sabato 14 dicembre 2013
Sopra: Arthur Rimbaud in un
disegno di Pablo Picasso
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“Je
est un autre “
“Io è un altro”
Arthur Rimbaud
Penso che la condizione dell’artista
sia perlopiù drammatica e aspirare a esserlo cosa vana. Se penso all’artista mi
viene in mente la definizione che ne dà Ceronetti: “Colui che porta in sé la
pena di tutti” (in realtà, mi sembra di
ricordare, sia una definizione del
poeta, l’artista più squalificato di tutti). Per William Butler Yeats tutti gli artisti
agiscono la ”lotta della mosca nella marmellata”. Riesco a vedere nella figura dell’artista
solo uno che si dibatte fra il “desiderio di non lasciare tracce” di cui scrive
Baudrillard e un certo desiderio di immortalarsi, cioè di imprimersi nella
memoria dell’umanità, che si può
tradurre nella fantasia di essere più
reale da morto, come ricordo o leggenda, che da vivo. Perché così funziona il
mercato dell’arte, dove un pittore morto
è un “business”, così funziona la
mente, che tende a esaltare quello che non c’è più, a mitizzare il passato.
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Fra i poeti quello che si
avvicina di più a essere un mito per me è Arthur Rimbaud, icona del grido
dell’adolescenza, grande visionario, viaggiatore - camminatore instancabile,
davvero “uomo dalle suole di vento”, come nella celebre definizione data da Paul
Verlaine. Per essere un mito non gli
manca nulla, capro espiatorio in gioventù ribelle, che fornisce la più esatta
lingua del delirio al suo secolo, frenetico viaggiatore come alla ricerca di un
impossibile Graal mentale, e in età adulta arido mercante, ingranaggio di un
meccanismo, ostaggio del deserto, che parla solo di rendite e molto
prosaicamente vuole “farsi una posizione”. Davvero il viandante e la sua ombra, come
aveva scritto Nietzsche, l’uomo ottocentesco e la sua ombra, e insieme il
mostro dentro il labirinto, Prometeo che ruba il fuoco agli dei, l’artista moderno.
Talvolta egli può creare, come
fece Rimbaud, la propria nemesi, il suo desiderio di alterità lo porta a
fondersi con la propria ombra. Quale abisso fra un poeta e un mercante, che
probabilmente mercanteggiò anche in armi?
Eppure Rimbaud li incarna
entrambi. E’ insieme il grido di rivolta
e il rumore di un cingolato che schiaccia la rivolta. Egli racconta la
lacerazione in cui viviamo noi uomini del futuro. Ci anticipa sul terreno della
creazione artistica, vede dentro il nostro abisso mercantile. Sceglie la via
del deserto africano e si desertifica intimamente. Suo unico desiderio garantirsi una rendita
che lo liberi dal dover lavorare. Per
questa rendita impossibile si massacra di lavoro. Lui che nei suoi versi aveva
condannato il lavoro, sia quello manuale, sia quello intellettuale, e aveva
gridato: “Non lavorerò mai”.
Per Henry Miller il tipo Rimbaud
avrebbe scalzato il tipo Amleto, avrebbe
incarnato meglio il nostro disagio contemporaneo. Miller intendeva il primo
Rimbaud, poeta e veggente, folle e sinistro, visionario e lucido nel suo
gridare nel deserto francese, nel deserto europeo, radicale nella sua condanna
di un certo mondo borghese. Il tipo Rimbaud, però, cova l’ombra della sua metamorfosi. Così Arthur
Rimbaud è ancora più folle e sinistro perché ci ricorda che nel profondo di noi
stessi si trova qualcosa come la nostra
negazione, la nostra nemesi, la maschera che non vogliamo indossare e che
talvolta inspiegabilmente ci troviamo sulla faccia. Auden lo chiama “antitipo”,
Wiliam Butler Yeats l’”anti sé”. E’ il nostro doppio, l’angelo che veglia sui
nostri atti demoniaci, il demone che sovraintende le nostre pulsioni angeliche.
Rimbaud e il suo doppio, l’altro,
come nel suo enigmatico verso: ” Io è un altro”. Ecco è così: si diventa un
mito a forza di esalare enigmi. Che cosa triste se Rimbaud si fosse spiegato,
chiosa Cioran. Lautréamont è stato ancora più radicale: è svanito. Della sua
morte in giovane età non si sa nulla.
Rimane qualche lettera, il suo capolavoro Canti di Maldoror, il
certificato di morte, e un altro libro stranissimo, intitolato laconicamente
Poesie. Sia per Rimbaud sia per Lautréamont a vincere è il mistero, la sfinge
dalla lingua molto più che biforcuta che è la loro poesia.
1 commenti:
bellissima l'asserzione di cioran. c'è tutto rimbaud e c'è tutto cioran!
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