nostra. Cronache di una società liquida è, infatti,  il sottotitolo del libro. Non si tratta di scritti particolarmente profondi dunque, ma di semplici fotografie del presente, un presente babelico e forse incomprensibile come il verso dantesco scelto come titolo, che,  com’è noto,  è considerato espressione priva di significato.

Eco,  quindi,  già nel titolo confessa la propria difficoltà a districarsi fra gli enigmi che questa società liquida gli pone innanzi. Primo fra tutti Internet: come rapportarsi a esso, come considerarlo? Eco riconosce sostanzialmente che il web è ormai la dimensione in cui siamo calati, piena di insidie, trucchi, menzogne spesso indistinguibili dalla verità, fandonie mescolate a cose preziose. Il suo invito è saper effettuare una discriminazione, imparando a discernere fra contenuti falsi e ingannevoli quelli invece meritevoli di attenzione. Qui la scuola è chiamata nuovamente a giocare un ruolo fondamentale. Per uno studente, per esempio, saper copiare bene è un’arte da non disprezzare, ci ricorda Eco, ma bisogna saper scegliere  contenuti attendibili, per non perdersi nel mare magnum di Internet è necessario separare le bufale e le inesattezze,  di cui Internet è colmo, dalla verità storica e dalla precisione scientifica.

Qui  la mediazione degli esperti diventa necessaria ma a volte  anche loro sono inadatti al compito perché il sapere è parcellizzato, iper-specialistico  e troppo seducente è l’idea di un sapere universale a portata di click.

La contemporaneità,   come ha mostrato anche Galimberti,  rischia di essere, dunque,  il luogo in cui il vero e il falso diventano indistinguibili. Da qui le difficoltà di un anziano umanista a rapportarsi con un mondo sempre più fluttuante, in cui i confini non sono così certi e le cose si mescolano. Sostanzialmente Eco ci avverte di un pericolo: se una volte l’imbecille poteva sproloquiare di massimi sistemi solo al bar davanti a un bicchiere di rosso e veniva subito zittito, ora può farlo su Internet, con il rischio di avere un seguito. Coloro che parlano a vanvera, senza alcuna cognizione di causa, infatti, sono legione e hanno la possibilità grazie al web di diffondere stupidaggini in grado di provocare danni sociali non da poco.

Altre interessanti riflessioni sono dedicate al mezzo televisivo, che ha ridisegnato le prospettive del vivere sociale. Se una volta, infatti, si ambiva ad essere riconosciuti per i propri talenti e capacità, oggi si desidera unicamente essere visibili,  uscire dall’anonimato non importa come; si può diventare famosi come estorsori, come escort o come scemi del villaggio, mettendo in piazza i propri fatti privati più sordidi; la reputazione non conta, il desiderio di apparire l’ha liquidata.

Qui Eco compie una riflessione interessante: è l’assenza di Dio, la mancanza di una dimensione trascendentale che hanno reso possibile questa deriva. Una volta, quando si credeva in Dio,  questi  era un testimone, un interlocutore, e ogni azione era vista e vagliata da questo essere supremo benché immaginario. Oggi  la fede in Dio è diminuita, manca questo sguardo che conferiva senso alle nostre azioni e allora l’umanità ripiega sullo sguardo degli  altri; però non si mira più  a essere ammirati ma più modestamente a essere visti, a imporre la propria faccia. E non importa se per farlo, ci dice Eco, ci si riduca a essere lo scemo che fa ciao ciao dietro il giornalista ripreso dalle telecamere.

 Altro tema è quello del complottismo, che Eco aveva già  demolito ne Il pendolo di Foucault e che in queste Bustine ritorna a demistificare con ironia. Ci racconta anche del suo divertito sconcerto davanti all’uso smodato del telefonino, divenuto ormai  protesi tecnologica di un bisogno di comunicare essenzialmente la propria esistenza o peggio il proprio insopportabile vuoto. Altrove  Eco si duole della perdita di memoria storica, ci parla della filosofa Ipazia, del velo musulmano, del presepio e del crocifisso cattolico,  di papa Bergoglio in un prospettiva storica, della passione per i libri, del regime berlusconiano,  della costituzione e di mille altre cose, con la consueta pacatezza, con senso della misura e arguta bonomia.

