sabato 5 gennaio 2013
La montagna è la vera
protagonista di queste storie, che Mauro Corona ha raccolto e strutturato come
romanzo sui generis, intitolato Nel legno e nella pietra, dove racconta
della sua vita, anche turbolenta, dei suoi
molti mestieri (da operaio in una cava di marmo a cameriere in una gelateria
tedesca, a scultore del legno), sempre tenendo presente le antiche tradizioni
della valle del Vajont, con i suoi spettri, le sue volpi, i suoi cervi, le sue genti.
Si configura così un racconto
epico, dove l’epos è quello semplice della
pietra e del legno, della montagna che sembra raccontare essa stessa queste
storie, in un mondo che forse ha perso l’anima inseguendo sogni vani, la
montagna rimane luogo di calma e di silenzio, di magia e di mistero, di realismo
anche spietato.
Alcune storie sono commoventi, altre divertenti, altre ancora entrambe le cose insieme, nella sostanza Mauro Corona ci racconta della sua vita con onestà, ci racconta dei suoi successi come rocciatore e, soprattutto, delle sue sconfitte, perché la montagna è amara e difficile, sempre lasciando trapelare le pulsazioni di un cuore indomito.
Narratore e protagonista così si
confondono, e la letteratura si rivela luogo della memoria, che fa rivivere i
morti, rammemorando il loro percorso, nella consapevolezza, comunque, che una
volta svanito il ricordo, nulla resta su questa terra del nostro passaggio.
Mauro Corona però racconta anche con umiltà della sua fede nell’”amico di lassù”, come lo chiama,
presenza che si oggettiva nella natura, nei suoi usignoli inondati di luce, per
esempio, o nei miracolosi salvataggi che chi frequenta la montagna con i suoi
pericoli ben conosce. Questa fede è antica,
popolare, forse consapevolmente ingenua ma connessa con le terre montane, fusa
con le sue rocce e con le sue vette.
Nel legno e nella pietra, originariamente uscito per Mondadori nel
2003, è un romanzo misteriosamente compatto, nonostante la frammentazione, dove
le varie storie sono ben cucite insieme dalla voce del narratore, che è a
tratti rocciosa come la montagna, a tratti commossa, sempre molto umana,
vivace, vitale. I personaggi di queste valli, che siano alpinisti, bracconieri,
spaccapietre, o ubriaconi senza arte né parte, sono per lo più espressioni di
un’Italia che non c’è più, da qui la nostalgia che permea molti brani di questo
romanzo a episodi.
E’ un’Italia semplice, non ancora
drogata e narcotizzata dalla televisione, che Corona racconta nei suoi
splendori e nelle sue meschinità. Su
tutto svetta, comprensiva, materna ma anche terribile, la montagna, che non può
essere addomesticata, presenza selvaggia che ama e si lascia amare.
Il romanzo si legge volentieri,
tutto di un fiato, come si dice, perché è animato dalla voce lucida, fluida e commossa,
di Corona, che ha creato un affresco di storie affascinanti, sospese fra un
passato mitico ormai evaporato e un presente tecnologico forse incomprensibile,
narrando di una vita, la sua, avventurosa e quasi d’altri tempi, che sono in
fondo i tempi della montagna, quieti e solenni. Così la montagna pare un luogo sacro o meglio
un luogo in cui il sacro si può dispiegare in tutto il suo mistero, luogo
magico in cui la vita e la morte appaiono nella loro pacificata naturalezza e
l’uomo non è solo con i suoi fantasmi,
come nella città, ma condivide l’aria con capre, camosci, caprioli,
cervi, etc.
Nel panorama italiano, fatto spesso
d’intellettuali esangui, la prosa, insieme rocciosa e sanguigna di Corona, è
dunque una novità; autentico uomo delle montagne, arrampicatore, alpinista,
cavatore, scultore, con mille storie da
raccontare, egli ricorda a noi, cittadini di metropoli ostili, la natura
selvaggia da dove proveniamo. In sostanza Corona è però consapevole che il
mondo che racconta è ormai scomparso, inghiottito dal progresso tecnologico, da
queste storie così emerge prepotente la nostalgia, che tanto caratterizza la sua prosa, altrimenti
vigorosa, semplice e schietta, come un piatto di polenta o come un bicchiere di
Cabernet.
