sabato 3 maggio 2014
Confesso che la mia lettura di
David Foster Wallace è stata tardiva, perché una specie di sesto senso mi
teneva lontano da questo scrittore che una parte della critica pone fra i
massimi della sua generazione e che risulta molto amato da persone che stimo. Io,
avendo letto solo qualche articolo di critica letteraria, su blog o su riviste,
lo percepivo come uno scrittore innovativo e forse geniale ma anche
cervellotico, eccessivamente contorto, poco lineare. Il primo libro suo che ho
letto, Una cosa divertente che non farò mai più, mi piacque proprio perché
si allontanava da questo pregiudizio, confermando, però, la vitalità creativa dell’autore. Leggo
allora Brevi interviste con uomini
schifosi, confidando nello splendido titolo, e stavolta il mio giudizio oscilla
vertiginosamente e non riesco a inquadrare bene il libro. In questo scritto
cercherò pertanto di dipanare alcuni
dubbi. Questa raccolta di racconti, infatti, tradotti per Einaudi da Ottavio Fatica e Giovanna
Granato, pur interessante e a tratti geniale, mi pare che denunci anche alcuni
limiti.
Innanzitutto alcuni racconti,
penso per esempio a La persona depressa,
mi paiono eccessivamente caricati, se non addirittura caricaturali, eccessivamente
psicanalitici, con il sottofondo di un’ironia che non capisco e che mi lascia
freddo. Ammetto che ha una sua potenza narrativa che rimane dentro anche dopo
la lettura ma appena l’ho finito ho tirato davvero un sospiro di sollievo. L’ho
trovato, infatti, pesante nella scrittura, con ridondanze e ripetizioni
eccessive, e la figura della protagonista, anche se questo è un tratto
funzionale al racconto, è patetica ai limiti della sopportazione. Aggiungo che non capisco assolutamente il
perché delle note, potrebbero essere benissimo inserite nel testo, messe a piè
di pagina, invece, lo appesantiscono inutilmente.
Intendiamoci, Wallace ha una visione originale
e molti dei suoi monologhi si ricordano ma durante la lettura c’è la sensazione
di essere risucchiati da un vortice. E’ questa la sua cifra stilistica?
Comunicare il senso di soffocamento dell’individuo in un contesto urbano? Ho
l’impressione, però, che alcuni di questi personaggi raccontati, spesso
esagerando caricaturalmente tic linguistici,
fastidiosi ai limiti del
macchiettistico, come nel primo dei tre racconti eponimi, siano troppo
consapevoli di se stessi per essere realmente folli come si vorrebbe.
Uno dei racconti più riusciti è
il primo dei due che s’intitolano Il
diavolo è un tipo impegnato, che è
splendido nella sua semplicità, non dura
neanche due pagine, e la brevità
impedisce a Wallace di esagerare con i colori della sua tavolozza. Da ricordare
l’ironica morale del racconto, affidata
a uno dei personaggi: “Io chiesi a papà che lezione trarre dalla cosa
e lui disse che secondo lui è che non puoi insegnare a un porco a cantare[…]”
La sensazione negativa che traspare a tratti è di uno scrittore forse eccessivamente
innamorato del proprio talento, un po’ troppo incline a compiacersi del proprio
acume e della propria intelligenza, che, se si avventura in una ricognizione
della psicopatologia degli americani, denuncia anche il proprio fatale
narcisismo. Questo è evidente nella
conclusione del ciclo di racconti denominato Ottetto, una conclusione metanarrativa pressoché incomprensibile,
fintamente autocritica, pesantemente solipsistica, in cui una certa abilità
retorica sembra al servizio della
vacuità.
