sabato 30 gennaio 2016
Mi sembra che Amelia Rosselli
concepisca la poesia, almeno in questo poemetto La libellula, come un flusso che disarticola il parlato, e ce lo
ripropone come una vertigine allucinata, restituendoci un’idea del pensiero
umano come luogo di mancamenti, spaesamenti, labirintici non so. Tutta questa vertigine è molto sobria trattenuta, mai
plateale, un po’ gridata forse sì ma con eleganza. Leggendo questi versi ci si domanda spesso:
che cosa è accaduto?
La parola poetica qui è una
nuvola che per un attimo increspa il cielo,
per un attimo sembra assumere una forma conosciuta, poi sparisce e se ne
forma un’altra, che fornisce un’altra immagine e poi un’altra e un’altra
ancora, così, quasi senza pause, ma non
senza vuoti, perché vuoto è il luogo da cui proviene il linguaggio,
vuoto per saturazione, si potrebbe dire, non per
mancanza, per eccesso di contenuto, per un’urgenza di dire in cui, in
verità, il dire si nega nel suo darsi. Tanto
contenuto emotivo e una forma in fondo rarefatta da ideogramma cinese. O grido schizzato su una tela come forma
geometrica, essenziale.
Quello di Amelia Rosselli è un
discorso poetico intricato, complesso, ma fatto di una materia aeriforme, intangibile.
Può sembrare troppo ardita nei suoi
accostamenti che spesso sono scontri, di parole, di metafore, in un
alternarsi di grido e di sussurro.
Poesia di grande modernità, soprattutto nell’epoca in cui è stata scritta, 1958,
perché scrittura astratta, concettuale, e insieme scrittura di respiro internazionale. Amelia Rosselli
era acutamente consapevole della temperie culturale del suo tempo.
È un tipo di poesia che può
irritare per certa ricercata difficoltà semantica, o abbagliare con la precisione
allucinata dei suoi accostamenti; ti stupisce anche nelle sue risonanze, alcuni
versi sono riscritture di altri poeti (Campana, Rimbaud, Montale).
Di Campana riprende un po’ di versi fra cui il
celebre “Non so se tra rocce il tuo pallido/ viso m’apparve,
o sorriso/ di lontananze ignote“ e lo sfinisce a furia di variazioni, porta
le sue possibilità ritmiche e sensoriali a sfinimento
e in maniera strana lo dissolve. Ancora una volta è l’idea della poesia come
flusso, divenire incessante che cancella ogni sua traccia, onda di un mare
senza autore, la Letteratura.
Campana, Rimbaud, Montale sono
altresì tritati come fossero spezie per una pietanza prelibata: è il lusso del vuoto, però, il lusso di un attimo in cui la mente si svuota delle idee preconcette e
prova a elaborare un linguaggio personale, toccando così l’universalità di questa
intersoggettività segreta di cui si
consiste e allora una molteplicità di
voci - Pluralità di voci è il
titolo di un libro di Amelia
Rosselli - comincia ad abitarci. È la follia che indossa
le sue maschere. E il personale si fa universale. Di Montale
alcuni versi sono riscritti “Dissipa tu
se lo vuoi questa debole vita che si lagna” ed “ Esterina, i vent’anni ti minacciano…”. I versi diventano dei refrain culturali, dei leitmotiv sonori, a cui i ritmi da lei
inventati si legano come per cercare una stabilità.
La citazione di Rimbaud è più emblematica;
dove quel verso che in genere si traduce
come “La sua
solitudine è la meccanica erotica” diventa nelle parole di Rosselli “meccanica
eiaculatoria.” Rispondendo così all’enigma della poesia originaria, al suo
indovinello segreto e stregato “Trovate
Hortense”, dove con Hortense Rimbaud allude, secondo diversi critici, alla
masturbazione. Qui invece Hortense viene restituita a una dimensione enigmatica,
personaggio di sogno che potrebbe essere un’Ofelia dipinta da Klimt.
”Popolata è la sua
solitudine di / spettri e di fiabe […]”.
