sabato 4 maggio 2013
“Le cose che non ho detto” di
Azar Nafisi è un libro di memorie in cui
il privato e il pubblico si confondono, la storia personale dell’autrice e dei
suoi famigliari si connette potentemente con le vicende storiche della terra in
cui essi hanno vissuto, l’Iran,
raccontato nelle complesse vicissitudini che fra gli anni Sessanta e gli anni
Ottanta del secolo scorso lo hanno
scosso profondamente, mutandone
l’assetto sociale.
E’ il racconto della rivoluzione
islamica di Khomeini che trasformò uno dei paesi arabi più progressisti in uno
stato teocratico totalitario, con l’esclusione delle donne dalla vita politica,
l’imposizione per esse del velo, il divieto di alcol e feste, l’instaurazione in
definitiva di un clima di terrore con l’omicidio o la reclusione degli
oppositori del regime e infine con la guerra contro l’Iraq che per circa otto anni
insanguinò i due paesi.
Mentre tutto questo accade,
mentre i grandi eventi della storia si consumano, l’esistenza di Azar Nafisi e
dei suoi famigliari si svolge, e ciascuno elabora le proprie strategie di
sopravvivenza. E’ attraverso l’immaginazione, la poesia, la letteratura, che
l’autrice trova dentro di sé quel luogo magico in cui sfuggire alle violente
imposizioni della storia. Così come già si era visto in “Leggere Lolita a
Teheran”, anche questo libro della scrittrice iraniana, tradotto
dall’inglese da Ombretta Giumelli ed edito nel 2009 da Adelphi, si configura come uno struggente inno alla
potenza dell’immaginazione, alle sue possibilità, al suo incantesimo. Ed è il
padre la figura attraverso cui questa epifania si compie, è il padre che inizia
all’amore per i classici della poesia, soprattutto persiana, la scrittrice bambina, mentre con la madre,
figura di donna arcigna e tirannica, si
manifesteranno sin da subito dissensi profondi.
Probabilmente il cuore del libro è in questo
rapporto travagliato, sofferto, che segnerà profondamente l’autrice; la madre,
che mitizza un passato mai avvenuto, vittima delle sue stesse mistificazioni, è
il personaggio cardine attorno a cui tutti gli
altri sembrano ruotare. Personaggio indurito dalle sofferenze, che piega
la verità alle sue esigenze, e finisce per essere la causa dell’infelicità del
marito, che vessato, sminuito, aggredito, si rifugia in altri amori. La madre
Nezhat è un personaggio negativo, su cui però la figlia scrivendo questo libro
pone uno sguardo di pietà, di comprensione profonda.
Con questo testo
autobiografico la scrittrice iraniana compie molteplici atti di esorcismo:
raccontandoli neutralizza i demoni della sua infanzia e si riappacifica con la
madre, analizzando la storia del suo paese si libera dalle paure e dai
condizionamenti del regime, ne mostra la pochezza rispetto alle grandi praterie
dell’immaginazione letteraria, sua vera patria, universo privato su cui nessun
regime può imporsi. E’ questo il fulcro della visione di Azar Nafisi, questa
convinzione profonda nel ruolo salvifico e liberatorio della letteratura e
dell’immaginazione, realtà che permettono in sostanza l’immedesimazione con
l’altro, con il diverso, e di
conseguenza ampliano la nostra capacità di empatia.
La famiglia è percepita come un
luogo ambiguo, più spesso fattore di alienazione che rifugio dalle intemperie
della vita. Si può dunque cogliere in filigrana una critica all’assetto
famigliare, sentito come opprimente, quasi esso fosse l’origine e la matrice
della stessa tirannia.
“Le cose che non ho detto” è
anche un romanzo di formazione, è la storia di un’intellettuale cosmopolita, che studiò in Inghilterra, per poi insegnare
letteratura negli Stati Uniti, sempre
attenta alle sottigliezze della critica letteraria e alla vita sociale e
politica dell’Iran, desiderosa di scoprire le tradizioni del suo paese ma anche
di aprire la sua mente alla più vasta comprensione del mondo.
Libro stratificato che si muove
su diversi livelli, dall’autobiografia alla rievocazione storica, dalla
psicologia famigliare alla riflessione letteraria, dal quale emerge la maturità
di uno stile e di una visione del mondo conquistati con impegno e fatica. E’ la
storia di una donna che ha lottato insieme con altre per definire in positivo
la propria identità, lottando contro un regime che ha grandemente limitato la
loro libertà ma non è riuscito a soffocare gli aneliti della loro anima.
4 commenti:
Impossibile resistere alla tentazione di comprarlo dopo la tua bellissima recensione e dopo aver letto "Leggere Lolita a Teheran"...
certo è desolante notare come sia sempre possibile, dopo aver fatto notevoli passi in avanti, precipitare indietro nel buio intenso dell'integralismo...
un abbraccio
E’ triste constatare come sia facile cadere preda di questi integralismi violenti. E come si legge in questo libro, ma anche per esempio in Persepolis, la graphic novel di Marjane Satrapi, le vittime, con il loro silenzio, con i loro moralismi retrogradi, sono a volte conniventi con i carnefici.
Grazie Maria, un caro saluto.
un gran bel libro, lo lessi la scorsa estate.
Sì, Silvia, condivido.
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