sabato 9 aprile 2011
Chi sono? Domanda il cui senso è solo nella tristezza scimmiesca che essa suscita in chi se la la pone, cioè in tutti, mettiamola così, ciascuno è roso dall’interno da questa insicurezza ontologica originaria. Sappiamo bene infatti, nell’ inquietante profondità di noi stessi, di essere niente, perché illudersi dunque di avere in sé una fantomatica sostanza, essenza, da conoscere? Senza contare che questa domanda presuppone un sé stabilito, definitivo, e non quella fluttuazione di cui consiste in realtà l’attività psichica. Chi sono? ha una durata inquietante. La sua eco è derisoria sempre, la sua risposta una dichiarazione di disfatta, il suo enigma ha la stoffa di un Arlecchino demente.
Troppo, infatti, su tutte le velleità d’esistenza risuona la violentissima constatazione del nulla o se non altro riecheggia l’intuizione di un se stesso indicibile, non lo scarto etichettato di una grossa multinazionale dell’identità, ma forse proprio un nulla in nostro possesso, da plasmare: noi stessi, la nostra più privata creazione.
Tuttavia tutti si agitano, e cercano espressione, si manifestano, gridano la loro esistenza ai quattro miserabili venti, e ogni tanto si chiedono: Chi sono? E ai migliori, ne sono certo, gli si ghiaccia il sangue nelle vene. Però poi tutto fugge inesorabile, si perde nel gran flusso delle motivazioni, dei narcisismi privati o collettivi, e questa arida colpevolezza diventa un incubo passeggero. E’ la vita, così deve essere.
Ma noi non possiamo ignorare che anche sulla nostra ombra, che vorremo tenere celata, incombe la maledizione dello specchio, Chi sono? È un grido funebre, un’avvilita constatazione di smarrimento un poco cosmico, talvolta, chi non la conosce?
L’impossibilità di rispondere ci lacera tutti, da giovani, finché conosciamo o ci illudiamo di sapere bene la risposta, sappiamo o crediamo di sapere quali burattinai tirano le fila della nostra coscienza, fissiamo ovunque, nelle strade, nei film, nei libri, narcisisticamente noi stessi, eppure, fatalmente, la domanda continua a rimanere senza risposta, perché ciò che siamo è spesso una costruzione mentale, una fantasia, un modo di raccontarsela. E comunque al fondo di quell’ironia che chiamiamo noi stessi, l’amara o rassicurante consapevolezza del nulla, un nulla che quotidianamente siamo noi a tessere e plasmare e che quindi, inevitabilmente, c’incanta.
Chi si conosce unicamente come maschera, vive una piccola esperienza metafisica, dove la mistificazione permette il gioco delle apparenze e degli inganni di cui si consiste. Nessuna verità da dire, nessuna essenza da rivelare, chi sono? si rivela una domanda senza senso.
Invece, chi dice io sono io si condanna all’immobilità della pietra, alla staticità di Dio, del dio che è un “cadavere appeso”, perlomeno.
8 commenti:
caro Ettore, ammettere la propria non esistenza o per lo meno acconsentire alla sua essenza fluttuante in mezzo ai flutti di significanti... mbè non è sforzo da poco. La persona per esser tale, anche quando intravedere tra le piaghe del suo esistere dei guasti, tende a riaccordar sé stesso come una chitarra stonata. Tornare sul dritto. Mai smarrire lo smarrimento.
Oggi più che mai domina un senso di fissità pietrosa. Il personalismo non ammette smarginature. Binari senza curve. Ammettere l'esistenza di Dio vuol dire premettere la propria di esistenza, oppure non resta che negarle entrambe e trovare una scappatoia. Se fossimo nati animali ebbasta, non sarebbe stato così difficile scremare le nostre maschere, avremmo grugnito e spurgato nei trogoli e corso in mezzo ai prati deculturalizzati, sprossemizzati, nell'apoteosi del pensiero immediato. Ma siamo nati in mezzo a costruzioni che dalle palafitte ci han sempre più allontanati dall'acqua e tornare in basso è sempre più impervio e nauseabondo. Bisogna rassegnarsi alla rassegnazione.
Hai scritto un post potente e bello.
Ciao Ettore
"Mai smarrire lo smarrimento"
"Ammettere l'esistenza di Dio vuol dire premettere la propria di esistenza, oppure non resta che negarle entrambe e trovare una scappatoia."
E' esattamente questo, non posso che essere in sintonia. Un saluto Daniz.
Già Schopenhauer scriveva che chi guarda al fondo di sé stesso non trova che un fantasma inafferabile. Il buddismo originario proclamava la vacuità di tutte le cose.
La civiltà umana nel suo complesso è una ininterrotta fuga dal vuoto.
Pur di sfuggire al vuoto che siamo, costruiamo ponti strade, scriviamo libri, facciamo figli e scateniamo guerre.
la speranza che non riusciamo a smettere di sperare è che dietro questo vuoto ci sia qualcosa.
Ma non lo sapremo mai.
CIao e grazie
Massimo
Non credo nella non-esistenza...piuttosto nell'essere nulla (ben diverso dal non essere).
Quando (se)si giunge all'unica consapevolezza possibile dell'essere nulla, forse si puo' apprezzare quell'unico barlume di liberta' che ci e' concesso.
Il prezzo da pagare sicuramente e' la fatica necessaria per staccarsi del pensiero rappresentativo dell'identità e andare in una dimensione solo temporale (identità come inizio-fine??)
Tutto cio' per vivere meglio, probabilmente.
Concordo con Daniz, bell'articolo, ma un appunto...lo avrei preferito come commento legato ad una o piu' opere sull'argomento.
Cioran si è spinto lontano in questo senso fino ad affermare che: "Chi non riconosce la propria nullità è un malato di mente".
Grazie a te Massimo.
Lo sforzo è proprio quello di uscire dalle rappresentazioni autoingannatorie, che in fin dei conti sono solo dei pesi.Grazie del commento Federico.
Buone notizie: il fardello dell'identità è stato, e di nuovo sarà, tolto dalle nostre fragili spalle. Domandarsi "chi sono?" è un'abitudine, o un vizio, che gli uomini non hanno avuto sempre o dovunque: è il frutto (delizioso per alcuni, velenoso per tutti gli altri) di una cesura che la cultura greca, e quelle ad essa imparentate, operarono separandosi dall'immane, pacifica, incrollabile tradizione che affonda le sue radici nell'Imperituro e che risponde serafica: "Tu non sei nessuno, appena una tenue e precaria vibrazione nell'essere. Non hai più individualità, o autonomia, di un'onda del mare che è solo una parvenza ed è fatta a ogni istante di acqua diversa." I greci non si sono accontentati, e questo ha portato all'etica, alla filosofia, alla politica e a tutte quelle cose il cui nome deriva dalla loro bella e musicale lingua. Ma infine non abbiamo trovato una risposta migliore. Nel resto del mondo, come prova la storia, questa domanda sull'individuo non se la sono mai posta. E se leggo bene i miei fondi di caffè, stiamo per smettere di porcela anche noi.
Un caro saluto
Yeats sosteneva giustamente che il novecento era l'epoca in cui tutti volevano essere se stessi. Misera e vuota epoca! Speriamo che tu sia un buon profeta, Yanez, perché non se ne può più. Un caro saluto anche a te.
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