La ragione dell'arte- da uno scritto di Elsa Morante
Pubblicato da Ettore Fobo alle 18:43 0 commenti
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Cani di paglia- John Gray
sabato 24 aprile 2010
“Il cielo e la terra non hanno pietà, trattano i diecimila esseri come fossero cani di paglia.”
Lao Tze
“Ragazzi, guardatevi dall’amore per l’uomo (… )/Questa è la trappola in cui molti spiriti nobili cadono/. E’ la trappola in cui cadde Dio,/ quando, dicono, camminò sulla terra.”
Robinson Jeffers
Diogene cercava l’uomo con la lanterna e non trovandolo si accontentava del proprio ghigno sarcastico, John Gray pare averlo trovato finalmente nell’immagine di un animale qualunque, solo un po’ fanatico di se stesso, un fantoccio dotato di autocoscienza, la qual cosa lo estasia al punto di fargli credere di essere il vertice dell’universo. Di contro ad ogni visione umanistica e cristiana, contro ogni pretesa antropocentrica, mettendosi sulla traccia degli antichi taoisti, il filosofo inglese ci toglie definitivamente l’illusione di essere il fondamento e il senso del mondo, e allora viene in mente Senofane, che aveva ridotto a puro delirio auto centrato la credenza negli dei, si sente la fredda luminosità di Cioran; Gray è crudele ed esatto, il suo smontaggio del mito Uomo è una folgorazione di lucidità. L’uomo non cerca la libertà, ne ha paura, preferisce fare parte di un gregge e, come scrive anche Baudrillard, delegare la fastidiosa faccenda della volontà e della scelta a un capo, a un Dio, per liberarsi dal suo incubo peggiore: la noia. Così nella nostra società l’intrattenimento degli esseri umani diventa la questione principale, dopo il tramonto della religione cristiana e la fine dell’eccitante faccenda del peccato. Ma l’uomo è autocosciente rispetto agli animali, ha innalzato cattedrali a Dio, dice qualcuno, ma cosa è questo Dio se non controfigura della sua ubris, emanazione del suo narcisismo, cos’è questa coscienza se non un’accozzaglia di impressioni transitorie? L’identità è un mito, nell’immensa dispersione della psiche è ormai inutile cercare il labile fil rouge dell’io.
L’uomo è un animale predatore, una metastasi che infetta la terra e John Gray sembra provocatoriamente condividere con Ceronetti il desiderio di un mondo lasciato agli animali, liberato dalla presenza oscura e malevola dell’uomo. Ma il filosofo inglese è troppo assennato per perdersi in un incubo, e sa bene che la ferocia umana non verrà placata se non dalla catastrofe, anche se l’uomo non porrà fine alla vita sulla terra, come pensano alcuni megalomani, porrà fine solo alla sua sciagurata e insignificante esistenza.
In questo saggio John Gray affronta una miriade di argomenti con un tono sommesso ma efficace, ci ricorda che comunque l’illusione è più vitale della verità, presenta la guerra come grande gioco che pone fine alla noia e ci mostra come la visione taoista, che non conosce Dio e morale, sia la più vicina al cuore pulsante della nostra insensatezza. Credere nella scienza come si fa oggi è come credere nella magia, pensare che essa possa liberare l’uomo dalla sofferenza o dalla morte non è diverso dall’idea che lo possa fare un redentore, e in fondo la fede nel progresso è la fantasticheria che trascina gli ultimi secoli, non dissimile dalla fede in un aldilà di salvezza. Anche il culto cristiano della Verità è un sogno che presto si è trasformato in un incubo, Gray ci ricorda che a livello di sopravvivenza è più utile l’illusione, solo gli insoddisfatti e gli infelici che disperano di sé sono interessati alla Verità,specialmente per imporla agli altri, alla maggior parte delle persone interessano più il pane e il divertimento. In questo senso allora però la sua stessa filosofia invece di aiutarci rischia di rigettarci nel nostro sconforto di creature, in un mondo sempre più arido di feconde illusioni. Ma per Gray è preferibile rimanere nella naturale inquietudine dell’essere umano, piuttosto che fuggire da essa; gli sforzi per dominare la natura, che la morale cristiana e la scienza ci chiedono, non valgono la pena e sono follia, meglio una vita senza scopo, come quella degli animali i quali, non chiedendosi il perché delle cose o il fantomatico fine della vita, sono nel mondo come nelle parole di Bataille “ come acqua nell’acqua”. L’uomo vuole vincere “il tedio della consapevolezza” e per far questo è disposto a tutto, bisognerebbe piuttosto si rassegnasse all’idea che nella vita umana non c’è felicità possibile.
