sabato 2 aprile 2011
La letteratura, se unita ad un pensiero, ad una visione, ha spesso esiti profetici, ma qui non c’è nulla di sovrannaturale, è la logica, perché i grandi scrittori di questo si occupano, anche quando apparentemente si innestano sul solco del delirio, o di ciò che appare delirante a coloro che non riescono a portare a compimento, cioè a svolgere logicamente e quindi con crudeltà nessun pensiero. Portare a compimento significa sempre toccare gli estremi, se ad A segue B, vediamo bene cosa può essere C, ed usiamo la letteratura, l’ analogia magari come fanno i poeti per vederci meglio.
La grande letteratura è sempre uno sguardo ulteriore, diverso e perciò colpevole, come ha mostrato Bataille ne La letteratura e il male, come ha scritto Manganelli in quello splendido libro che è Il rumore sottile della prosa.
Una volta si parlava di romanzi di idee, Dostoevskij ne è un esempio, oggi si fa più fatica ad usare questa terminologia perché la letteratura contemporanea spesso non ha il coraggio di riconoscersi matrice di idee, se ne vergogna quasi e preferisce veicolare lo smarrimento esistenziale tipico delle metropoli, piuttosto che indicare la via di un superamento.
DeLillo invece con Great Jones Street tenta di realizzare questo superamento, partendo da un’idea molto semplice e condivisibile, anche se profetica per gli anni(1973) in cui il romanzo fu scritto: la società contemporanea sta distruggendo la privacy e con essa la libertà. Certo il concetto non era nuovo, il primo a puntare il dito contro questa deriva fu Faulkner, già negli anni cinquanta, con il suo definitivo saggio sull’argomento intitolato proprio Privacy. Ma nessuno come DeLillo che io sappia aveva spinto questo pensiero all’estreme conseguenze, perché anche ai tempi di 1984 di Orwell questa dimensione non si era ancora palesata in tutta la sua potenza di orrore quotidiano e contemporaneo e sto parlando del rischio terribile che si corre oggi a realizzare il sogno di tutti: il sogno della fama.
Da poeta, cioè dalla visuale di uno che per sopravvivere ha sempre avuto bisogno di nascondersi, personalmente questo sogno mi è stato sempre incomprensibile, perché in questa epoca la fama arriva per schiacciarti, per immolarti all’estetica contemporanea che aborrisce il segreto e le zone d’ombra. Della persona famosa si sa o si presume di sapere tutto e quel presume getta un’ ulteriore ombra sulla stessa persona famosa: non è che ci nasconde qualcosa, non è che forse non si dà a noi pubblico in tutta la sua sconcertante nudità? Per gli artisti che arrivano alla fama di massa come il protagonista di questo romanzo; non c’è scelta: vivisezionati, cannibalizzati essi non possono che desiderare la non esistenza, l’anonimato a costo di arrivare al suicidio, come Kurt Cobain. Così Bucky Wunderlick la rockstar protagonista del romanzo già nello straordinario incipit afferma: “ Forse l’unica legge naturale connessa alla celebrità vera consiste nella sicurezza che il celebre prima o poi è spinto al suicidio”.
Ecco, l’incipit di Great Jones Street, basterebbe questo, per riconoscere a DeLillo doti di grande scrittore, è un incipit perfetto che sintetizza magistralmente la sua visione, in uno stile fulmineo, conciso, tigresco nella sua aggressiva tranquillità, che lascia anche margini alla realtà caotica che si intende raccontare, uno dei migliori incipit, a mio avviso, della letteratura americana del Novecento, all’altezza dei più belli: ho in mente Tropico del cancro di Henry Miller, L’urlo di Ginsberg, Belli e dannati di Fitzgerald, certe cose di Faulkner o di John Fante ( ed è riconoscere molto a DeLillo).
