sabato 16 febbraio 2013
La fortuna critica di César
Vallejo è da anni in costante ascesa. Egli rimane però sostanzialmente ignorato
dal grande pubblico, almeno in Italia, un poeta di nicchia amato soprattutto da
altri poeti, affascinati dalla sua fusione di ultraismo, modernismo, creazionismo e
linguaggio indio. Thomas Merton si è spinto molto in là nella considerazione
del poeta peruviano definendolo “il più grande poeta universale, dopo Dante”. Martin Seymour-Smith ha detto di
lui " il più grande poeta del XX secolo, in qualsiasi lingua". In
Italia il poeta Lucio Mariani gli ha recentemente dedicato un vibrante e commosso
ricordo: “Infinito Vallejo, sproposito umano, cuore capace del tuo corpo, dei
mille amati e d’oltre, voce che hai detto quello che il tempo ancora tace, luce
della candela malintesa, spada emotiva d’una guerra combattuta sudando
inchiostro d’anima e di sale, miniera generale di chiavi inestricabili”. Questa
grande considerazione critica non ha impedito, naturalmente, che fra
un’edizione e l’altra delle sue poesie in Italia passassero qualcosa come trentacinque
anni.
César Vallejo ha lasciato solo quattro
raccolte di versi, ognuna delle quali si segnala per una diversità di tono e di
tocco, per una sostanziale differenza stilistica, ogni opera si configura così come
l’espressione di uno scavo nel linguaggio e di un superamento, rappresenta una
lotta contro i cliché latino-americani del tempo e una rottura rispetto alla
tradizione poetica tout court. Solo quattro libri di versi, ma ognuno di essi unico, ognuno di essi con le
proprie individuali peculiarità.
Dagli inizi ancora influenzati
dal modernismo de “Gli Araldi Neri” (1919), agli esiti labirintici di “Trilce”
(1922), fino al recupero di un linguaggio colloquiale e a una resa di poesia
civile, operato in “Poemi umani” (1939) e “Spagna, allontana da me questo
calice” (1939), Vallejo è un poeta che trasforma il linguaggio in un’ arena
dove il poeta è un matador che prende per le corna il toro delle metafore e
delle analogie, è un poeta che trasforma la pagina in una
danza all’ultimo respiro, fin dentro il cuore del fuoco.
Questo è evidente soprattutto in “Trilce”,
capolavoro dell’avanguardia post bellica, libro che rappresenta uno spartiacque
nell’opera di Vallejo e probabilmente di tutta la letteratura ispanoamericana
del Novecento.
Scritto in gran parte durante una detenzione in carcere( Il poeta fu
ingiustamente accusato di aver causato un incendio, durante una sommossa) è una
complessa architettura di significanti, esplosione linguistica e logica, atto
di spezzare catene linguistiche, riflessione sulle strutture stesse del pensare
e del dire, labirinto in cui il poeta, guidato
dal filo d’Arianna del ricordo, arriva a
dolersi dell’assurdità dell’esistenza, in cui tutto passa senza lasciare di sé
che una flebile eco destinata anch’essa a essere presto dissolta.
E’ un tema che troviamo mirabilmente
definito anche in una prosa poetica contenuta
nella successiva raccolta” Poemi umani” dall’ inequivocabile titolo: “La
violenza delle ore” che inizia così: “
Tutti sono morti.” E si conclude con una frase insieme definitiva e glaciale: “E’
morta la mia eternità e sto vegliandola.”
Dal canto suo “Trilce” è
un’esperienza sensoriale, un’esperienza ai limiti stessi del linguaggio, colto nella sua dimensione di oracolo stranito, gettato con
fredda noncuranza aldilà del senso logico.
“ma la sera – cosa possiamo farle - si attorce nella mia testa furiosamente
non volendo dosarsi in madre. “
Non manca un certo gusto parodistico,
una propensione al sarcasmo:
“Donna che, senza pensare un briciolo più oltre,
apre il becco e comincia il predicozzo
con le sue parole tenere
come lancinanti lattughe appena colte.”
Accanto alla consapevolezza che il pensiero
inaridisce il sentimento, consapevolezza espressa in versi come questo : “E
muore un sentimento antico/ degenerato in senno”, troviamo rimpianti dell’infanzia: “che pazza
voglia ci è presa/ di giocare ai tori, ai buoi aggiogati/ ma tutto per burla,
per candore, come fu. “
“Trilce” è ben sintetizzato da Roberto Paoli, suo principale studioso italiano e traduttore dei versi qui ospitati, quando scrive che esso è il frutto di una “fatalità illogica, incalzante e sinistra” che già si evidenzia nel titolo, uno dei numerosi neologismi che costringono il traduttore a un tour de force immaginativo.