 Il limite di questa raccolta è che scarnificata non avrebbe dovuto superare le 200 pagine. Ne conta quasi  cinquecento e la sensazione è che in diverse Bustine Eco si ripeta, allunghi il brodo,  per così dire. Inevitabile,  trattandosi di una rubrica che usciva ogni due settimane. Ciò nonostante la lettura scorre fluida e i temi toccati sono interessanti anche se si rimpiange la mancanza di un approfondimento;  troppe cose, data la destinazione giornalistica,  sono trattate in superficie. Il che conferisce leggerezza ma toglie spessore intellettuale. Lo spessore c’è nella quantità,  non sempre nella qualità di queste riflessioni, che rimangono meramente piacevoli, un intrattenimento sicuramente intelligente ma a cui manca qualcosa. Ma in Eco è ben viva la consapevolezza che le poche righe delle Bustine fossero insufficienti a rendere conto della complessità degli argomenti trattati e lo ripete spesso con umiltà non priva di humor.  

  Questa raccolta di scritti  rimane comunque un prezioso commiato,  l’ultimo saluto di un intellettuale che ha segnato la nostra epoca con la sua erudizione sterminata, la sua genialità sorniona, la sua bulimica curiosità e la sua intelligente ironia.

Uno straniero con, sotto il braccio, un libro di piccolo formato – Edmond Jabès

domenica 20 marzo 2016





Più leggo Edmond Jabès più ho l’impressione di trovarmi davanti a un gigante dell’immaginazione poetica, un autore capace di aprire varchi per le possibilità stesse della scrittura, anche in questo testo sublime,  dal titolo minimale di Uno straniero con, sotto il braccio,  un libro di piccolo formato - semplice ma vedremo quanto pregnante -    scrivendo poesia in prosa che,  però,  è anche riduttivo definire tale, essendo molto vasto il territorio che Jabès esplora, con precisione filosofica, regalando a piene mani intuizioni come questa:  Se lo scrittore è uno straniero ciò è dovuto precisamente al fatto che egli prende a prestito il volto dal linguaggio”. La scrittura dunque come spazio di un’identità presa in prestito, precaria, caduca, transitoria. Luogo  anche di una cancellazione misteriosa, di un’assenza invincibile. Perché sono il nulla, il niente, il vuoto, il deserto a dominare in questo testo  profondo ed enigmatico.

Si tratta di poesia, non un genere dunque, ma di una percezione della  realtà che va oltre i modi. Questo testo, come anche Il libro della sovversione non sospetta, inaugura qualcosa di realmente nuovo e in ultima analisi ciò che è realmente nuovo è l’approccio alla scrittura di questo autore fondamentale. Jabès interroga il linguaggio, che è  il luogo della nostra identità di esuli, di stranieri, fatalmente preda di un senso di estraniamento, di sradicamento, apolidi dell’esistenza, ”apolidi metafisici” per dirla con Cioran.

Il centro di tutto, l’unica patria possibile, è la letteratura, “il libro infinito delle nostre interrogazioni” ma anche questa terra ci manca spesso sotto i piedi perché tutto è frammentario, forse inconsistente, sicuramente fragile. La condizione umana fondamentale è quella dell’ esiliato. E la letteratura è questa domanda che l’autore pone al lettore in un dialogo fra sconosciuti, fra stranieri.

Qui  proprio lo straniero è per Jabès la figura fondamentale, un autoritratto sui generis, in fondo, egli è “l’ebreo”, proprio come Jabès, a sottolineare la propria millenaria estraneità, uno straniero con un libro che non può che essere il Libro, l’epitome di tutti i tentativi umani di dare voce all’enigma che ci abita, quell’insolubile che Jabès sa esprimere con grande, e incantata,  lucidità.