Cani di paglia è un libro equilibrato, capace però di mettere in crisi il nostro equilibrio, che ci mostra come scienza e catechismo siano germogliati dallo stesso seme: la vanagloria umana.
Pubblicato da Ettore Fobo alle 10:00 3 commenti
La filosofia nel boudoir- Donatien Alphonse Francois de Sade
sabato 17 aprile 2010
Friedrich Nietzsche
Si potrebbe pensare che l’ossessione di Sade sia il piacere e in fondo nessuno può negarlo, ma la vera ambizione dello scrittore francese, in questo romanzo pubblicato nel 1795, è pedagogica, anche se si tratta di una pedagogia rovesciata. Così in un salottino, in un boudoir, diversi personaggi appartenenti all’aristocrazia si prefiggono lo scopo di corrompere una fanciulla, convincendola con i loro ragionamenti prima e con dimostrazioni pratiche poi che la via del libertinaggio è quella preferita dalla natura, contro le normali e oltraggiatissime imposizioni della società e della religione cristiana, realtà contro le quali Sade scaglia le sue invettive feroci e affila la lama del suo formidabile sarcasmo.
Il parossismo del desiderio è così raggiunto in poche pagine, le descrizioni dei più perversi atti sessuali si accompagnano alla teorizzazione più implacabile della loro necessità. La natura è esaltata come fonte di ogni verità, natura che spinge uomini e donne al delirio erotico, al crimine, alla dissolutezza più scandalosa. Le illusioni antropocentriche sono spazzate via, in un mondo indifferente alla sorte umana tutti i valori sono aggrediti con violenza e svuotati di ogni senso, con un’operazione di feroce nichilismo. Ma di naturale in questo desiderio c’è ben poco, o meglio, l’eccesso dello stesso diventa la norma, la depravazione spinge questi personaggi a un’orgia continua, intervallata da considerazioni di un’immoralità fuori da ogni regola. Abbiamo così l’esaltazione della sodomia, dell’adulterio, della promiscuità, dell’omicidio, del furto, il disgusto verso il matrimonio, vincolo crudele e detestato, l’orrore per la riproduzione, considerata soltanto, di contro alle idee cristiane, un ostacolo al vero dio degli uomini e delle donne: il piacere.
L’opera di Sade è l’estremo frutto avvelenato dell’illuminismo, in nome della libertà l’egoismo primordiale fa la sua irruzione sulla scena e, a differenza di altri romanzi, qui il discorso di De Sade diventa politico, egli immagina di rinnovare profondamente la società, partendo dall’assunto che ciascuno è padrone di se stesso, del proprio destino, del proprio corpo e che niente può opporsi alla soddisfazione sessuale, nessuna legge, nessun Dio, nessuna chimera, neanche il semplice buon senso, tutto nelle parole di Sade deve esplodere nella sua fondamentale bestialità e il desiderio sessuale, incatenato dalle convenzioni, deve essere messo al centro della vita pubblica. Così Sade rivela, in questo romanzo soprattutto, la sua indole di riformatore iconoclasta e di perverso utopista. E’ proprio l’utopia della libertà che fa pronunciare a questi personaggi una delle più severe condanne del cristianesimo, che sembra riecheggiare quella successiva di Nietzsche, in nome innanzitutto dell’egoismo, forza naturale contro cui opporsi, secondo Sade, è da imbecilli. Liberare la donna dalla schiavitù del matrimonio non impedisce però al Divin marchese di fare addirittura un’apologia dello stupro, della prostituzione, dell’incesto, la sua ossessione è che il sesso sia la chiave di volta dell’essere umano, quella dimensione in cui egli, superate sciocche superstizioni, inibizioni, e pudori, raggiunge quella che Bataille chiama, riferendosi proprio a Sade, la “vertigine del suo scatenamento”.