La traduzione di Marco Pensanti ci restituisce efficacemente l’eco della prosa dello scrittore americano, che brilla anche nei momenti più minimali del romanzo, come quando descrive il vicinato di Bucky, il quale ostentatamente si rinchiude in un monolocale di New York, “tempio profanato, mio luogo di nascita” per sfuggire alle conseguenze terribili della sua stessa fama, perché questa ha generato nel pubblico una sorta di furia omicida verso di lui rivolta. La furia omicida scatta nel momento in cui il pubblico adorante, restituito dalla musica alla sua “ corporeità non più etichettata” non sa letteralmente che fare e allora segretamente comincia a desiderare, in realtà a invocare, la morte dell’artista, la sua auto- crocifissione, se vogliamo, che dia un senso tragico alla sua noia di entità massificata. Perché il pubblico attende che dal sangue dell’artista gli arrivi l’ultima definitiva consacrazione e l’ultima, la più enigmatica, delle rivelazioni.
Così DeLillo mette a nudo lo star system, la paranoia di cui consiste, anche inserendo a metà del romanzo brani di interviste e canzoni (splendide) in cui la rockstar diventa mito, e mostra come questo mito sia già l’apoteosi di ogni strumentalizzazione; come quando la giornalista chiede infoiata, vedendo quella che lei stessa chiama ”l’attuale compagna” del genio, ragguagli circa un eventuale matrimonio - gabbia in cui i suoi lettori possano gongolarsi del mal comune mezzo gaudio di prammatica: è uno di noi, comunque.
E’ il sistema verbale che cerca di ingabbiare colui che ha rotto le gabbie, lo vuole relegare all’aspetto larvale di quelle mummie altolocate che chiamano vip. Ma a Bucky si chiede di recitare il suo ruolo di capro espiatorio fino in fondo, fino ad immolarsi. E’ una visione cristica, dionisiaca, prometeica dell’artista, una visione romantica che sono forse gli artisti stessi ad aver messo in atto: è il meccanismo della loro immolazione, che può avvenire e in genere avviene con la loro neutralizzazione. L’arte non può che essere eversiva in un contesto bloccato come quello dei Media, incarnazione del gusto medio e perciò mediocre. Se gli artisti sono eversivi allora bisogna a maggior ragione che diventino dei feticci culturali inoffensivi, buoni per i salotti, reperti museali adatti per far gozzovigliare l’erudito, la critica. Ecco allora il marketing, con tutto il suo affilato apparato mitologico a fare da intermediario fra le proiezioni del pubblico e il corpo stesso della rockstar. Tutto questo per imbalsamarla viva.
Great Jones Street è tra le altre mille cose l’indagine più accurata che io abbia mai letto sul mondo del rock a cavallo degli anni sessanta e settanta, e infatti su tutta l’opera aleggia il fantasma di Jim Morrison, capro espiatorio della generazione dionisiaca; perché Bucky Wunderlick sembra realizzare una sorta di progetto politico - erotico affine a quello di Morrison, ed è sempre la solita storia dell’ispirato dal dio, del vate, dello sciamano, del guru, che rifiuta però di essere tutto questo, “I can’t be your guide”, perché la guida che cerchi è dentro di te: sei tu. Con questo libro DeLillo ci regala una delle più belle figure di rockstar, forse l'estrema e la più coerente, della storia, sia essa quella reale dei cosiddetti fatti, sia quella immaginaria della letteratura.
Great Jones Street è la storia di un “burocrate dell’inferno”, una rockstar- imprenditore di se stesso, che gioca la sua vicenda nell’arte intesa anche come calcio nel sedere allo stesso meccanismo capitalistico che imprigiona ogni grido, “ genio tacito del sopravvivere“; la cui mente è assorbita della Paranoia delle masse. Egli cerca di allontanare da sé il suo stesso culto, perché come cantano i Csi:
“ Non fare di me un idolo mi brucerò /Se divento un megafono m’incepperò”.
Bucky Wunderlick è una creatura che vive tutta la schizofrenia del capitalismo frantumato, e raccoglie i cocci della sua immagine disintegrata e disintegrata a forza di mitologie, leggende, metafisica. Ecco dunque il rock, per restituirci alla carne, all’esperienza individuale e solitaria, esperienza dell’infanzia, ”corporeità non più etichettata”, sintetizza magistralmente DeLillo.
Inevitabilmente sebbene mai citato del romanzo, è il dionisiaco che vuole irrompere sulla scena per svelare la trappole della Maya, così bene incarnate anche solo nell’espressione star system, sistema stellare, costellazione della Paranoia. Da qui l’idea di chiamare “ il coacervo di holding, fiduciarie, acquisizioni e cabale finanziarie” a lui legate, con il nome di Transparanoia, con l’idea- che Bucky ha come illuminazione in un momento di estremo sconforto,- di mostrare un oltre, nello sforzo di un superamento, per spezzare il cerchio magico della Maya- Paranoia.