Quella di Jabès è una poesia che merita una lettura lenta, per apprezzare questa parola ”inzuppata di silenzio” enigmatica ma solida, astratta e  sognante eppure terribilmente concreta. 
Il vuoto, il nulla,  il deserto, dicevamo, poi  un “cielo tradito” in un “mondo assassinato”, Jabès racconta la nostra epoca come il luogo di una sparizione, come manifestazione del lutto: “L’assenza di Dio  è l’infinito vuoto che sostiene il mondo”.

Così dopo la morte di Dio il deserto s’impossessa del  nostro tempo e ci forgia nel profondo. Qui, in  questa prosa profondamente immaginifica, dove ogni passo è una rivelazione, ogni momento un’epifania, ogni riga distilla un enigma capace di condurci in quella terra di sogno dove le parole sono eventi di per sé e non hanno bisogno di riferirsi a nessuna realtà che non sia il linguaggio stesso, talmente potente da riuscire ad assorbire tutto il mondo dell’esperienza  e restituircelo lunare e sognante sciarada. È la nostalgia del sacro, dove possiamo trasformare nuovamente  l’assurdo in  mistero, la follia del nostro umano vissuto  in  un’ esperienza religiosa. Sia chiaro,  per Jabès  non c’è altra divinità che il deserto, poiché il nostro cielo ci ha ormai abbandonato e la città è diventata un miraggio dove si precipita “nella trappola del reale e dell’inverosimile”;   il  niente vince e “la totalità è colta in flagrante reato d’impostura”. Questa vittoria ci spoglia semplicemente delle nostre illusioni e dei nostri pregiudizi, Jabès ci regala così una “parola necessaria” nella consapevolezza che ogni scrittura -   e questa  in particolare - ferisce il foglio bianco e al tempo stesso lo consacra. È l’invisibile la cui ricchezza, pur destinata all’oblio,  ci stordisce. 

Su tutto aleggia un tema che scompare e sempre ritorna: quello dello straniero. È la posta in gioco dell’enigma: illuminarci attraverso la nozione della nostra fondamentale estraneità. Da noi stessi, dagli altri. Il silenzio cala come una preghiera in questo testo in cui tutto si disgrega e le scrittura diventa anche,  e misteriosamente,  una cancellazione; non siamo nient’altro che l’assenza di un volto sommerso dalle nebbie dell’anonimato contemporaneo. Jabès  si avvicina a certo pensiero cabalistico,  per rendersi progressivamente estraneo e straniero, ricordandoci che la nostra natura non somiglia a niente, è il Niente stesso che  ci contiene. La traduzione di Alberto Folin cerca di restituirci  anche i neologismi e le spirali labirintiche della scrittura di Jabès,   in questa edizione SE, al solito bella e necessaria, proposta in anni diversi - io la leggo nell’edizione 2001. In una nota finale sono chiarite alcune scelte,   quale per esempio questa: “Lo straniero? L’estran-io”, da étrange- je per omofonia con étranger. È un po’ il fulcro di questo pensiero: evocare lo straniero che è in noi, che noi siamo per noi stessi, per cui questa figura diventa emblematica e simbolica.

Compito della parola poetica  è rendere ”sensibile  il silenzio che in quanto tale si trova  al cuore della raggiante totalità”. Paradosso, poiché solo la parola può raccontarlo, il silenzio. Così in questa vertiginosa dinamica fra Dio e il niente, fra la parola e il deserto, ci giunge la voce di Jabès, concreta eppure trasognata, definitiva nel trafiggere le nostre illusioni, facendosi straniera nel suo percorso nel deserto.  Forse nessun Dio ci ascolta, ma l’ombra della sua inesistenza continua a perseguitarci. In fondo,  si può essere religiosi anche senza Dio, anzi forse questa è la religiosità più pura. O forse Dio è il limite impensabile di questo pensiero abissale.  Quel che mostra Jabès,  in questo libro straordinario,  è che l’incantesimo non è disgiunto da una certa insondabile spietatezza.

