Nel caffè della gioventù perduta – Patrick Modiano

sabato 6 febbraio 2016









  “Nel caffè della gioventù perduta” è un’espressione di Guy Debord, citata  anche nell’epigrafe di questo strano,  e  alla fine deludente,  romanzo di Patrick Modiano, edito in Francia nel 2007, prima che l’autore vincesse nel 2014 il premio Nobel per la letteratura. Lo leggo nell’edizione Einaudi uscita nel 2010  per la traduzione di  Irene Babboni.

Romanzo  che pare un po’ confuso,  in cui le  quattro voci narranti si mescolano in un alternarsi di piani e di flashback; tutto ruota intorno  a  una ragazza enigmatica, soprannominata Louki, e al locale che lei frequenta, Le Condé. Romanzo parigino ricco di luoghi,  di volti, di nomi, in cui è la labilità, la fragilità della memoria  a  regnare su personaggi trascinati dalla corrente dell’oblio.

Louki  ricorda la Nadja raccontata da Breton, è una ragazza sfuggente, che catalizza l’attenzione altrui senza accorgersene, e senza accorgersene diventa centro di un intreccio narrativo che,  però,  pare faticoso da seguire e un po’ debole. Il moltiplicarsi dei punti di vista disorienta, in un romanzo breve di neanche 120 pagine, e la scrittura, pur cercando fluidità, pare evanescente, impalpabile, sonnolenta, in definitiva poco ispirata.
  
Nel caffè della gioventù perduta vuole essere un romanzo d’atmosfera ma fallisce nel suo intento e scivola via più o meno nell’indifferenza. Qualche frase qua e là rende più sostanziosa l’esperienza di lettura; la Parigi di Modiano è una città spettrale, lunare, che sembra ingoiare come un buco nero i personaggi che l’attraversano. La trama,  però,  è inconsistente, sembra girare a vuoto,  tutto pare avvolto in un particolare sopore ipnotico, tutto vortica in maniera un po’ inspiegabile intorno a un personaggio, Louki,  il cui ostentato mistero è un po’ fantomatico, costruito, artefatto.

Anche nella struttura, il romanzo mostra delle visibili crepe, troppi personaggi appena accennati, troppi luoghi intravisti e subito dimenticati. Così l’insieme dà l’idea di un oblio onnipossente che cancella la memoria delle persone, dei fatti, delle strade, dando la sensazione che questa vicenda sia solo un sogno.

Si ha l'impressione che Modiano  ceda troppo facilmente alle lusinghe di una scrittura delicata sì ma un po’ vuota e insipida e che il girovagare senza scopo dei suoi personaggi sia la cifra di una futilità troppo esibita.

Del romanzo rimane così la sensazione di qualcosa di non compiuto, di un ‘opera il cui mistero è artificiale, la cui profondità è solo illusoria.

L’aspetto più interessante del romanzo, come anche in Nadja di Breton, è la ricostruzione di questa Parigi labirintica in cui è più facile smarrirsi che trovarsi, una Parigi in cui si gira in tondo senza venire a capo di nulla, in cui basta cambiare quartiere per svanire. È la trasformazione della città contemporanea, ormai divenuta, come nelle considerazioni di Debord stesso, da luogo di incontro luogo di desolazione,  solitudine e isolamento. La scrittura stessa insegue questo smarrirsi e intersecarsi di luoghi tutti ugualmente dimenticabili. Ciò che trasmette Modiano è l’afasia emotiva dell’uomo moderno, l’impossibilità di stabilirsi in una realtà solida, l’evanescenza della memoria diventa così fisica  e la città ne è il fedele specchio. Ma anche il malessere è vacuo, senza sostanza, non ci  sono punti fermi nemmeno nel dolore,  nulla cui aggrapparsi. Uno dei personaggi riflette sul concetto di “zone neutre”, zone di passaggio senza nulla di particolare, così la stessa Parigi finisce per assomigliare a un luogo di transito casuale di esistenze a loro volta dominate dal caso.

Tutto si ripete in un eterno ritorno dell’uguale che ha la monotonia di un’ossessione, tutto si consuma e precipita nell’oblio. Questi personaggi sono banderuole mosse dal vento di un onnipervasivo disagio che Modiano,  però, fatica a definire.  Ecco,  lo scrittore francese si  è come intrappolato in una vicenda in fondo caotica,  dai toni troppo vaghi, dalle atmosfere troppo sognanti,   dalla malinconia un po’ vischiosa.

Il romanzo è dunque incerto, il cupio dissolvi che attraversa questi personaggi e questi luoghi non è sufficiente a garantirgli  la solidità tragica della grande letteratura. E dire che questo libro aveva buone chance  di piacermi: un titolo splendido, che però è di Debord, la dimensione del bar, sognante, pigra e gattesca, la protagonista un po’ folle, che è davvero “lanima errante” di Breton,  appunto. E invece… Dopo questo romanzo, francamente, il desiderio di approfondire Modiano viene un po’ meno.



4 commenti:

Mia Euridice ha detto...

Ho provato a leggere Modiano.
Ci ho messo buona volontà, ma non lo capisco.
Lo trovo contorto, faticoso e confuso.
Ma penso sia colpa mia: ho dei limiti, non posso leggere tutto tutto!

Elena ha detto...

A me questo libro non era dispiaciuto, è stata una lettura piacevole e sognante. L'aspetto che mi era parso più interessante era l'infanzia della protagonista, il rapporto con la madre. Concordo però, molto d'atmosfera e piuttosto inconcludente. Si, siamo lontani dalla grande letteratura.

Ettore Fobo ha detto...


@Euridice

Concordo con il tuo giudizio. Non ho molta voglia di leggere altro.

Ettore Fobo ha detto...

@Elena

Io l’ho trovato un po’ noioso. L’ho preso perché mi piaceva il titolo e in fondo mi ha deluso. Però hai ragione, il rapporto della protagonista con la madre è interessante. Andava sviluppato maggiormente, forse.