domenica 21 febbraio 2010
“Unica è dunque/ la condizione umana,/ perché l’io è un sogno.”
Wystan Hugh Auden
“Cosa vuoi da noi, mortale ?
Oblio di me.”
George Byron
La solitudine deve essere approfondita, è la dimensione in cui si può accogliere l’altro, ma se tutto è fuga- i valori, le religioni, il culto di un maestro- difficile è raggiungere questo stato di consapevolezza, gli uomini preferiscono adorare ciò che conoscono, piuttosto che arrestare il processo della propria alienazione. Come nelle parole di Eraclito, “il Sole è nuovo ogni giorno”, ma essendo la mente quello schermo che ci impedisce di uscire dall’incantesimo del pensiero, che ci fornisce l’idea della cosa, mai la cosa stessa, il suo ricordo, non l’immediatezza del noumeno, noi non sperimentiamo l’innocenza e la felicità di questo divenire.
Così la memoria diventa il principale ostacolo dell’umano desiderio di trascendenza; la mente, cercando Dio, in realtà lo nega attraverso i preconcetti che essa stessa crea, che sono solo poveramente umani, sono il vacuo tentativo di uscire dal dolore, dalla noia e dalla paura. Perché se Dio ha un senso, questo non può essere colto se non in un momento di stupefazione inenarrabile, in cui letteralmente non si è in casa, si è in quell’assenza di pensiero, che i mistici chiamano estasi. Le religioni sono dunque solo fantasticherie della mente, rifugi per coloro che hanno paura di affrontare il loro vuoto e da esso fuggono; veramente spirituale è solo colui che, andando aldilà delle credenze, cessa di elaborare pensiero e teorie, affidandosi totalmente a questo processo di purificazione.
Così Krishnamurti ci invita a percorrere la via solitaria dell’introspezione, della reale conoscenza di sé, ma, in ultima analisi, per raggiungere il reale il sé dobbiamo abbandonarlo, sulle tracce di una profondità e di una bellezza istantanee, che non possono essere memorizzate. E’ una realtà estatica di cui in verità Krishnamurti favoleggia molto, senza convincerci realmente delle possibilità della sua realizzazione, e questo è il suo limite, grande, perché senza il vuoto e le sue promesse cade tutto il suo edificio anticoncettuale.
Il suo discorso è molto umilmente intessuto di domande, di una continua interrogazione e in questo senso egli è la figura di un filosofo socratico, per cui la conoscenza è una domanda perpetua, e le risposte, sempre parziali, sono ulteriori domande, così il gioco della ricerca diventa infinito. Mai assopirsi nella verità, che uccide, come in un verso di Yeats, ti rende sterile megafono di un’idea fissa. In questo stare sulle tracce di Nietzsche, Krishnamurti trova la sua dimensione di epigono, gli manca però il grimaldello di un’idea realmente nuova, il sussulto della potenza assertiva. I suoi discorsi rimangono così uno svago dell’intelligenza, non un vero nutrimento, sebbene a tratti abbiano un’interessante potenza ipnotica.
Krishnamurti pare un saggio che ci mette in guardia contro la saggezza stessa, ci invita a diffidare di dei e maestri, cercando di andare aldilà anche di ciò che è consacrato, pur di cogliere un barlume di realtà, realtà che per il filosofo indiano è sempre posta aldilà della comprensione della mente, che in sostanza è solo una gabbia di schemi precostituiti. La consapevolezza di cui parla non è mentale, è una sorta di luce interiore che precede la nostra stessa coscienza, i cui fini, nelle parole del filosofo, sembrano essere meramente conformistici.
L’ossessione di Krishnamurti è che il pensiero ci soffochi con le sue definizioni, impedendoci di accedere a quella realtà suprema, che rappresenta il nostro più sincero, antico e profondo anelito. Oggi la parola amore è forse insufficientemente efficace sul piano semantico, perché troppo abusata, ma sostanzialmente è nell’amore la soluzione dell’angoscia, ma sapere cosa l’amore sia è missione di tutta una vita; apparentemente noi possiamo con fatica arrivare a dire cosa l’amore non è. Non è attaccamento, non è dipendenza, non è gelosia, è uno stato di abbandono che sembra essere possibile solo nei rari momenti di sospirato oblio di sé.
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