 Dio esiste solo come Assenza, di cui il Libro è testimonianza. È una forza del pensiero  e come tale Jabès sembra trattarla. Egli cerca di riformulare la nostra relazione con noi stessi, con il divino, ci seduce con una prosa ricchissima di suggestioni, concettuali, materiche, misteriche.

Uno straniero con, sotto il braccio, un libro di piccolo formato è un libro enigmatico che ti scava dentro un‘immagine dell’enigma cosmico in cui siamo immersi.

 Jabès formula una domanda segreta anche laddove sembra affermare perentoriamente,  nella consapevolezza di un’erranza fondamentale del linguaggio che,  se insegue una verità, la trova frantumata in una miriade di enigmi. Nella lucida consapevolezza che questa verità del mondo  e di noi stessi sempre ci sfugge:

“Di ciò che ho potuto affidare al foglio, oggi mi rode quel che non ho saputo esprimere, come se ciò che non ho mai rivelato fosse la sola cosa che  avessi da esprimere.”

Congediamoci da questo libro con una delle più straordinarie definizioni di poesia che ricordi: “Il segreto è la chiave dell’anima, e la poesia, la parola del segreto.


Leggenda

domenica 13 marzo 2016






David Bowie. Lazarus.  Chapeau davanti a uno capace di trasformare in spettacolo, in evento artistico,  anche la propria morte. Alla faccia dell’industria,  si lascia consumare per l’ultima volta,  diventa  la voce di quella stella nera che ci segue dalla nascita, trasforma la sua agonia privata in fatto teatrale, musicale, poetico.
  
 Ci  racconta la vulnerabilità del corpo esposto alla malattia, rende teatro allucinato il furto che la morte compie. Operazione di autenticità da parte di  colui  il quale  sempre ha raccontato la necessità della simulazione,  il gioco del mascheramento, qui ribadito dalla benda che  indossa.

Così  diventa figura di un mito antico, orfico forse, che non mette in discussione anzi rafforza la dimensione contemporanea, quasi post umana, che egli  ha sempre  incarnato:  modernità algida, androgina, extraterrestre, profondamente ambigua nel maquillage cosmico e stregato.

Grazie a Bowie, scopriamo ancora una volta la nostra nudità davanti alla morte, il nostro antico terrore, la primordiale paura davanti  all’annientamento.  In attesa di ascoltare l’intero album, che dicono eccezionale,  il video di Lazarus è un canto che viene direttamente da una consapevolezza che non può che essere  fatale. E così Bowie ci mostra questo limbo, con la sicurezza dell’artista che,  a cospetto della morte, già dentro la morte, non ha più nulla da perdere o da guadagnare.

È un commiato dalla vita straziante quello di Lazarus; nell’ultima scena si vede Bowie rientrare in un armadio e chiudersi dentro, scomparendo nel buio.  Mimare la propria  malattia, la propria  morte, ancora una volta per esprimersi,  anche davanti al buio.

Così Bowie indossa la sua ultima  maschera, la più terribile, prima di deporre l’abito di scena, fare i suoi ultimi incantesimi, salutare e andarsene.  Lo show continua, naturalmente, ma forse perde un po’ della sua aria di leggenda. L’industria  acquista invece l’ingranaggio quasi mistico del mito. E ci camperà cent’anni. Su tutto sfolgora ancora lo sfarzo tagliente del sorriso di Bowie, diventato,  da tempo ormai, spazio e segno dei tempi sempre più fantascientifici in cui viviamo.

                                                                                                                                                                            12-13 gennaio 2016

Piscolabis 7

venerdì 11 marzo 2016





Domani 12 marzo leggerò alcune mie poesie tratte da “Sotto una luna in polvere” , da “Diario di Casoli”, più qualche inedito, durante la serata "Piscolabis 7", organizzata da Kipple Officina Libraria; evento che si terrà alla Casa Gorizia in via Vigevano 2/a,  Milano, a partire dalle ore 22.00.

 Ettore Fobo