sabato 19 luglio 2014
L’ignoranza di Milan Kundera, pubblicato da Adelphi nel 2001 e
tradotto da Giorgio Pinotti, è un romanzo in cui l’oblio, la provvisorietà
della memoria, la sua labilità hanno un grande ruolo e sono il fulcro di un discorso che
attraversa con potenza il testo. E’
anche un romanzo del ritorno, senza però
la retorica del ritorno, i due
protagonisti, Josef e Irena, infatti, rivedono la loro città, Praga, dopo la
fine del comunismo e dopo un ventennale
esilio in Danimarca per l’uno e a Parigi per l’altra. E’ un romanzo in cui la
consueta leggerezza di Kundera si sposa con la profondità delle sue digressioni
sul tempo, sulla Storia, sull’amore, sulla memoria, come detto. I due
personaggi principali sono esuli sui
generis, non provano nostalgia ma indifferenza verso la terra natia, e
vivono questo loro ritorno come un fastidioso e forse inutile dovere e questo
li accomuna, forse mina le loro certezze, sicuramente li fa sentire colpevoli e
smarriti.
La vicenda narrata è, come capita
spesso in Kundera, un pretesto per far emergere, polifonica, la varietà del suo
affresco dove la Storia è joycianamente un incubo da cui è necessario
svegliarsi e le piccole vicende quotidiane, i piccoli moti dell’anima,
diventano centrali. Lo sfondo storico
pur così pregnante è attraversato dal flusso di vite che s’intrecciano
casualmente e che casualmente si dividono, nella consapevolezza, che affiora in
una delle frasi del libro, che caso è solo un altro nome che gli uomini danno
al destino.
Così il romanzo è una commedia
svagata, un racconto sotto traccia, in cui lo scrittore ceco scioglie un elisir
di malinconia, mescolata con l’ironia di colui che, dalla posizione di narratore onnisciente,
sorveglia dall’alto le vite che racconta, nelle loro minuzie, nei loro slanci,
nelle loro incertezze, analizzando in
questo romanzo soprattutto l’ingannevole opacità dei ricordi. L’ignoranza è
l’oblio in cui annega il tempo, è la grande, vasta, piana sconosciuta che è per
noi stessi la nostra vita, è l’inganno definitivo del ricordo cui ciascuno dà,
per istinto, sostanza immutabile e certa, che poi invece si rivela fragile e
fallace. Perché non c’è nulla di più ingannevole della memoria, che preserva
frammenti insignificanti, diversi anche per coloro che hanno creduto di poter
condividere qualcosa e scoprono invece che la memoria è per ognuno
un’esperienza solitaria.
Così il romanzo pare proprio un’indagine
sulla solitudine, una riflessione, al tempo arguta e malinconica, su quell’abisso
che separa ognuno dagli altri e spesso anche da se stesso, perché questi
personaggi di Kundera sono, al solito, alla ricerca di una terra ferma che non
trovano, di un’Itaca che non ricorda nulla di loro, sballottati come sono da un
mare di fraintendimenti, omissioni, incertezze, fragilità emotive. Per chi ha
letto altri romanzi di Kundera c’è la sensazione di una famigliarità con i
personaggi che può diventare in certi momenti dejà vu; la sensazione è che infatti lo scrittore ceco ci parli
sempre degli stessi individui, descritti nelle loro infinite varianti. Romanzo dell’esilio in cui
però gli esuli non soffrono per esso ma per la mancanza di controllo esercitato
sulla propria vita, è pressoché assente ogni idea di nostalgia, il ritorno è
solo un modo per non tradire le aspettative altrui. Come sempre queste
aspettative determinano il nostro destino, s’ incidono nella nostra carne,
direzionano il nostro anelito e il nostro respiro.
L’ignoranza
è un ottimo romanzo, giocato tutto sul filo di temi eterni e universali, come
l’esilio, che pare assurgere al rango di figura archetipica della condizione
umana. Ma qui tutto è segno di qualcos’altro, che sempre sfugge a ogni definizione, in questo romanzo i personaggi
sono interconnessi e al tempo stesso
distanti, Kundera è molto efficace nel far emergere e vibrare questa
contraddizione che si situa nel cuore stesso dell’esperienza umana. L’ignoranza è così un romanzo
composito, in cui persino l’amore e la
passione erotica sono raccontati come disvelamento di un mistero più grande,
disvelamento fugace e impercettibile, che fa però la sostanza di questo romanzo
raffinato.
La scrittura di Kundera sembra oscillare fra
narrativa e saggistica filosofica, quest’ultima demistificata attraverso lo humor, uno humor sottile venato di malinconia, ciò che brilla è sempre una
ricerca di leggerezza, che solo a tratti appare un po’ ripetitiva. Sembra,
infatti, che lo scrittore ceco scriva
sempre un unico libro e che ogni romanzo
sia un solo capitolo di un’immensa commedia umana: la commedia umana del nostro tempo. Questo può essere un
difetto, oppure la dimostrazione dell’onnipotenza di uno stile inconfondibile. In
questo romanzo prevale la seconda considerazione.
4 commenti:
Il tempo e la memoria costituisco il soggetto anche del libro di Nabokov che ho letto qualche giorno fa, " Guarda gli arlecchini!" e anche lì c'è un non prendere niente sul serio, la scrittura finisce per essere, alla fin fine, un modo per giocare con il passato e la memoria.
Molto bella la tua recensione! Grazie:)
@Giacinta
Nel caso di Nabokov e Kundera penso che l’ironia sia il segno di una raggiunta maturità e di una certa saggezza. E’ un modo per alleggerire la vita, e anche la letteratura che ne è lo specchio. Grazie a te per il passaggio, Giacinta.
ciao ettore, volevo salutarti e augurarti una bella estate.
a proposito di kundera, io penso che il tempo lo stia decisamente ridimensionando. abissale la distanza che separa il ceco dal sublime nabokov a mio modesto parere, s'intende)
un abbraccio
@Eustaki
Anch’io preferisco Nabokov. Ho trovato pessimo l’ultimo romanzo di Kundera: “La festa dell’insignificanza”. Ne ho anche scritto sul blog. Capisco quindi quando dici che il tempo lo sta ridimensionando. Tuttavia penso che abbia scritto anche dei buoni libri. Il suo migliore, secondo me, rimane “Amori ridicoli”, una raccolta di racconti. Auguro anche a te di passare una bella estate. Un caro saluto.
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