Ma Rimbaud è disseminato in tutta l’opera: si sente in
alcune apostrofi , “O albero teso. O
particella immensa. O lunario da quattro soldi. O amico leggero, o amico pesante […]” si ode nella nervatura di
una scrittura che si squama come un serpente, facendo brillare versi come
questi: “E la carestia brillava lontano
soltanto ironica.” Verso in cui si percepisce potente,
in un allucinato sentiero simbolico comune, l’assonanza proprio con
Rimbaud. A questo si accompagnano ritmi eliotiani, sinuose melodie di
Campana, “Disperare disperare, è tutto un
fabbricare”, Montale rivisitato. E
in Serie ospedaliera qualche anno dopo affiorerà il dolce naufragare leopardiano.
Rosselli sembra avere
preso da Eliot la propria propensione alla citazione, Eliot che disseminò La terra desolata di versi altrui o addirittura l’ossessività citazionista
potrebbe venire da Lautréamont o ancora
potrebbe essere ispiratore il gioco di sviamento fatto dai contemporanei situazionisti, con il loro détournement.
Il tono di queste citazioni non è
parodistico, né imitativo, prevale l’idea di letteratura come flusso in cui il
pensiero di Campana o di Montale è rinnovato come variazione musicale, “Variazioni belliche” è il titolo della sua prima raccolta e Rosselli aveva studiato
musica, di cui era esperta, quindi
conosceva bene il concetto musicale di variazioni.
Potremmo parlare anche di
frammentazione della poesia, dove ogni verso citato è un detrito lavico, o
potremmo parlare di evanescenza del concetto stesso di autore, tema caro a
quella generazione che aveva, o avrebbe,
fatte sue le nozioni di Blanchot
sulla labilità e infine sulla scomparsa
della figura dell’autore.
Si potrebbe parlare di scrittore
come macchina di parole, di scrittura macchinica, cerebrale, satura di vuoto,
trita tutto, trita vuoto. Schegge oltre ogni avanguardia, bagliori di follia
poetica, sicura di sé e del proprio
incantesimo.
Amelia Rosselli era una poetessa
molto consapevole e attenta alla forma, molto cerebrale, anche nella sua
ostinata raffigurazione del corpo come luogo di forze occulte, femminili, lunari,
alla fine stregonesche. Come si legge in
una poesia della raccolta Serie
ospedalieria:
“Quel tuo/ trascinare per immense giornate/ notte e sangue.”
Ciò che mi ricordano i versi Amelia
Rosselli, in questa bella edizione di Se, La
libellula e altri scritti, giustamente riproposta nel 2010, sono
alcuni quadri di artisti dell’astrattismo informale; si tratta linee di forza, punti di fuga, anche
geometrica, del pensiero che non
racconta più di una forma ma forse di un
vortice energetico. Amelia Rosselli mira al centro del pensiero, orbita cioè
intorno al vuoto.
Molto freddamente, qualcuno potrebbe dire: “Non vuol dire niente,
è incomprensibile, che significa? Follia” davanti a questi versi, elaborati in maniera certosina per darci
nozione della nostra assenza, del vuoto che è il linguaggio poetico inteso come
cavità in cui il significato, però, può
germogliare come qualcosa che sempre si rinnova e mai si cristallizza, sempre evapora e mai si consolida. Instabilità gassosa di questo dire poetico. Inquietante
oscillazione fra il senso e la sua assenza, fra la parola e il silenzio, fra
l’urlo e il bisbiglio.
La fame di una parola pura era in
Amelia Rosselli un’ossessione, è la segreta pulsione di questo versificare in
cui si cerca il silenzio alla fine di un grido, o si sparge proprio come un
grido tintinnante di cristalleria infranta, o si avverte la percezione assoluta
del vuoto come evento glaciale; qui la poesia ha, davvero, il supremo compito
di raggelare. Come nelle parole di Emily
Dickinson: “Quando sono al cospetto della
poesia sento un freddo così intenso, che penso che nessun
fuoco potrà mai più riscaldarmi” .
Pensiamo ad alcuni dei versi del bell’
incipit: “prendere/ il salto per un addio più difficile.”
Sono significativi, il balzo
della poetessa è verso un linguaggio che è un abisso e il suo addio alle
convenzioni, che per un poeta sono
soprattutto linguistiche, è davvero radicale.
Osserviamo questo linguaggio dove
ci si rifiuta di imporre una verità e ci si lascia andare a una pura deriva
semantica. La poesia di questo poema “La
libellula” può persino irritare, come già detto, perché sfuggente,
inafferrabile, chiede uno sforzo immaginifico che il lettore più distratto non
è disposto a concedere. Poesia irritante, indubbiamente folle, perfino
mostruosa, nell’etimo di qualcosa che va mostrato. È questa una poesia anche aspra, difficile,
che a tratti può anche sembrare un
funambolismo un po’ sterile. Perché approcciare una realtà linguistica così
difforme?
