mercoledì 19 novembre 2014
A coloro che ancora credono che
la poesia sia una questione di fiorellini, cuoricini, sentimentalismi
sdolcinati, inesprimibili deliqui, o al massimo occasione per autoreferenziali e
sterili elucubrazioni intellettuali, farei subito leggere questo libro, che
laconicamente s’intitola come il nome e cognome dell’autore Yahya Hassan.
Edizione Rizzoli, traduzione di Bruno Berni, copertina nera come nell’originale
danese, e dietro la copertina l’inferno. Un prolungato grido (le poesie sono
tutte scritte in caratteri maiuscoli e senza punteggiatura) per denunciare
inizialmente i soprusi, le sopraffazioni, le violenze, compiute nel nome di Dio
prevalentemente dal padre dell’autore, e in seguito l’ingresso del poeta nel
mondo della criminalità con piccoli furti e rapine, spaccio di droga, la sua segregazione in
riformatori e in comunità di recupero.
Yahya Hassan era diciottenne
all’uscita del libro, che in Danimarca nel 2013 è stato un clamoroso caso
letterario, il libro di poesie più venduto nella storia del paese, raggiungendo
le centomila copie in pochi mesi. Yahya Hassan, infatti, è nato e vive in Danimarca,
scrive in danese ma è di origine
palestinese, perciò in famiglia parla
l’arabo, è un giovane arrabbiato, che ha
trovato nella poesia il veicolo per trascendere la propria rabbia e trasformarla in un libro, che è come “un
pugno nello stomaco del lettore”, come dice giustamente la seconda di
copertina, fondendo il poeta nel suo linguaggio il gergo della strada, la cultura
del rap, con la ricercata rozzezza della poesia beat.
Qualcuno ha evocato il nome di
Whitman, io non ho trovato molte corrispondenze con il vate per eccellenza
della poesia americana. Più azzeccato mi pare il paragone con Ginsberg e il suo
“Urlo”, o con poeti come Artaud, Leopoldo Maria Panero, con certe poesie
autobiografiche di Sharon Olds, in cui si attacca la figura paterna, o persino
con le poesie giovanili di Klaus Kinski, soprattutto nello stile gridato ai
confini della psicosi. Oppure possiamo trovare qualche parallelismo
con i grandi adolescenti maledetti dell’Ottocento francese, Lautréamont e
Rimbaud, specie per la crudeltà con cui raccontano se stessi, il mito di se
stessi, e la realtà che li circonda, anche se stilisticamente Hassan non è alla
loro altezza, possiede la stessa sfrontatezza adolescente, un similare senso di
esclusione dalla normalità borghese. Soprattutto, però, è l’originalità della
vicenda biografica di Hassan a emergere con la prepotenza di cui è stato vittima
da bambino che diventa nell’adolescenza alimento di uno stile di vita
delinquenziale, da vero ragazzo di strada, da autentico bad boy.
Yahya Hassan è un poeta apolide,
un poeta teppista, doppiamente emarginato, in quanto palestinese e in quanto
ateo che rinnega la religione di suo padre, ed è attualmente sotto scorta perché il suo J’accuse
verso il padre è stato interpretato (non a torto in verità) come un atto di
accusa verso l’Islam in toto. Un
fondamentalista lo ha aggredito in una stazione ferroviaria, contro di lui è
stata lanciata l’inevitabile fatwa:
l’Islam radicale non può accettare versi
come questi:
“TE VUOI LA PREGHIERA DEL VENERDI’ FINO AL PROSSIMO VENERDI’
TE VUOI IL RAMADAN FINO AL PROSSIMO RAMADAN
E TRA LE PREGHIERE DEL VENERDI’ E I RAMADAN
TE GIRI CON IL COLTELLO IN TASCA”
Ancora più esplicito il titolo di una poesia, ALLAH È IGNORANZA. Fino
ad arrivare alla blasfemia e alla bestemmia, riecheggiando Artaud.
Siamo dunque a una versione
contemporanea del più classico poeta maledetto, anche se io considero
pleonastica questa espressione, essendo il poeta maledetto per definizione,
tanto più in una società borghese, tanto più se apolide, tanto più se ateo, tanto
più se poco più che adolescente,
tanto più se palestinese di origine, tanto più se ha abbandonato la scuola a 13
anni e da allora entra ed esce da comunità di recupero e riformatori.
Tutto ciò lo rende minoritario in
seno alla Cultura Ufficiale, perciò forse interessante per un pubblico affamato
di devianza, come quello della letteratura. Minoritario, però, nell’accezione
di Deleuze, è il vero talento letterario, il precursore, il rinnovatore di
forme consolidate e logore. Intendiamoci, Hassan non è un genio come i già
citati Rimbaud e Lautréamont o come Artaud ma le sue poesie hanno dalla loro la
vitalità della giovinezza, la cattiveria giusta, l’immediatezza.