DeLillo dunque con questo romanzo straordinario si lascia assorbire da quelle “ regioni così estreme ” , “mostruose e vulvari, “ che connettono la celebrità con il suo pubblico e ci mostra, oltre ogni ragionevole dubbio, che la vita diventa spaventosa, sotto gli ustionanti riflettori della fama.
Perché finendo il diritto al segreto finisce la privacy e con essa la libertà. Inizia l’era della paranoia. In questa realtà in cui siamo immersi il creatore, l’artista, il fingitore, che ha in sé immensi spazi di segreto, deve perciò essere immolato oppure nascondersi, perché fondamentalmente è un traditore. Il pubblico lo sa :”Ci tiene nascosto tutto. Non dirà mai la verità”.
6 commenti:
E' come cercare continuamente il grado perfetto di silenzio da osservare, o la misura della luce di un'ombra. o anche la tensione esatta di quel filo sospeso... La tentazione sempre più spesso si affaccia di opporsi ritirarndosi, finalmente sparire, in una oscurità che sia certamente propria.
E' proprio così, Elena, ritirarsi nella propria oscurità, in cerca di un'illuminazione, che per il protagonista del romanzo è di tipo quasi mistico.
Mentre andavo avanti nella lettura, mi è venuto in mente il protagonista di "Il profumo" di Süskind, sbranato dalla folla adorante.
Poni delle questioni fondamentali: la libertà, l'indipendenza sono essenziali per creare; lo star system nega sicuramente queste necessità. Da qui il senso di estraniamento che deve provare un "idolo" e la conseguente vocazione all'annullamento, estrema, unica e paradossale maniera di riprendersi la libertà . Ma, forse, come tu stesso forse suggerisci, anche il suicidio non sarebbe altro che un cedimento alle aspettative di un pubblico che reclama vendetta.
Ciao, Eugenio. E' sempre bello fermarsi qui da te.
"il suicidio non sarebbe altro che un cedimento alle aspettative di un pubblico che reclama vendetta."
Sì, Giacinta, è esattamente quello che penso, ma non è solo la vendetta che il pubblico desidera, ma che il suo idolo venga consacrato e consegnato alla memoria dalla morte.In un certo senso, che venga storicizzato.
Grazie di essere passata di qui.
L'artista diventa un fallo, un feticcio e stenta a scomparire anche quando, come Cormac McCarthy, si ritrae dalle interviste e tenta di non farsi catturare cadavere, rampognato chissà da quanti carondimonio.
Il problema è uno in realtà, ben individuabile. Se l'arte crea un'etica (che poi secondo me è sempre già stata creata: al massimo "riporta" un'etica) essa va posticciamente in collisione coll'etica-domino che divora tutto, anche il diverso, l'etica diversa. Non la teme affatto. In questo budello a ciel aperto l'artista diventa il cavaliere, perché è difensore di un'etica, quella diversa o quella identica, sempre un vettore è. Se diventa cavaliere diventa feticcio e il feticcio si può mangiare.
Ma se la tua arte è completo spreco. Se le tue frasi sono completo spreco. Non riflettono né dentro né fuori, se tu non sei in casa, svagoni, te ne vai per la campagna mentre la tua casa è assalita dagli epuratori, se tu non fai metafore. Se le tue immagini sono pensieri non pensati. Sono lì, gocciolano. Non rientrano nell'espressione. Non rimandano ad un concetto, come succede in Joyce, come succede in CB, allora la tua arte non è più tua, e la società non può beccare nulla se non la cenere incenerita, il tuo cadavere che mangia il verme e ne viene mangiato all'infinito.
Persa la immedesimazione artista-opera, la critica se la prende sui denti e con essa ogni forma di manomissione.
Non c'è più trippa né briciole ma solo inutili fuori-essenze putrefatte al secondo.
"Se diventa cavaliere diventa feticcio e il feticcio si può mangiare."
Ecco è proprio questo che accade. Forse anche a chi cerca di sottrarsi(azzeccatissimi i riferimenti a C.B e Joyce).
Grazie del commento Daniz.
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