Kate Tempest ha solo 32 anni.
Eppure ha già solcato con sicurezza invidiabile i mari della poesia, del
teatro, della narrativa, della performance
totale (è anche rapper). In Italia è uscito per Frassinelli il bel romanzo Le buone intenzioni, che una forma di
pudore m’impedisce di definire bellissimo. Nel settembre del 2017 è il turno di
questo poemetto, Che mangino caos, che
è stato preceduto qualche mese prima da
un album, con le poesie recitate o rappate
su una base musicale. È il genere definito spoken words.
Siamo davanti a un’opera
dirompente che come tutte le opere dirompenti ci mette a nudo, ci interroga nel
profondo di noi stessi, ci mostra cosa è diventata la vita moderna, all’interno
di una metropoli che ci soffoca, Londra in questo caso, dove la poetessa è nata
e vive. Ma Londra pare essere solo un caso esemplare di ciò che sta accadendo
all’intero pianeta, la cui immagine apre il testo. Il grido della poetessa si
alza per denunciare il collasso del nostro sistema di vivere, lo sfacelo
dell’ambiente in cui viviamo, la crisi del modello di comunità, la solitudine
esistenziale di vite sprecate. Perché il fulcro è narrare i pensieri di sette
personaggi insonni, che si trovano svegli in questa Londra da incubo, nella
stessa ora, le 4.18, ora simbolica per il teatro inglese a partire dall’opera di
Sarah Kane. Quest’ora maledetta è l’ora in cui avviene il più alto numero di
suicidi, in questo poemetto rintocca funesta e come una goccia di cianuro
avvelena con la paranoia queste menti, prede di una disperazione a volte
inspiegabile, anche se procedendo nella lettura, come vedremo, Tempest propone
una spiegazione.
Sono questi versi disperati,
aggressivi, definitivi, ma alla fine attraversati da una speranza di
palingenesi, che leggiamo in questa edizione e/o tradotta da Riccardo Duranti.
Poesia da recitare a voce alta come si legge in esergo, che impetuosa si srotola
sotto i nostri occhi. Allucinazioni di un realismo clinico, visioni cosmiche (la
Terra è un puntino sperduto nell’universo), e queste sette persone insonni appese
al filo di rimuginazioni e ricordi che non si uccidono ma trovano la catarsi di una pioggia torrenziale che li
fa uscire di casa per gettarsi sotto l’acqua per calmarsi e rigenerarsi.
Suicidio metaforico, rinascita, rinnovamento, battesimo laico, perché questo
invoca Kate Tempest in questo poemetto duro, a tratti straordinario per potenza
ritmica e visiva, per la sua foga controllata, “ urlando ai miei cari/ di svegliarsi e amare di più/ scongiurando i
mei cari di /svegliarsi/ e amare di più.” Ricetta semplice a dirsi ma
complicata da attuare.
In questa Londra antropofaga come
qualsiasi metropoli in cui il desiderio di profitto ha sostituito le tradizioni
secolari, l’eros, le passioni semplici. Questo deve fare un poeta, gridare che “Il livello del mare sale!” riportando
sulla terra l’eco di una speranza che è amore e Kate Tempest, l’abbiamo visto,
non ha paura di dirlo apertamente, alla faccia di tutto il cinismo industriale
di cui siamo ormai impregnati.
Oltre alla lettura è necessario
ascoltare l’album per capire come questa voce c’incalzi e ritmicamente canti e
racconti la nostra personale e collettiva spoliazione di senso e futuro.
Così in questo poemetto una
visione necessariamente tragica dell’esistenza s’intreccia con una roboante
denuncia sociale. Così Londra assomiglia a Bangkok, Marsiglia, Milano, Tokyo,
Città del Messico, a qualsiasi città, dove il disastro terrestre è diventato
forma di palazzi e alienazioni micidiali e dove l’anima umana è spremuta
nell’ingranaggio di produzione e consumo.
Kate Tempest esprime un’energia
debordante ma non smarrisce mai la misura del verso.
I suoi personaggi sono spiantati
la cui vita è “veloce, merdosa, a basso
costo.”, giovani vedove con bambini piccoli, uomini di successo rosi da
un’angoscia inesplicabile; pensieri di disfatta, claustrofobici, attraversano
la loro mente, ”Londra è una fortezza
murata/è tutta per i ricchi/se non ce la fai/sei fuori.”
Con forza Kate Tempest cerca di
scuotere la nostra apatia di esseri satolli d’indifferenza e ci spiega
l’origine della nostra nevrosi: ”La
tragedia e la sofferenza/ di una persona che non hai mai incontrato/ è presente
nei tuoi incubi, /nell’attrazione che provi verso/la disperazione.”
L’invito è dunque riconoscersi
nella comunità, anche in questo mondo disgregato, perché: ”Il mito dell’individuo/ ci ha lasciati scollegati smarriti/e in stato pietoso.”
Anche nel divenire nulla, anche nella
morte c’è una segreta necessità. Ascoltiamo prima in inglese:
“The point of life is
live/Love if you can. Then pass it on/We die so others can be born/ We age so
others can be young./The point of life is live, /Love if you can/Then pass it
on.”
“Il senso della vita è vivere/ Amare se si può. E poi tramandare/Si
muore perché altri possano nascere/S’invecchia perché altri possano essere
giovani./Il senso della vita è vivere, /Amare se si può / e poi tramandare.”