Moses - Piero Bigongiari

sabato 11 giugno 2011



Scritto fra il 1971 e il 1977, Moses appartiene alla piena maturità di Bigongiari e pare un’avventura ai limiti stessi della lingua, colta nel suo deflagrare anche insensato, nelle sue antinomie. Insensato perché eccessivo vorticare semantico, florilegio di metafore che sembrano annullarsi una nell’altra.

Traverso una ”metrica pulsionale”, emorragica, il poeta dischiude la possibilità di una poesia oggettiva, tutta cose ed eventi misteriosi, in cui l’io sembra scomparire, per inabissarsi nel suo stesso svanire ed è forse questo l’evento principale del poema.
 
Poema che affronta il tema del viaggio come dissoluzione dell’io nel paesaggio stesso, alla ricerca di un ”antiparola” che invece di rendere conto del reale, di testimoniarlo, lo nasconda in un irrivelato sfondo di mutazione di senso: la parola non è più usata per comunicare o per esprimersi, ma per stupire. Varcati i confini dell’oblio, Bigongiari semina una scrittura elusiva e dirompente, che sembra vivere soltanto nell’impeto melodico, nel suo fluire di fiume che esonda dall’alveo del senso, per recuperare, in una vertigine di sparizione, quello che Savinio, fra gli altri, chiama “il fondo metafisico” della realtà.

La domanda sul senso, sulla finalità dell’opera, galleggia così un po’ incongrua, la poesia ermetica non si pone altra finalità che non sia far vibrare quella che Baudelaire chiamava “l’oscurità naturale delle cose”. Qui sembra realizzarsi il creazionismo di Huidobro, la poesia non imita la realtà, ne crea sistematicamente un’altra, non serve a spiegare le cose ma renderle indecifrabili, perché esse tali sono, anche se al linguaggio comune, sclerotizzato, questa indecifrabilità ripugna, il poeta vive sempre sulla soglia dell’enigma, vive nel vuoto fra la parola e la sua eco, in quel battito d’ala di farfalla che è il verso. Verso che sulla pagina di Bigongiari sgorga come sospeso su un precipizio, memore della sua umbratile fragilità, il poeta dandoci quella vertigine e quel desiderio di assoluto, ma al tempo stesso sottraendoci letteralmente la terra sotto i piedi, dove la terra è il linguaggio consueto e consunto che calpestiamo ogni giorno e che ogni giorno in realtà ci calpesta.

Quella di Bigongiari è la creazione di una lingua - ombra, una lingua - fantasma, però più viva di quella che usiamo normalmente per parlare, per conversare: è la lingua della grande poesia, spesso inaccessibile, impossibile da comprendere, proprio per questo però necessaria, necessaria in quanto salvifica esplosione della sostanza stessa del linguaggio, espressione estrema della sua natura non naturale e totalmente artificiale.
Leggendo questo testo di un poeta che appartiene alla corrente dell’ermetismo, comprendiamo come la poesia sia fondamentalmente intraducibile e come sia vano, se non addirittura distruttivo della sua essenza stessa, ogni tentativo di una scolastica parafrasi. Bigongiari crea un linguaggio rutilante, emozionante, vivo, che vive però solo all’interno del sistema verbale che lo rende coerente, al di fuori non traspare quasi nulla, se non la foga ritmica, la suggestione alchemica di una parola consapevolmente usata per infrangersi sullo scoglio del non detto. Bigongiari sottrae alla lingua insanguinata del mondo una parola altra, una parola misteriosamente esatta, paradossalmente svuotata per accumulo di impressioni, che nascondendo rivela e rivelando nasconde, in un continuo processo dialettico da vero capogiro.

Mi sembra che Bigongiari operi per accumuli improvvisi e improvvise sottrazioni, quasi sottraendo al verso il suo centro, facendolo erompere nella sua violenza centrifuga di vortice duplicabile all’infinito. Il sottotitolo è frammenti del poema, l’aspetto frammentario dell’operazione è quindi fondamentale, si sovrappongono le epoche, si moltiplicano i luoghi, l’oscurità del dettato è esaltata dall’esattezza con cui ogni parola sembra imprimersi sulla pagina, mai scontata, quasi sempre sorprendente e stranamente necessaria. In tutto questo l’io parlante è solo un “alone”, sommerso da una dimensione in cui “il silenzio scricchiola” e “la parola/ così consuma il suo significato.”

Quella di Bigongiari pare essere scrittura dell’oblio, dell’abbandono, di quella dimensione fluida e priva degli impacci del voler dire, del voler significare. E’ un gioco d’illusionismo, pura suggestione, è dunque vero che in fondo il poeta cerca sempre, come scrive Pound in una sua poesia, l’assoluto insignificante. Scrittura dell’oblio, che tutto trasforma e trasformando consacra e dimentica. Non a caso una delle sezioni del poema, dodici in tutto, s’intitola Il senso attraversa l’oblio.

