domenica 7 giugno 2015
Penso che ogni libro di poesia sia una
domanda, una domanda che l’autore rivolge a un ipotetico lettore. Per Adorno,
che si chiedeva anche se la poesia fosse ancora possibile dopo Auschwitz, i poeti scrivono ormai solo per il Dio morto
dell’accezione nietzschiana. A un Dio vivente e in buona salute sembra
rivolgersi la poesia di Alda Merini e il
suo canto è sempre attraversato da una pulsione alla preghiera; la domanda che gli rivolge potrebbe essere questa: ”Perché tanto disamore nel mondo?”.
Leggo su un dizionario online il significato
di clinica: “Metodologia medica basata
sull'esame diretto del paziente e sulla cura non chirurgica delle varie
patologie; insegnamento e studio di tale metodologia”. Così Merini confessa che la poesia è un esame
clinico, forse una terapia, sicuramente un’autoterapia; la ferita di cui soffre
Merini - e in un certo modo tutti - da studiare e da sanare, è appunto quella
dell’abbandono e della solitudine.
Poetessa oscura e insieme
illuminante Alda Merini, che seppe creare
un vera e propria mitologia di se stessa: maga preda di un delirio creativo che
esonda, vittima di un mondo che la confina in manicomio, dunque “pazza” visitata dall’ispirazione; dove la poesia è riconosciuta ora stregonesca alchimia di parole, ora ritmo che
perlustra la distanza fra la musica e il
silenzio, ora inquietante indagine nel
nucleo atomico della parola o straniante perlustrazione negli abissi del
disamore, ora quasi urlo glossolalico, infine testimonianza di un riscatto.
Si sentono alcune influenze, la
parola orfica di Rilke, per esempio, o l’ermetismo di Quasimodo, si notano consonanze
con la poesia di Amelia Rosselli, si
ammira l’originalità del verso, anche se
a volte qualcosa non torna. Talvolta le
poesie di Alda Merini, anche in questo Clinica
dell’abbandono, che probabilmente è uno dei suoi libri migliori, risentono
di una visione un po’ antiquata del poeta e della poesia. Antiquata per via di
una certa retorica sul ruolo salvifico della poesia stessa, la cui centralità è
sempre più messa in dubbio dal crescente disinteresse verso di essa. Si rischia
così di cadere nel sentimentalismo, in una retorica un po’ artificiale o addirittura
in un misticismo di seconda scelta. Quella di Alda Merini pare a volte, anche nei versi meno felici di questa raccolta,
più un’”allucinazione di parole” autoreferenziale che un impeto realmente visionario o visivo.
Mi sembra che Alda Merini sia più
efficace quando smette la maschera dello stregone e dell’illusionista verbale, quando
abbandona il pathos della Pizia
invasata d’amore, carnale o spirituale, e ci mostra con sobria cattiveria,
quasi con cinismo, il dolore della condizione umana (ma sappi che la solitudine / è l’unica donna/che non ti abbandona. “)
Meno interessante quando parla del suo
bisogno d’amore con toni a volte queruli. In generale mi sembra che nelle
parole di Merini, la parola amore ricorra troppo spesso ed è un cliché. Questo continuo parlar d’amore è,
però, sintomatico. Dalla poetessa stessa definito
magistralmente ”vaniloquio d’amore/ che
altro non è/ che la futile lamentazione/ dei manicomi spenti”. Ecco la
mancanza d’amore di Merini è indissolubilmente legata al manicomio, ferita
originaria che nemmeno il successo mediatico e letterario ha sanato. L’amore è
un tema centrale, dunque, la sua mancanza soprattutto. È un amore carnale che
si fa spirituale e viceversa. Ci sono versi emblematici, nella loro
desolazione: “ Non so niente di te/ e non
è che mettendo/la tua carne dentro/la mia tu mi abbia detto qualcosa.”
La poesia di Alda Merini, ”insanguinata
dalla solitudine”, è però diseguale,
regala momenti di straordinaria e glaciale genialità ma a volte si perde in un vortice di
sentimentalismo un po’ melmoso e vacuo,
che, se pure ha un senso biografico profondo, smarrisce la tensione all’universale tipica
della poesia.