L’uomo è egoista e crudele, interessato unicamente alla propria soddisfazione e dunque perché non assecondare questa pulsione naturale? Così Sade si presenta come un pensatore apocalittico e contro culturale, nulla di ciò che è consacrato si salva dalla sua critica senza pietà e lo scrittore francese non si preoccupa nemmeno delle contraddizioni interne al suo sistema. Che tutto questo sia naturale è assai dubbio, pare piuttosto la caricatura della libertà che fa qualcuno incatenato sul fondo di un abisso, e già Blanchot ha scritto che con la sua opera Sade ci restituisce nient’altro che “la solitudine del’universo”. Tuttavia l’onestà della sua ferocia è incantevole, l’implacabilità delle sue ossessioni è talmente dirompente da suscitare il formidabile riso pieno di bile, che i francesi chiamano rire jaune. Alla parola Sade affida il compito più alto e insieme scandaloso, la letteratura stessa pare un recinto troppo ristretto per la sua violenza, eppure è la narrazione stessa ad essere la fonte di ogni fantasia sfrenata, così come ne Le centoventi giornate di Sodoma: l’eros prima di tutto è parola.
Ogni cosa è paradossale, eccessiva, anche le teorizzazioni antisociali, antimonarchiche, anticristiane e la costante profanazione di ogni valore, sono al servizio di questa ossessione circolare, che sempre ritorna: il piacere è l’unico fine e, contro Voltaire e la gran parte degli illuministi, nulla, nemmeno il dolore altrui, può essere di impedimento. Così Sade appare mostruoso nelle sue affermazioni ma di fondo c’è una verità incontestabile: la natura non è solo il luogo della creazione e della vita, ma anche della distruzione e della morte, necessarie entrambe al suo disegno oscuro.
Pubblicato da Ettore Fobo alle 11:30 0 commenti
Eros & Eschaton- Lukha Kremo Baroncinij
sabato 10 aprile 2010
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Pubblicato da Ettore Fobo alle 08:21 2 commenti
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Il mondo salvato dai ragazzini- Elsa Morante
sabato 3 aprile 2010
Entrare in questi poemi di Elsa Morante, pubblicati nell’anno fatale del 1968, significa farsi un viaggio all’interno di un rigoroso, ma allegro, sperimentalismo poetico. Allegro nella sua vocazione ad infrangere linguisticamente la realtà data, a far emergere flussi, disarticolando la lingua, per esempio nello straordinario poema La serata a Colono, dove un Edipo contemporaneo, ricoverato in manicomio dopo l’accecamento, trova la sua Antigone stralunata, che in un linguaggio sgrammaticato e dialettale fa da eco agli strani monologhi del padre e lo accudisce con la sua pietas, un po’ pagana, un po’ contadina. Edipo è una sorta di indovino, sulle cui labbra affiorano versi di incredibile potenza, il suo è il vociferare amico delle estasi, riscritta la storia come fosse il poema radioso di un angelo ribelle e il mito, questa fede nell’immaginazione creativa dei popoli, è un mistero gioioso. Si fondono Ginsberg e Rimbaud, la Bhagavad Gita e Cagliostro, in un discorso che si realizza come intersecarsi di flussi, che sono agganciati tra loro, interrotti improvvisamente, poi ripresi.