Celebriamo l’originalità di
Amelia Rosselli, perdoniamole il solipsismo
di certe arditezze linguistiche. È questo il rischio di molta poesia moderna: perdersi
in se stessa, come Narciso con la sua immagine, rimanere oscura, inattingibile,
quasi inutilizzabile.
Ma infine ci salva una considerazione: non bisogna cercare
la leggibilità o la comprensibilità immediata ma la pura suggestione di chi sta
forzando il linguaggio per esprimere, attraverso le maglie dei suoi significati
fossilizzati, l’impeto originario della propria umana balbuzie. È un linguaggio
di forza cinetica e di rapimento; un linguaggio che infrange gli automatismi
soliti e inventa una nuovo automatismo lunare,
spettrale, travolgente perché frutto di una natura, quella della
poetessa, intimamente travolta.
Ammiriamo la foga di
una scrittura che insegue sempre la massima condensazione, la parola
pietrificata, e la massima evanescenza al tempo stesso,
evanescenza del flusso di parole che
moltiplica e insieme dissolve i significati.
Rosselli ci chiede così uno
sforzo: vagare con lei in questa terra d’incertezze verbali da vertigine,
riflettere con lei sulla natura illusoria del processo linguistico. Impetuosa,
vorticante, enigmatica: Amelia Rosselli racconta della lacerazione che ci
attraversa tutti.
S’intuisce un ferreo lavoro sulla forma, una costante
limatura stilistica, i versi sono sempre sofferti benché impetuosi. Non sorgono spontaneamente ma sono evocati,
direi invocati, dall’artificio linguistico. Essi non stanno fermi, scorrono.
Rimangono, così, puri e irriducibili.
Non si possono parafrasare, il racconto di un quadro non sarà mai il quadro,
sono parole intagliate nel legno. È proprio come voler intagliare nel legno il
frullio dell’ala della libellula.
C’era in Amelia Rosselli una consapevolezza anche assurda “Io rimo per un altro secolo” che è la
consapevolezza del poeta, ignorato sempre, che spera, ingenuamente e direi innocentemente , in un
riscatto postumo.
Amelia Rosselli ai miei occhi la sua posterità, per quanto minima dati i
tempi, se l’è garantita tutta. E
l’avrà, a dispetto dell’oblio.
Ella apre dei varchi linguistici per la scrittura, la trovo
tra i poeti più capaci di rivoluzionare proprio le dinamiche dello scrivere.
Scrittura in fondo del
vuoto, perché sebbene il poema La
libellula ruoti intono al concetto della giustizia in chiave biblica,
e abbia come sottotitolo Panegirico
della libertà, questi concetti sono
dissolti nelle loro modulazioni sonore, direi, metalinguistiche, da
poeta che inventa la sua propria lingua entrando in un flusso in cui
galleggiano i versi e le melodie inventate da altri, non importa, il poeta
mescola e modella forme eterogene; il suo fine è liberare la parole ma anche
misteriosamente liberarci da esse. Dal loro perso specifico di concetti.
Sbriciola i fossili e
li rimodella per così dire; qui il linguaggio, oltre che una musica, è anche una creta da
manipolare. Fisicità di questo processo, materialità della parola. Grandezza di
una poesia ostica ma perché dura, e in
fondo preziosa, come il diamante.
Esperienza astratta, lingua d’ideogrammi.
Figure che si accalcano alle porte dell’indicibile e sussurrano il loro segreto
prima di svanire.
È una poesia che affascina per
gradi e che, forse più ancora di altre, va riletta, meditata perché aldilà del ritmo impetuoso c’è una scrittura
sorvegliata, che stupisce per la sua imprevedibilità, aldilà della deriva onirica di parole in fuga,
c’è l’impasto segreto dell’arte.
“O amore che mi tieni fervida e
blu fuori dal
mondo che non regge al suo
tintinnio di merce
buttata dal mercante. O puttana
dalle meravigliose
orecchie o catrame che non si svincolò così presto
dalla terra, o palazzo della
carità. Più morta
che viva, più viva che savia.
Più morta che savia.
Più reale della tua luce
improvvisa. “