Detto questo, la sua è una poesia
che lascia il segno, verso la quale non si può rimanere indifferenti, specie in
questo libro, dove lentamente s’insinua
nella mente e la muove e la turba. I migliori versi della poetessa milanese,
autentici, carnali e spirituali, viscerali, sfuggono per la loro fluidità alla
presa totalizzante dell’interpretazione critica; come nota nell’introduzione
Paolo Lagazzi, in questa edizione del novembre 2014, uscita con il Corriere
della Sera (la prima edizione Einaudi è del 2003). Il retino del critico può
davanti a questi versi sognare d’intrappolare qualche bagliore, l’essenza
segreta di questa poesia gli rimane, però, preclusa; il mistero vince, ogni
parafrasi incontra la sua fine. Vi sono
versi straordinari, come questi: ” Io
sono l’uva io sono la gola e anche/ l’accidia quando il peccato trova in me/ la
dimora, e in fondo sono l’estasi/ del piacere perché nel calice dell’amore/ io
sono virtualmente/ il nulla” ma essi
in qualche modo abbagliano, più che illuminare.
In questo Merini è profondamente poeta.
Altrove si ha la sensazione che
la poetessa milanese perda un po’ la bussola ed ecceda con l’accumulazione di
artifici retorici che paiono fini a se
stessi. Per esempio: “Come la biada dirà
i suoi inganni/ per cogliere giovani e feste che non hanno domani/e intanto tu
invecchi nella palude dei morti/ dove ardono contadini di noia/ che affossano
la donna, li chiami/ come il migliore degli uccelli, ed avanzano / con piume di
pavone senza darti l’aria/ del suo pigolio assetato” Così il verso di Alda
Merini oscilla pericolosamente fra l’illuminazione musicale e la farneticazione
quasi glossolalica.
Questo libro, però, è
un crescendo dove, progressivamente, nelle tre parti in cui è diviso, Merini arriva ad asciugare il dettato rendendolo
essenziale, di un’essenzialità che non ha paura di essere anche aspra: “Usciamo
da questa vita senza parole/ dove l’erba non cresce più/ e i secolari amori
sono morti nel vento”. Oppure arriva a regalare sentenze: “Ogni donna ha
nelle mani/ un’assurda parola.”
Clinica dell’abbandono è, nel
complesso, un libro molto bello che si
chiude con un’ immagine potente: “Il
genio vivifica il teatro ed è come/ lo
zolfo dell’inferno/ che apre un orizzonte.”
Questo zolfo del genio si sente a
tratti in questo libro di Alda Merini, dolorosamente cristiana, un po’ strega, un po’ santa, un po’ atea, un po’ devota, peccatrice
perché bollata come “pazza”, che già in un altro dei suoi capolavori, La Terra Santa, aveva trasformato il
manicomio in un luogo sacro e qui ci ricorda, come Ginsberg, che la santità
appartiene a tutti, che la vita è una “piovra dei mille occhi”, che l’amore
manca sempre e la carne se non può
cantare allora urla.
Dunque chiudo questa mia analisi con gli
straordinari versi della poesia Fuga di
volpe:
“A chi mi chiede
quanti amori ho avuto
io rispondo di guardare
nei boschi per vedere
in quante tagliole è rimasto
il mio pelo.”
6 commenti:
Incommensurabile Alda...
@Euridice
Un giorno, dieci anni fa circa, sui Navigli l’ho incrociata. Potevo darle un saluto ma la timidezza mi ha frenato.
Credo che se l'avessi incrociata io, avrei scordato la mia insicurezza e la mia paura. Ma questo, purtroppo, non è mai accaduto. Non aggiungo nulla a questo tuo post che mi piace tanto, poiché Alda Merini resta la mia poetessa preferita.
A proposito di manicomio, solitudine e dolore ho fatto riferimento anche a lei in questo mio vecchio post http://diutifri.blogspot.it/2014/09/donne-nella-follia.html
(E chissà perché trovo una poesia sublime, fatta di versi od altro, in tutte le donne di cui ho accennato)
Il mistero si nutre di contraddizioni. Nella poesia di Alda Merini mi sento autorizzata a smarrirmi in un dedalo di verità e menzogna, di forzature e autentica genialità, posso lasciarmi andare al pensiero che come esseri umani abbiamo il diritto di mescere sentimentalismi e gelide sentenze specchio di verità. Libertà al suo grado più alto poter essere tutte queste cose insieme. Un sentiero da percorrere senza regole che mi riempie di una strana gioia, la gioia sempre ambivalente e priva di contorni netti che è per me la poesia.
Bello e sempre illuminante ciò che scrivi sulle tue letture.
Un caro saluto Ettore
Elena
La diversità, l’originalità, si pagano quasi sempre in questa società omologata. Bello il tuo post, Lisa.
@Elena
Sì, la poesia è sempre ambivalente, ambigua, sintetizza la molteplicità delle nostre contraddizioni. In essa ci si smarrisce e ci si ritrova. Grazie Elena, un caro saluto anche a te.
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