Al centro di tutto il fastidio verso una borghesia che soffoca l’anelito alla libertà di una gioventù ancora incorrotta, artefice di slanci di follia capaci di generare un epos contemporaneo. Mi sembra questo il tentativo della Morante, in questo straordinaria raccolta di poemi, uno più potente dell’altro: accostare epica e parodia, mitologia e realismo. Una vena gnomica fa rabbrividire, e ci delizia allo stesso tempo. Come non sobbalzare davanti a versi come”E’ l’ora di cena. O fame di vita, nutriti/ancora alla sostanza quotidiana delle stragi” laddove una dimensione puramente colloquiale in apparenza ha la forza di diventare un apoftegma definitivo, una invocazione densa di echi. E’ una dimensione misterica, sapienziale, che affonda in secoli remoti e al tempo stesso è colta nella sua disintegrazione tutta contemporanea.
Così la Morante riempie i suoi poemi di personaggi e situazioni, in un divenire incalzante e fluido, mischiando narrativa, accenni lirici, quelli che sembrano piccoli film, teatro, canzoni. Ne vengon fuori tranche de vie appena abbozzate e subito abbandonate, come se una telecamera passasse indifferentemente da un personaggio all’altro, come se una certa tensione pulsasse nelle parole, per spingere al limite il racconto, verso la sua parodia, perché una gran risata vuole esplodere in questi versi, una allegria consapevole degli orrori, la stessa allegria che Pasolini riconosceva nel sottoproletariato di allora; una scandalosa allegria che mette in subbuglio il mortifero ordine della Storia.
Tra i protagonisti i Felici Pochi si contrappongono agli Infelici Molti, se”l’irrealtà è l’oppio dei popoli” essere ai margini, antiborghesi, concreti e sognatori, folli e anticonformisti come i primi, significa raggiungere una felicità spesso invisibile, perché per vederla ci vuole l’occhio puro. Abbiamo così fra i Felici Pochi, personaggi del calibro di Gramsci” la presenza di una città reale”, Rimbaud”l’avventura sacra”, Giordano Bruno”la grande epifania”, Platone”la lettura dei simboli”, Simone Weil “l’intelligenza della santità”. A far da carnefici a questa umanità ecco Gli Infelici Molti, carogne dell’establishment, filistei e borghesi con la loro morale di carcerieri. Tutto condensato in versi potentissimi come questi: “L’arabesco indecifrabile/ è dato per la gioia del suo movimento, non per la soluzione del suo/ teorema.”, che sintetizzano perfettamente la visione della Morante; ciò che conta è il fluire non il senso, il moto perpetuo di parole che colano come lava, l’arabesco, la spirale. Si sovrappongono i luoghi della geografia, le epoche della storia e tutto, il dramma come la commedia, si configura come un enorme gioco, la parodia è la strada e i versi sono tracce di questa vitalità in cerca di una verità fuori dal coro. Rivoluzione era la parola magica di quegli anni e qui risuona nella sua potenza in verità disperata.
Questo è un dramma in cui la contemporaneità si mescola con echi millenari, alla ricerca di quella realtà comune, di quello stato di beatitudine rivoluzionaria, di santità profondamente antidogmatica. Infatti, la Morante è dalla parte degli eretici bruciati, dei folli, dei ragazzini; contro la pesantezza delle auto di lusso dei membri dell’establishment, la Morante si schiera dalla parte delle vittime della moltitudine crudele.
Movimento continuo, flusso come di torrente impetuoso, eccezionale capacità di condensazione aforistica, densità e ricchezza di temi, estrema variabilità, all’interno però di un discorso intellettuale preciso e fondamentalmente unitario, pur nella dispersione molto moderna che la Morante ha scelto come cifra stilistica; queste cose rendono Il mondo salvato dai ragazzini un capolavoro di lucidità e follia poetica, che a distanza di più di quaranta anni conserva il suo fascino beat e ci seduce con la sua straordinaria modernità di scheggia.
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Il mondo salvato dai ragazzini- Elsa Morante- Einaudi - 1968
Pubblicato da Ettore Fobo alle 08:03 0 commenti
Etichette: Elsa Morante, libri di poesia