“ Storie che vanno via veloci disperdendosi al vento come fili di fumo.
Il fumo è testimone di un fuoco. La legna finisce, il fuoco si spegne. Rimane l’odore del fumo, che è ricordo. Del
fuoco resta la cenere, che è memoria. Rovistando fra la cenere si pensa al
fuoco che fu. Ricordare fa bene, è un buon allenamento per resistere e tirare
avanti.”
7 commenti:
Mi sembra che lo stile della prosa di questo articolo, preciso ma anche poetico, musicale e sognante - non dico contraddica, ma almeno si ponga in un rapporto di sottile, dubitante, interrogante contraddizione dialogica con la conclusione pessimistica, peraltro più sconcertata e interrogativa, mi pare, che non affermativa.
Non per niente, un altro libro di Corona si intitola "Torneranno le quattro stagioni", e contiene racconti che uniscono una nostalgia struggente e un'amara considerazione del presente, a una semplicissima e proprio per questo commovente e convincente emozione di speranza. La speranza è una proiezione nel futuro, che prefigura un'aspettativa di cose positive, belle, felici. Qui la speranza si proietta però all'interno di un tempo ciclico (vedi il titolo) verso la fiducia incrollabile, da montanaro, dell'eternamente ritornante andirivieni dei cicli naturali. C'è speranza perchè il tempo è un ritornare, e niente può alterare questa semplice considerazione. C'è speranza, perchè il procedere rettilineo del tempo è inscritto in una radice atemporale, eterna, della stessa temporalità. Perciò i miti non conoscono una morte, nè conosce alterazione il piacere di un buon piatto caldo di polenta dopo una passeggiata in montagna d'inverno, accompagnato da un buon bicchiere di rosso.
Come hai notato anche tu, la visione di Corona è nostalgica, questo è evidente in alcuni passaggi di questo romanzo. C’è la constatazione che un certo mondo sia andato perduto e c’è il dolore per la perdita di persone care. Questa constatazione non induce alla disperazione o al pessimismo ma non è nemmeno allegra, ovviamente. C’è di base quella che potremmo chiamare una virile accettazione della caducità. Mi ha colpito molto questa nostalgia. Questo, essendo un libro di ricordi, non ha il futuro(speranza) come protagonista ma il passato(nostalgia).
La visione ciclica del tempo, però, indubbiamente gli appartiene, hai ragione. A conclusione del romanzo Corona cita, infatti, una considerazione di Pessoa, che riporto:
“Quando l’erba crescerà sulla mia tomba, sia quello il segnale per dimenticarmi del tutto. La natura mai si ricorda, e perciò è bella. E se avessero la necessità morbosa di ‘interpretare’ l’erba verde sulla mia tomba, dicano che io continuo a rinverdire e a essere naturale.”
Ritorneranno le quattro stagioni:
http://www.youtube.com/watch?v=Ia7CNAte3Dw&feature=youtu.be
Non ho mai letto Corona, ma la montagna mi ha sempre affascinata forse perché trovo che sia il luogo ideale per la sospensione temporale. Certo oggi gli artigli umani si sono agganciati ovunque e non esiste un posto che possa riportare al semplice contatto con una natura incontaminata, ma se Corona riesce a ricreare il mito, allora nel suo libro il tempo sarà quell'eterno presente delle origini, in grado di condurre il lettore in uno spazio sospeso dove ogni cosa diventa possibile...
un abbraccio
Sì, dappertutto l’umano ha ficcato i suoi artigli. Tranne che nelle profondità del bosco che rimangono inalterate. Corona le racconta bene, perché è in sintonia con esse. Ciao Maria, un caro saluto.
ovunque. tranne nelle profondità absconidte del bosco, e negli abissi inspiegabili, oscuri, antichi della nostra anima, dove l'eterno presente del mito è vivo, in fondo al pozzo, germoglia, canta, freme, palpita, sospira, mormora, ci manda messaggi che nel silenzio possiamo ancora ascoltare.
@ Diogene
Bisogna scavare dentro di sé per trovare il pozzo da cui scaturiscono le immagini antiche. Non è facile.
Posta un commento