Indubbiamente siamo davanti a voragini semantiche fuse insieme, alla ricerca della diamantina perfezione di un “ tempo fuor del tempo”, qui il linguaggio si fa punto di sutura fra il tempo stesso e l’oblio.
Molto presente in tutta l’opera
di Vallejo, e sommamente in “Trilce”, la
dimensione del ricordo:
“ I grandi,
a che ora torneranno?
[…]
La mamma ha detto che non tarderà”
La madre è una figura emblematica, depositaria della tradizione e
grande veicolo di amore: “puro tuorlo infantile innumerevole, madre.” Sostanzialmente Vallejo attinge spesso alla
dimensione famigliare, oltre alla madre, a cui sono dedicate diverse liriche,
le sorelle Aguedita, Nativa (Vallejo fu l’ultimo di dodici fratelli) il padre,
il fratello Miguel, precocemente scomparso, sono protagonisti dei suoi versi.
La famiglia è il serbatoio di emozioni positive che rappresentano un argine
al dilagare dell’assurdità e dell’ingiustizia sociale, realtà quest’ultima che
spingerà il poeta verso una sofferta adesione al marxismo, in cui si fonderanno
il desiderio di giustizia sociale e la naturale empatia verso i poveri , che, se è già presente ne “Gli Araldi Neri” e in
“Trilce”, diventa assolutamente centrale in “Poemi umani “ .
In questa raccolta è presente un’esaltazione del lavoro, soprattutto
dei lavori più umili, come quello dei minatori
definiti “ creatori della profondità” nella poesia intitolata “I minatori
uscirono dalla miniera”. Sostanzialmente Vallejo vuole abbracciare l’umanità
sfruttata, redimerla e combattere il sopruso; qui il dato politico acquista
addirittura accenti messianici ed evangelici, pur rimanendo, nelle intenzioni, perfettamente
laico.
Dopo gli esiti a tratti solipsistici di “Trilce” sembra che con “Poemi
umani”, pubblicato comunque postumo e scritto durante il soggiorno del poeta a Parigi, Vallejo
voglia recuperare il rapporto con il lettore, restaurare un ponte comunicativo
che il libro precedente aveva forse spezzato. Questo perché il fulcro del libro
è proprio in quei rapporti definiti “interumani”, nella solidarietà, nell’empatia.
Se “Gli Araldi Neri” era influenzato dal modernismo, e “Trilce” era
attraversato da echi di creazionismo, “Poemi umani” è la raccolta in
cui il linguaggio di Vallejo raggiunge una propria sofferta e originale sintesi creativa fra ascendenze
così diverse.
Emerge anche una dolorosa consapevolezza dell’inutilità dell’esperienza poetica, espressa in una poesia come ”Un uomo passa con un pane a spalla” dove versi come questo: “Un muratore cade da un tetto, muore e non desina più. /Innovare poi il tropo, la metafora?” sembrano raccontare della lontananza dell’atto poetico dalla rude e difficile realtà sociale, come se esso, davanti alle contraddizioni del sociale, fosse una colpa.
In “Spagna, allontana da me
questo calice” allora la poesia diventa civile, politica, narrando gli eroismi
del movimento antifascista nelle vicende della guerra civile spagnola. Il tono
è accorato, ansimante, gli accenti messianici si accendono, il linguaggio si fa
evangelico, si notano tracce di ingenuità, nel complesso questa raccolta, anch’essa pubblicata postuma e scritta durante
il soggiorno parigino, mi pare la più
debole, la meno efficace.
Comunque sia, Vallejo ha lasciato un segno nella poesia del Novecento,
fra sperimentazioni linguistiche, marxismo e nostalgia degli affetti
famigliari, il poeta peruviano ha saldato il vernacolo indio al linguaggio dell’avanguardia
europea, realizzando una poesia di grande umanità e apertura morale alla sofferenza
dei cosiddetti deboli. La sua è una poesia insieme sentimentale e cerebrale, spontanea
e meditata, vicina alla tradizione e
aperta alle innovazioni.
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2 commenti:
Caro Ettore, un post molto interessante, scritto con il consueto garbo e sempre ricco di spunti e informazioni importanti. Confesso di non avere mai sentito neanche il nome di questo poeta quindi ne approfitterò per colmare una delle mie tante lacune. Del resto la conclusione del tuo articolo incuriosisce particolarmente chi si diletta con le parole. Mi riferisco alla fusione tra il vernacolo indio e il linguaggio dell'avanguardia europea, un'operazione certamente non facile e audace che gli sarà costata molta fatica...
un abbraccio
E’ faticoso elaborare un linguaggio poetico originale, a tratti direi persino che è doloroso. E’ una quotidiana battaglia contro i fantasmi del vuoto. E, come si capisce anche da certe poesie di Vallejo, ci si chiede spesso se il gioco valga la candela. Grazie dei complimenti Maria, sono sempre graditi. Un caro saluto.
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