La scrittura di Hassan è
viscerale, grezza e brutale nella sua denuncia della brutalità, già m’immagino
il classico intellettuale accademico storcere il naso davanti a questi versi,
in cui tutto è detto crudamente e crudelmente, senza i veli e i voli retorici
che ammansiscono solitamente le grida del reale.
Tutto è sbattuto in faccia al
lettore, gridato con violenza, senza maschere, senza veli, senza trucchi, senza
la consolante retorica della letteratura più tradizionale. Dalla parte di Hassan
il fuoco della giovinezza, contro di lui la cultura patriarcale e ottusa, ma
anche il multiculturalismo di una società ipocrita che ti condanna nella realtà
della carne ma a parole ti vuole redimere: integrare secondo la sua dispotica
retorica.
Hassan così ci racconta della sua
stagione all’Inferno, della sua emarginazione, delle botte ricevute, dei furti
commessi per affermare paradossalmente se stesso, del riformatorio, della
comunità di recupero, e la sua è una autobiografia in versi che colpisce per
l’autenticità con cui tutto è narrato, espressione senza pace di un dolore e di
una rabbia enormi, che trovano una forma abbastanza convincente nella sua
spietata crudezza, pur nell’immaturità stilistica, pressoché inevitabile data la giovane età dell’autore.
La rabbia di Hassan è verso un
padre dispotico che impone a lui con la violenza un sistema di valori non in
linea con la contemporanea società danese, società che lo esclude e lo
incatena, come si legge nella terribile poesia Dittatura educativa, con le sue cupe atmosfere che ricordano alcune
scene di Arancia meccanica.
“TELECAMERE AL CANCELLO
GLI EDUCATORI MI CONFISCANO I VESTITI
E MI DANNO UN COMPLETO NERO
LE PRIME DUE SETTIMANE RESTO ISOLATO NELLA MIA CELLA
LO CHIAMANO ADATTAMENTO”
Questo libro racconta dunque una discesa agli inferi e un riscatto. Da
delinquente Hassan si ritrova a essere poeta e per di più protagonista di un successo
straordinario. Poeta maledetto si diceva, ma, soprattutto, poeta che maledice.
Questo libro è perciò un interessante debutto, interessante per la violenza retorica
che in esso si spreca, interessante perché sgorga come un’emorragia di sangue
dalla ferita dell’immigrazione.
Ci si chiede però cosa succederà a questo poeta teppista una volta
completato il processo di assimilazione. Che cosa scriverà una volta esaurita
la rabbia? Poiché in questo libro il motore propulsivo è il disadattamento
dell’autore, che cosa ne sarà di lui dopo che la società danese lo avrà neutralizzato completamente? Una volta integrato
nella società delle lettere, in che cosa si trasformerà? Nel pinguino
ammaestrato di qualche talk show
televisivo? O in un ribelle con la mutua, come nella felice definizione di
Ennio Flaiano?
6 commenti:
La tua chiosa mi ha impressionato, grido di allarme e disperazione che lanci in questa rete. E se mi ha impressionato è perché condivido questa tua visione, sia da un punto di vista artistico e letterario, sia come figura materna perennemente in conflitto con se stessa.
Forse questo poeta non si salverà. Ma la doccia gelata di una rabbia cruda e impudica è quanto serve di tanto in tanto alla letteratura, alle singole coscienze di lettori, di scrittori, di esseri umani.
Elena
@Elena
Questa rabbia ci serve perché è il grido della libertà negata, il grido della nostra adolescenza troppo spesso soffocata. Che poi si nasca incendiari e si muoia pompieri, è una vecchia regola che nella nostra società dello spettacolo assume connotati ancora più grotteschi. Grazie per aver condiviso questo mio pensiero, Elena.
E la cosa interessante è che, purtroppo, una tale rabbia non si limiterebbe solo ai fondamentalismi del patriarcato e della religione islamica. Bel post!
@Manuel
È anche la rabbia dei poveri verso i ricchi, dei ragazzi verso gli adulti, dei delinquenti verso coloro che rispettano la legge, dei disadattati verso le persone integrate e altro ancora. Grazie per l'apprezzamento, Manuel.
Ciao Ettore,
ottima lettura come sempre. Avevo letto questo libro e ne ero stato colpito. Non solo per la violenza e la rabbia dell'autore e delle parole ma soprattutto per la violenza della poesia, del verbo poetico.
Si usa spesso l'espressione pugno nello stomaco ma qui la poesia è davvero qualcosa di forte, che arriva al lettore, colpendolo.
Interessante poi la scelta grafiche delle maiuscolo che rendo ogni verso un grido.
Ciao e a presto.
Ale
@Logos
Quello di Hassan è davvero un approccio insolito alla poesia. Prova, se mai ce ne fosse bisogno, che l’attività poetica ha infinite possibilità. Ciao, Logos.
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