lunedì 28 dicembre 2009
In Stalker ci sono tre personaggi che definiscono uno spazio esistenziale e culturale, lo scienziato, lo scrittore, e l’idealista, e poi c’è la zona, luogo miracoloso, in cui un ‘invisibile presenza è in grado di esaudire tutti i desideri . Ma il suo segreto si svela pian piano nella dinamica del film: questa entità sconosciuta,realizzando il tuo desiderio più profondo, non ti reca la felicità, ti permette di conoscere la tua essenza sconosciuta, e così facendo ti uccide. La morale evidente del film è che la felicità non è mai nell’esaudire i desideri dell’Es, ciò è distruttivo, perché la natura umana è fondamentalmente malvagia, lo scrittore così rinuncia a entrare nella stanza dove alberga questa entità , consapevole del fatto che essa gli avrebbe rimandato un’immagine di sé troppo brutalmente vera.
Conoscere se stessi aldilà dell’impalcatura sociale che ci protegge dall’esterno e dall'interno, e che noi potremmo chiamare io, in senso freudiano, è pericoloso e destabilizzante. Si ricade così nella visione cristiana dell’Apocalisse, dei Vangeli, e il film diventa una meditazione sulla felicità, e di come essa sia incompatibile con il desiderio. Lo stalker è una funzione cristologica, ma il suo sogno di salvare fallisce, l’uomo è condannato,come in Kafka, a restare sulla soglia del tempio a lui destinato, attonito, conscio che il proprio desiderio più profondo gli è ignoto, e che realizzarlo non porta felicità, più facilmente la morte. Quindi questa prodigiosa macchina della felicità che lo scienziato vuole distruggere, che lo scrittore teme come specchio della sua depravazione, e che lo stalker idealizza fino probabilmente a identificarla con Dio, è inquietante come l’apparizione del nostro sosia sconosciuto, della nostra nemesi inavvertita.
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