Si percepisce, però, il talento di Wallace, la sua capacità di
entrare dentro i personaggi attraverso il monologo ma c’è un eccesso di riflessioni di stampo
psicanalitico che rendono irrealistici alcuni di questi personaggi e un po’ fumosi questi racconti. A volte troppo
didascalici i personaggi di Wallace, manifesti del delirio
postmoderno, a volte troppo tortuosa la
narrazione. Emblematico il caso del racconto Chiesa fatta senza le mani, dove ammetto di non aver capito quasi
nulla. Seguire Wallace nelle sue peripezie mentali in questo caso affatica e
addirittura sfianca. Nel racconto Lassù
per sempre invece Wallace dimostra la sua abilità nel creare suspense e
tensione da una situazione banalissima come la salita di un adolescente su un
trampolino, situazione che acquista insolite e imprevedibili risonanze
metafisiche. Belle, a questo proposito, le riflessioni sul tempo.
Brevi interviste con uomini schifosi mi pare, però, sostanzialmente
un libro che andrebbe scarnificato, come se in esso ci fosse un peso eccessivo
di riflessioni psicologiche, metanarrative, cui un onesto lavoro editoriale di
affinamento come quello che fece Gordon Lish nel caso di Raymond Carver,
secondo me, avrebbe giovato. Troppo pensiero, ecco un limite di questi
racconti, troppa densità, a scapito
della narrazione che per essere efficace deve essere scarna, e lasciare
intendere molto, più che dire esplicitamente tutto. Ecco il non detto in questi
racconti pare schiacciato da una volontà famelica di svelare.
Ci sono anche dei pregi
naturalmente, e non da poco: la capacità di dar voce alla psicosi, come nel
racconto Mondo adulto, è da grande scrittore ma l’idea di troncare le
parole nella parte finale non mi convince e mi sembra solo una trovata
giovanilistica. E’ davvero apprezzabile,
comunque, la capacità di creare tensione con materiale minimo, e la capacita
mimetica che permette a Wallace di
immedesimarsi in personaggi così diversi. Geniale a questo proposito il racconto Sul letto di morte stringendoti la mano[…], dove Wallace realizza uno straordinario
monologo di un padre che sul letto di
morte mostra odio e disprezzo verso il proprio figlio sin da neonato, riflettendo
su come questi abbia monopolizzato l’attenzione della madre
con una vera e propria “stregoneria”.
Il principale pregio di alcuni di questi racconti è proprio nella spietatezza
con cui Wallace analizza comportamenti normali in cui tutti possiamo
riconoscerci, rivelandoci al tempo stesso la loro intima follia. Straordinaria anche la terza delle interviste
con uomini schifosi, la migliore di tutte, dove è ricostruita la dinamica di
uno stupro, con grande efficacia e originalità. Altre volte, però, questi
racconti, come forse vuole l’estetica postmoderna, sembrano ”vacui esercizi formali”, come scappa
scritto a Wallace stesso in un momento di autocritica metanarrativa.
Allora, in definitiva, Brevi interviste con uomini schifosi non
si è dimostrato per me il capolavoro che
molti dicono, e che in fondo mi aspettavo, anche se mi conferma che Wallace è un autore
da leggere, aldilà di alcune tortuosità che lo caratterizzano, perché quando si
libera da certe civetterie arriva al cuore del malessere contemporaneo. In
questo libro, secondo me, ci è riuscito solo in parte.
4 commenti:
Bella recensione, finalmente qualcuno che guarda DFW con lucidità e non attraverso gli occhiali rosa del mito.
Grazie, Silvia. Sento comunque di dover approfondire la lettura di Wallace, di cui ho letto poco.
No, ti sbagli nei tuoi giudizi su Wallace, relativamente alla sua scrittura e al suo genio letterario. Spero che tu nel frattempo abbia letto di più di suo, oltre a Infinite Jest naturalmente, dal quale non si può prescindere.
Brevi interviste è un libro che andrebbe letto tardivamente, quando non si ha più la visione superficiale che molti hanno di Wallace, come dimostri di avere tu qui.
@Anna
Ok, sto leggendo altro. In questo blog puoi trovare articoli su “La ragazza dai capelli strani” e “Una cosa divertente che non farò mai più. Li ho preferiti.
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