sabato 13 giugno 2015
Pochi poeti sono avvincenti e
trascinanti come Pablo Neruda. Questo va detto subito. Anche per capire la
popolarità che ebbe in vita. Quando il poeta cileno si esprime al meglio, i
suoi versi impetuosi affascinano per l’arditezza degli accostamenti e la
bellezza e originalità delle metafore. Non si può che leggerlo trasognati.
In Neruda, però, è
vivo un canto di denuncia politica, specie in questo Fine del mondo che risale al 1969, dove il poeta grida tutta la sua amarezza e il suo dolore per le
guerre che hanno insanguinato il Novecento, dalle guerre mondiali alla guerra
in Vietnam; un canto di denuncia che bisogna leggere come la testimonianza di
un intellettuale inorridito, la cui speranza di pace e giustizia è andata
delusa. Ecco se c’è un limite è proprio in questa utopia che Neruda ha sognato
per il mondo; utopia tinta di rosso, Neruda era comunista. Il Novecento
è un secolo che Neruda vede aggirarsi trascinando
“un sacco osceno di delitti” , è un
secolo tragico, orribile e a esso si associano immagini di decomposizione (”marci quest’anni), addirittura di
pestilenza.
In questo poema ci stupiamo della
forza dei versi contro la guerra in Vietnam, contro gli Stati Uniti, predatori
su un pianeta devastato e per questo si attirano l’odio di tutti anche del
poeta. ” Non sono gli Stati Uniti/ sono
gli Stati Sputacchiati”(più efficace in spagnolo, dove apprezziamo l’assonanza fa Unidos, Uniti, ed Escupidos, che Bellini traduce con
Sputacchiati)
Non stiamo parlando di un
antiamericanismo stereotipato, di maniera ma l’acuta indignazione di un poeta
davanti al sopruso.
Molte altre sono le corde che Neruda sa pizzicare.
Così, accanto a questi versi politici, abbiamo una poesia della natura di rara
intensità. Il poeta stesso si fonde con la fauna in un autoritratto di se
stesso, dove ad alcune parti del suo corpo è associato un animale.
Poi abbiamo una straordinaria poesia dedicata ai cani, che riporto integralmente,
nella traduzione di Giuseppe Bellini per Edizioni Accademia:
“I cani disinteressati
per le strade, senza ritorno,
nella polvere errante, alla luce
dell’intemperie indifferente.
Oh, Dio dei cani perduti,
piccolo dio dalle zampe tristi,
avvicinati al nostro emisfero
di lunghe code umiliate
d’occhi affamati che inseguono
la luna colore d’osso!
Oh Dio noncurante, io sono
il poeta delle strade
e vago invano senza trovare
un idioma di cagneria
che li accompagni cantando
nella pioggia e nella polvere.”
“Idioma di cagneria!” Splendido neologismo (con cagneria
Bellini traduce l’originale perreria)
che dice molto dell’atteggiamento del poeta che vorrebbe trovare addirittura un
linguaggio comune con gli animali, i cani randagi in questo caso, una
koinè originaria che possa permettere un vero dialogo con l’alterità.
Tuttavia questo libro è anche la
testimonianza dolorosa perché in Neruda qualcosa si è sgretolato con
l’esperienza del Novecento, una certa fiducia nel futuro dell’umanità, e dunque affiora la consapevolezza tragica che ”la terra non ha rimedio” e che bisognerà
emigrare “in altre regioni celesti”.
L’immaginazione di Neruda è sconfinata e linguisticamente gli
permette di non cadere nel manierismo o nell’incubo di rifare se stesso.
Di straordinaria attualità la sua
requisitoria contro la stampa, sempre al servizio di un cinico sistema di
sfruttamento, e dei giornalisti, accusati di fare unicamente
gli interessi dei proprietari del giornale di riferimento, di diffondere
menzogne e veleno, di addolcire le
tirannie. Per Neruda il giornalismo ”caramellò
le tirannie” (”confitò las tiranias”, nell’originale) per
vendere “notizie/ spruzzate di sangue e
veleno”.
L’età sua contemporanea è dunque un incubo, e Neruda
trova toni apocalittici per descriverla, già annunciati del resto nel titolo scelto per il poema, Fine
del mondo. Ciò nonostante Neruda vede
aldilà della desolazione che lo circonda e il suo poema non cede alla
disperazione. Il poeta cileno è molto chiaro poiché, come
scrive nell’emozionante finale, ”malgrado questa fine del mondo/sopravvive
l’uomo infinito.”
Politico, lirico, naturale,
epico, onirico, erotico, filosofico, Pablo Neruda pare un poeta vasto, immenso,
egli incarna un continente intero quello americano e in definitiva il suo
desiderio di fusione con ogni aspetto della vita (vegetale, animale, umana) lo
rende un poeta davvero universale, il Walt Whitman del Novecento. Egli prova che la voce di un grande poeta trascende la misera esistenza individuale per
diventare una potenza cosmica, voce e coscienza del cosmo intero.
2 commenti:
E' prerogativa dei poeti il desiderio di fondersi con la natura, quasi come se i confini della condizione umana fossero ostacolo per l'espressione ed il sentire. C'è poi chi riesce meglio a tradurre questo desiderio che diventa esigenza ed alterna i toni: dolorosi, rabbiosi e gioiosi. I grandi poeti, appunto.
@Lisa
È vero quello che hai scritto. Il desiderio di fusione con la natura è fondante nell’esperienza di un poeta. È il desiderio di fondersi con ciò che ci trascende: la nostra ombra animale.
Questo per me significa anche che la poesia è un fatto antico, primordiale, primigenio, oso dire selvaggio, più che un fatto meramente culturale o letterario.
Posta un commento