La scrittura di Bigongiari è colma di assonanze, rime interne al verso, ed è in parte rivolta a un tu amoroso, che serve al poeta per attuare quel processo di “disidentificazione” di cui egli stesso scrive nella invero un po’ oscura nota finale. Tramutare “ il gioco del visibile in altro, in invisibile” sembra essere uno degli scopi del poeta, la storia è colta nella sua essenza collettiva, non è più “ la mia storia, la tua storia, la sua storia, la storia dell’io e la storia dell’altro”, fino a raggiungere “la preistoria dell’io parlante”, sbriciolando il senso quotidiano e adulto, quasi per ritrovare la sostanza non visibile, non manifesta, non parlante. Ancora una volta risuona la lezione di Levi- Strauss, per cui tutto il nostro discorso più evoluto tende a ripristinare le suggestioni del “pensiero selvaggio” e primigenio, azzardo che, nelle intenzioni di Bigongiari, propone un vero “choc epistemologico”.

Dio è una presenza costante, ma ci guarda attraverso “gli occhi mongoli / di un bastardo”, ed è fondamentalmente un “Dieu masquè ”, un Dio che tace, “nel fragile guaito di ogni giorno”.

La poesia di Moses testimonia dunque di uno sforzo immenso: ritrovare il “segno più intenso prima della parola”, forse quel silenzio che consiste in un’infantile e pietrificata stupefazione, in cui le cose possono continuare a galleggiare misteriose e irrivelate. E’ la vertigine di un discorso incomprensibile, che non si lascia comprendere, cioè definire e delimitare e aspira dunque a essere misteriosamente inesauribile. In questo Bigongiari ci è maestro: nel dar forma un verso che è come un vento che in un bosco fa stormire delle fronde, noi l’udiamo, vediamo l’agitazione che suscita ma non possiamo assorbirlo completamente. Ci è estraneo, ci sfugge, ma la sensazione è che attraverso quel vento un dio, il non umano, abbia per un attimo increspato la superficie della nostra pelle. Il poeta sembra svelarci, come fossimo in un sogno ”il limite trinitario/ incerto tra ciò che è, ciò che sarà, ciò che è stato”, esperendo linguisticamente la potenza non concettuale del vuoto:

“perché dal profondo il respiro è uguale al sangue
e io non altro che miro che quanto scompare per esser qui
sangue o mare, questa coppa vuota di tutto
fuorché del suo raccogliersi, a svasarsi, col proprio vuoto.”

Moses è uno di quei libri che un’intera vita non basta a esaurire, è questa la grande poesia in fondo, forse neanche l’infinito la sfiora, perché anche l’infinito è un concetto e, per quello che vedo io, la poesia non si occupa di concetti, ma della loro deflagrazione.

Come scrive Bigongiari “cosa v’è che non sia un’altra”, così tutto vive nella duplicità e forse anche questo è il senso del tu, cosi tanto reiterato nel testo: noi siamo un colloquio, altri perfino per noi stessi.

4 commenti:

lazard ha detto...

non conosco questo poeta, mi sa che devo recuperare. tanto più che bazzico solitamente poeti canonici, nell'accezione di classici.

il problema della lingua è nulla se non ha in germe quello del linguaggio che trascende la lingua. a me piacciono quegli autori che con una parola, usata a mo' di temperino, aprono la pancia alle cose. ciò che esce da quelle viscere... vermi, terra, fiori, sale, vapori di stazioni, chiacchiericci... importa relativamente. però odio le maccheronate. i maccheronici. lo sforzo è l'uniformità, anche nel negare il mondo. quando Sanguineti scrisse in una poesia "il mio stile oggi è non avere stile" in realtà non andava oltre lo stile, ne mescolava a bizze per farne uscire una tela dozzinale. è quello che ha fatto la neoavanguardia storica... ha fatto casino.
forse comunque mi sono allontanato dalla casa madre, così, com'è che scrivono i blogger: OT... ?


ciao Ettore, la poesia è sicuramente un cibo più nutriente della prosa (sempre restando che il nutrimento non libera dalle catene, anzi, ne può creare di più inossidabili... ma dato che l'essere da qualche manetta deve pur essere contratto, meglio da quelle più dolci)

Ettore Fobo ha detto...

Neanche a me piace Sanguineti, lo trovo abbastanza patetico, oh la stanca ispirazione degli addetti ai lavori letterari! Gente che forse in gioventù ebbe un'idea, e poi campò di quella o, peggio ancora, della sua perdita; da qui il fondo luttuoso dei loro stanchi ghirigori.

Di quello che hai scritto sottoscrivo soprattutto questo:

"a me piacciono quegli autori che con una parola, usata a mo' di temperino, aprono la pancia alle cose. ciò che esce da quelle viscere... vermi, terra, fiori, sale, vapori di stazioni, chiacchiericci.."

Ecco, se ci pensi è quasi un'operazione di magia, io credo che il poeta soprattutto debba avere nel sangue questa attitudine a sviscerare le parole, che poi, se è vero che"la realtà è un gioco linguistico", sono l'essenza delle cose stesse, o perlomeno il nostro modo di percepirle. Ciao Daniz.

La vita a quadri ha detto...

Davvero un bel commento, linkerò a questa pagina dal sito ufficiale di Piero Bigongiari: www.pierobigongiari.it. La mia mail è info.piero.bigongiari@gmail.com. Un saluto da Paolo Fabrizio Iacuzzi.

Ettore Fobo ha detto...

Grazie del complimento, un saluto.